Mimmo Lucano e il caso Riace: contrapposizioni ideologiche e differenti visioni giudiziarie (di Vincenzo Giglio)

Premessa

Ieri, 11 ottobre 2023, la Corte di appello di Reggio Calabria ha deciso il secondo grado del giudizio conseguente all’azione penale intentata dalla procura della Repubblica di Locri nei confronti di Domenico Lucano ed altri.

Il procedimento, localmente denominato Operazione Xenia, ha esplorato le politiche di accoglienza e integrazione degli immigrati attuate nel Comune di Riace negli anni in cui Lucano ne è stato il Sindaco.

Il primo grado del giudizio, svoltosi dinanzi al Tribunale di Locri e concluso a settembre del 2021, si è risolto con l’accoglimento pressoché integrale delle proposizioni accusatorie e con la condanna dell’imputato principale alla pena complessiva di tredici anni e due mesi di reclusione.

La Corte d’appello reggina ha drasticamente riformato la decisione dei primi giudici, assolvendo da ogni accusa 17 dei 18 imputati complessivi e circoscrivendo la responsabilità del restante imputato, Domenico Lucano, ad un’unica ipotesi di abuso d’ufficio, sanzionata con la condanna ad un anno e sei mesi di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Si potrà discutere consapevolmente del percorso argomentativo dei giudici di appello solo dopo il deposito della motivazione ma nel frattempo il dispositivo è sufficiente a legittimare l’opinione di una sconfessione generalizzata dell’”idea” che ha sorretto l’accusa prima e la sentenza di primo grado dopo: quella che si fosse costituita attorno a Lucano una rete di malaffare che lucrava utilità economiche e vantaggi di immagine sfruttando illecitamente le risorse assegnate al Comune di Riace in quanto Comune partecipe dei programmi di accoglienza dei migranti.

Nell’intento di contribuire ad una migliore comprensione dell’esperienza riacese, propongo un ampio estratto di un articolo a mia firma dal titolo Volevo un finale perfetto, pubblicato a maggio del 2019 sulla rivista giuridica Diritto Penale e Uomo, consultabile nella sua versione originaria e integrale a questo link.

I dati che vi sono inseriti e lo sviluppo della vicenda amministrativa e giudiziaria sono ovviamente aggiornati alla data della pubblicazione.

1. L’inizio

È il 1998.

Domenico “Mimmo” Lucano, insegnante di professione, è un semplice cittadino di Riace, un Comune del versante jonico della provincia di Reggio Calabria.

Riace ha una conformazione territoriale e sociale assai simile a quella di tanti altri Comuni della medesima area. È diviso in due insediamenti: quello adiacente alla costa, Riace Marina, e quello della zona collinare interna, Riace Borgo. Ha scarsità di abitanti, di risorse e attività economiche, è a rischio di spopolamento. Sul suo tratto costiero sbarcano periodicamente stranieri provenienti da varie zone del mondo.

Incuriositi dal modello di accoglienza avviato l’anno prima nel Comune catanzarese di Badolato, Lucano ed altri riacesi provvedono all’accoglienza di primi nuclei di profughi curdi.

Segue la costituzione di Città Futura e Il Borgo e il cielo, organismi pensati per la gestione di progetti di recupero delle abitazioni abbandonate e dei vecchi laboratori artigiani.

2. La nascita del modello Riace

Nel 2004, dopo cinque anni da consigliere di minoranza, Mimmo Lucano viene eletto sindaco di Riace e indirizza l’azione amministrativa verso una decisa intensificazione delle politiche di accoglienza, anche attraverso l’adesione a programmi solidali animati da vere e proprie reti di enti locali.

Nel 2009 ottiene un secondo mandato e prosegue lungo le medesime direttrici.

L’esperienza di Riace acquisisce una crescente visibilità, anche internazionale.

Lucano, identificato come il simbolo della “primavera” riacese, diventa un volto noto ben oltre la Calabria e il Sud.

Vince premi, ottiene tributi e riconoscimenti.

