Ieri il Sottosegretario Alfredo Mantovano ha annunciato l’introduzione nel decreto legge Caivano “il governo immagina di inserire disposizioni suggerite dagli operatori del territorio: in particolare, una pratica abbastanza diffusa è la cosiddetta stesa, ossia procedere in armi sparando a dimostrazione di una sorta di predominio sul territorio. Finora era una aggravante rispetto ad altri reati, ora immaginiamo di trasformarla in un delitto autonomo, che verrà punito in sé”, ha confermato il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
L’introduzione del reato di “stesa” appare l’ennesima forzatura dettata più da scopi propagandistici che da esigenze di politica criminale.
Le perplessità in tema sono state espresse, in una intervista pubblicata sul quotidiano Il Foglio il 18 settembre del 2023, da Vincenzo Maiello, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Napoli Federico II e avvocato: “Non sono affatto d’accordo”, non solo per il contenuto della proposta di FI, ma soprattutto per quello che segnala: la tendenza della politica a usare il diritto penale per mostrare i muscoli all’opinione pubblica.
“Innanzitutto dovremmo metterci d’accordo su cosa sia la stesa”, afferma Maiello. “Nella realtà napoletana, la stesa consiste non solo nell’esplosione di colpi d’arma da fuoco in aria, ma anche nel puntare le armi contro persone affacciate su balconi o alle finestre per costringerle a ritirarsi. È un tipo di fenomeno ben presente agli uffici giudiziari napoletani. Questi fatti vengono imputati agli autori a titolo di violenza privata aggravata dal metodo mafioso”.
“Il controllo del territorio – prosegue Maiello – è dunque intrinseco alla condotta: se un gruppo di ragazzi a bordo di motocicli esplode colpi di arma da fuoco e punta le armi nei confronti delle persone questa è una forma di controllo del territorio che estrinseca il metodo mafioso”. Insomma, spiega il docente, “il nostro ordinamento già prevede al suo interno una risposta ad hoc per questa forma di protervia criminale”.
“La politica – dichiara Maiello – mostra di considerare il diritto penale una sorta di supermercato al quale rivolgersi ogni qualvolta avverte compulsivamente il bisogno di placare i bisogni emotivi di rassicurazione collettiva. Ma i prodotti che acquista di volta in volta differiscono solo per le etichette, essendo identici per contenuti e qualità della risposta. Il danno è duplice: sul piano pratico, si ingolfa il catalogo dei reati, con complicazioni interpretative che rischiano di aumentare la confusione e l’ineffettività del sistema; sul piano ideologico e politico-culturale, questa impostazione tradisce la concezione del diritto penale quale extrema ratio della politica sociale”.
“Il legislatore – aggiunge il giurista – dovrebbe dare attuazione a una regola aurea della politica criminale liberaldemocratica, secondo cui il reato e la pena costituiscono risposte non contingenti – bensì meditate e razionali secondo i valori e gli scopi perseguiti – a una autentica ed effettiva esigenza. Tutto questo stride con la compulsività ‘pavloviana’ e quasi isterica con cui si ricorre agli strumenti penalistici, ogni qualvolta un fatto di cronaca, amplificato sulla scena mediatica, colpisce il nervo scoperto dell’indignazione popolare”.
In questo ricorso costante agli strumenti della giustizia penale, Maiello vede “una forma di delega al potere giudiziario a trattare fenomeni rispetto ai quali dalla politica ci si aspetterebbe invece un’attenzione orientata alla rimozione delle cause”: “La politica continua a fingere che i fenomeni criminali sono espressione di contesti multifattoriali e hanno radice nella corresponsabilità sociale. Se si continua a non intervenire sulle cause dei problemi, spostando l’attenzione sui soli sintomi, la malattia avrà tempo e modo per incancrenirsi e la lotta alle sue manifestazioni assumerà connotazioni donchisciottesche”, conclude Maiello.
Come dargli torto?
E, soprattutto, come evitare di trasformarci tutti in cani ammaestrati dal Pavlov di turno?