Il modello di accoglienza da lui ispirato viene studiato e considerato tra i più adatti a promuovere condizioni di pacifica convivenza tra genti di differente appartenenza etnica, culturale e religiosa.

3. Un piccolo laboratorio d’umanesimo

È il 2009 e Wim Wenders gira Il volo che uscirà nella sale l’anno dopo.

La Regione Calabria, finanziatrice del progetto, è interessata a divulgare e promuovere gli esperimenti di accoglienza solidale avviati da alcuni Comuni calabresi e Wenders, che due anni prima ha girato Palermo Shooting, sembra avere una speciale sensibilità per il Sud d’Italia e le sue storie.

Ne viene fuori un docu-film di circa 30 minuti, girato tra Scilla, Badolato e Riace, interpretato da attori noti come Ben Gazzara e Luca Zingaretti ma i cui protagonisti sono gli immigrati, quelli veri, le cui voci risuonano tra le stradine di quei Comuni.

La storia è semplice.

In un borgo calabrese abbandonato arriva dal mare un barcone di profughi.

Potrebbero venirne caos o conflitti ma il sindaco (interpretato da Gazzara ma liberamente ispirato a Lucano che peraltro appare nel film nella parte di se stesso) vi intravede invece una prospettiva.

La gente arrivata da terre lontane non è una minaccia e neanche un ingombro.

Quegli uomini, quelle donne, quei bambini possono essere la vita che torna e in effetti così sarà.

La scuola riaprirà, gli antichi mestieri avranno di nuovo i loro artigiani, ci saranno finalmente abbastanza bambini per giocare a pallone.

Non mancheranno difficoltà burocratiche ma la passione e la determinazione riusciranno a venirne a capo.

Il volo ottiene il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati il cui rappresentante, il danese Laurens Jolles, riconosce all’opera non solo la bellezza artistica ma anche il merito di avere dato voce e immagine a corpi sociali sensibili all’accoglienza e all’integrazione.

Anche Wenders ne è acutamente consapevole: «Ho visto un paese capace di risolvere, attraverso l’accoglienza, non tanto il problema dei rifugiati, ma il proprio problema: quello di continuare a esistere, di non morire a causa dello spopolamento e dell’immigrazione. E ho voluto raccontare questa storia in un film che ha come attori i veri protagonisti».

Ma Riace non si accontenta dell’attenzione ricevuta da intellettuali e artisti.

Diventa esso stesso produttore d’arte, bellezza, memorie, cultura, resistenza civile.

Vi si organizzano rassegne teatrali, si propiziano microimprese artigianali, si sperimenta una sorta di moneta virtuale spendibile in attesa dei fondi ministeriali stanziati per i progetti di accoglienza, si recuperano case abbandonate per utilizzarle al servizio di un turismo diffuso e solidale, si avvia una fattoria didattica come incubatore di attività agricole e di allevamento, si restituiscono all’uso vecchi frantoi, si immagina e realizza l’erogazione di alcuni servizi pubblici a basso impatto ambientale (ad esempio, la raccolta dei rifiuti fatta da addetti che si inerpicano per le strade del paese in groppa ad asinelli), si collocano in modo ben visibile simboli di fratellanza e rifiuto della violenza.

Soprattutto, si realizza tutto questo sollecitando ed ottenendo la collaborazione di tutti gli abitanti, natii e immigrati, uniti nel comune sforzo di tenere in vita un luogo dal quale la vita si stava allontanando.

4. Gli strumenti dietro il “modello”

Nel 2014 Mimmo Lucano ottiene con largo consenso il suo terzo mandato da sindaco.

Il “modello Riace” funziona da anni, è diventato una realtà nota e consolidata, così tanto da attirare sempre nuovi migranti e da indurre i vecchi a desiderare di rimanere nella terra che li ha accolti e gli ha dato un luogo che possono chiamare casa.

Il progetto si regge su un reticolo di iniziative, concepite in modo da corrispondere quanto più possibile ai bisogni della comunità migrante stanziata sul territorio riacese ed a quelli, in parte nuovi, della comunità che li ha accolti.

Una politica sociale di respiro così inusuale va ben oltre le magrissime risorse comunali e riguarda una materia (diritto di asilo e immigrazione) che l’art. 117, comma 2, lettere a) e b), Cost. riserva alla legislazione esclusiva e alla potestà regolamentare dello Stato.

Riace deve quindi attingere alle finanze erariali e per farlo deve inserirsi nei progetti che lo Stato mette in campo per l’assicurazione del diritto di accoglienza. 

4.1. Il previgente sistema nazionale nelle materie del diritto d’asilo e dell’accoglienza dei migranti e la partecipazione del Comune di Riace

Alcuni recentissimi interventi legislativi, attuati con il D.L. 113/2018, convertito con modifiche nella L. 132/2018, e con la L. 145/2018, hanno modificato in modo piuttosto esteso e su aspetti di rilievo il precedente assetto normativo dell’accoglienza dei migranti nel territorio nazionale.

Se ne parlerà in dettaglio in un paragrafo successivo.

La storia del “modello Riace” e del sindaco Lucano si è svolta però per intero nella vigenza del precedente regime e questo rende opportuno illustrarne le coordinate di fondo.

Il sistema, configurato nel tempo attraverso più interventi legislativi culminati nel D. Lgs. 142/2015, è articolato in due fasi: la prima accoglienza, finalizzata all’identificazione dei richiedenti di asilo e alla presentazione della relativa domanda; la seconda accoglienza e l’integrazione.

La prima fase si svolge essenzialmente all’interno dei CPA (Centri governativi di prima accoglienza), dei CARA (Centri accoglienza richiedenti asilo) e dei CPSA (centri di primo soccorso e accoglienza), la seconda ruota attorno alle strutture dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).

Se i posti disponibili in tali ambiti sono esauriti, soccorrono per periodi limitati i CAS (Centri di accoglienza straordinaria).

Lo SPRAR rientra nelle competenze del Ministro dell’Interno il quale le esercita avvalendosi del Servizio centrale di informazione, promozione, consulenza, monitoraggio e supporto tecnico agli enti locali che prestano servizi di accoglienza (Servizio centrale).

LO SPRAR è alimentato dal FNSPA (Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo), il cui scopo è sostenere finanziariamente gli enti che prestano servizi rivolti agli stranieri richiedenti asilo, rifugiati, ammessi a forme di protezione umanitaria o minori non accompagnati, accogliendoli nel loro territorio sempre che siano privi di mezzi di sussistenza e non debbano essere trattenuti presso un Centro di identificazione.

Il sistema prevede infatti come soggetti attuatori primari gli enti locali territoriali, sebbene le linee guida ministeriali approvate con DM del 10 agosto 2016 abbiano loro consentito di servirsi di enti attuatori privati purchè in possesso di una comprovata e pluriennale esperienza nella materia della gestione dell’accoglienza.

L’approvazione delle domande di contributo proposte dagli enti spetta ad una commissione istituita presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, a sua volta incardinato nel ministero dell’Interno.

L’ammissione dei singoli individui nello SPRAR avviene sulla base di una loro istanza in cui è necessario attestare l’assenza di adeguati mezzi di sussistenza per sé e gli eventuali familiari.

Spetta alle Prefetture verificare l’esistenza dei requisiti e, in caso positivo, inviare il richiedente nella struttura individuata all’interno dello SPRAR.

Il tempo di permanenza nella struttura, secondo la regolamentazione contenuta nel D. Lgs. 142/2015, è tarato su un periodo standard semestrale (che per i minori decorre solo dal compimento della maggiore età) che può essere prorogato in ragione di specifiche esigenze personale del rifugiato ma anche ridotto ove intervengano la revoca o l’abbandono volontario o provvedimenti di allontanamento o di altra destinazione.

Durante la permanenza l’ospite della struttura ha diritto a ricevere una serie di servizi minimi che comprendono il suo mantenimento materiale, l’assistenza medica, l’apprendimento della lingua italiana e la formazione professionale e l’orientamento al lavoro.

Lo SPRAR si configura quindi come una misura temporanea, una soluzione ponte fino al raggiungimento dell’autonomia individuale dell’interessato.

Gli enti locali attuatori presso i quali siano indirizzati i soggetti ammessi al programma sono tenuti a plurimi adempimenti che soddisfano tre obblighi fondamentali: la documentazione aggiornata delle attività svolte e dei loro risultati, l’assicurazione delle condizioni di legge per la gestione di ciascuno dei servizi somministrati, la corretta ed esaustiva rendicontazione finanziaria delle spese.

Il terminale di questi adempimenti è il Servizio centrale.

L’ulteriore ambito in cui si è inserito il Comune di Riace è il già menzionato CAS, un insieme di strutture temporanee presso le quali i Prefetti possono disporre la sistemazione provvisoria di stranieri e apolidi in attesa della disponibilità di posti nei CPA e nello SPRAR.

Per l’esercizio delle loro competenze in materia, le Prefetture stipulano convenzioni con gli enti locali nel cui territorio sono presenti le strutture in esame, ai quali viene liquidato un corrispettivo in cambio del servizio reso.

La Prefettura di Reggio Calabria e il Comune di Riace hanno stipulato nell’aprile del 2014 una convenzione di questo genere finalizzata alla gestione dei servizi di accoglienza di stranieri richiedenti protezione internazionale, prevedendo a favore dell’ente locale un importo di € 30/giorno (poi aumentato a € 35) per ogni ospite da liquidarsi previa trasmissione del provvedimento di liquidazione e della pertinente documentazione amministrativa e contabile.

La convenzione è scaduta nel 2016 e non è stata più rinnovata.

Il Comune di Riace ha partecipato inoltre, fino a tutto il 2017, al Progetto di accoglienza dei minori stranieri non accompagnati (MSNA), anch’esso regolato dal D. Lgs. 142/2015.

Esso si fonda su strutture di prima accoglienza destinate specificamente ed esclusivamente all’ospitalità dei minori non accompagnati.

La permanenza non può oltrepassare 30 giorni.

L’attivazione di ogni singola struttura passa anche in questo caso attraverso una convenzione tra il Ministero dell’Interno e l’ente locale sul cui territorio risiede la stessa. La loro gestione spetta al medesimo Ministero ma è consentita la stipula di convenzioni con gli enti locali.

Cessato il MSNA, la protezione prosegue ordinariamente con il passaggio allo SPRAR.

4.2. I numeri

Nel quadriennio 2014/2017 sono arrivate via mare in Italia circa 623.000 persone.

La straordinarietà dell’afflusso ha stravolto il sistema nazionale di accoglienza, costringendolo a conformarsi in modo differente da come è stato concepito.

Nel 2014 le strutture d’accoglienza ospitavano complessivamente circa 66.000 persone di cui 45.000 nelle strutture di prima accoglienza e 21.000 nello SPRAR.

Nel 2017 i migranti accolti erano divenuti circa 183.000 di cui 159.000 nelle strutture di prima accoglienza e gli altri nello SPRAR[1].

Il flusso migratorio straordinario si è ovviamente riversato in gran parte sui CAS che tuttavia sono stati pensati come luoghi che soddisfano soltanto esigenze primarie (essenzialmente vitto e alloggio) mentre risultano inadatti a fornire strumenti di integrazione.

Il problema è acuito dal contestuale balzo in avanti delle domande di asilo e di permesso per protezione umanitaria o sussidiaria o per rifugiati presentate dalla gran parte dei migranti e dai rilevanti tempi medi impiegati dall’apposita commissione per la loro definizione.

Quanto allo SPRAR, il più recente aggiornamento del Ministero dell’Interno attesta l’attuale operatività di 875 progetti che coinvolgono 645 Comuni, 19 Province, 28 Unioni di Comuni e altri 54 enti di vario genere e la copertura finanziaria di 35.650 posti (di cui 31.216 ordinari, 3.730 per minori non accompagnati, 704 per persone con disagio mentale o disabilità).

La distribuzione territoriale dei posti è particolarmente significativa: in testa c’è la Sicilia (4.756 posti, 82 enti locali coinvolti e 112 progetti), seguono il Lazio (4.467, 48 e 57), la Calabria (3.537, 109 e 1239), la Puglia (3.445, 92 e 112) e l’Emilia Romagna (3.038, 23 e 35). Bisogna arrivare al settimo posto per trovare la Lombardia, all’ottavo il Piemonte e al nono la Toscana. Non mancano altre curiosità: il minuscolo Molise è assegnatario di 1.028 posti, più dei 784 assegnati al Veneto, assai più dei 400 assegnati alla Sardegna[2].

5. Considerazioni d’insieme sul sistema nazionale d’accoglienza dei migranti

I dati e i numeri di sintesi esposti nei paragrafi precedenti consentono di individuare alcune delle caratteristiche salienti del nostro modello di accoglienza dei migranti.

Lo Stato, e per esso, in prima fila, il dicastero degli Interni, ne determina tutte le coordinate.

Stabilisce chi ha diritto all’accoglienza, come deve essere verificato e garantito tale diritto, per quanto tempo ne sia consentito l’esercizio, quante risorse debbano essere destinate ad esso e quali siano i controlli sull’adeguatezza della loro destinazione.

È statale ogni anello della catena gerarchica che ha voce in capitolo: Ministero dell’Interno, Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, Servizio centrale, Commissione per la valutazione delle domande di ammissione allo SPRAR, Prefetture.

È imputata allo Stato anche la gestione formale degli strumenti e dei progetti messi in campo per l’accoglienza.

Con un distinguo di non poco conto, tuttavia: la gestione concreta coinvolge significativamente gli enti locali, tramite la stipula di convenzioni ad hoc.

Questa configurazione vale soprattutto per la seconda accoglienza, quella che ruota attorno allo SPRAR ed ai progetti che lo attuano.

Anche la prima accoglienza, tuttavia, ha un rilevante impatto sugli enti locali o, forse è meglio dire, sulle comunità e sui territori di cui quegli enti sono espressione.

Si consideri infatti che i cosiddetti hotspot, cioè l’insieme delle strutture chiamate ad assorbire il primo impatto delle ondate migratorie, sono comprensibilmente dislocati soprattutto nei luoghi privilegiati di sbarco dei migranti, cioè Sicilia, Calabria e Puglia.

Le popolazioni e le amministrazioni locali diventano dunque sentinelle, testimoni e compartecipi dei movimenti migratori, ne assorbono la carica emotiva e la dimensione problematica e testano di continuo la propria capacità di tolleranza.

È ugualmente degno di nota che questo impatto primario coinvolga soprattutto Comuni meridionali, spesso di piccole dimensioni, dotati di scarse risorse e di modesti apparati tecnico-amministrativi.

Esattamente come Riace.

Come si è visto, poi, le politiche di integrazione sono affidate alla seconda fase dell’accoglienza.

Programmi ricchi di impegni, garanzie e opportunità ma, ancora una volta, caricati soprattutto sulle spalle di piccoli enti territoriali, quasi sempre sprovvisti delle professionalità necessarie e dunque costretti a rivolgersi ad organismi privati che, a loro volta, in quanto espressione di territori economicamente depressi, raramente sono in grado di colmare il gap conoscitivo ed esperienziale degli enti che li chiamano in soccorso.

Il disegno istituzionale – si è visto anche questo – vorrebbe che quei programmi siano limitati nel tempo sul presupposto corretto che l’accoglienza non deve trasformarsi in assistenzialismo e che lo Stato non può farsi a carico a vita dei problemi esistenziali di nessuno.

Ma è soltanto un auspicio che viene frustrato già nella prima fase del percorso di reinserimento se solo si considera che ormai da anni i CAS assorbono 8 migranti su 10 sicché la straordinarietà è diventata standard e le politiche attive di istruzione, formazione, orientamento e inserimento sono appannaggio di pochi.

La configurazione reale del modello statale di accoglienza genera così un duplice effetto negativo: il territorio ospitante si trasforma in un centro di allocazione temporanea e all’impegno speso dalle sue strutture non segue alcun valore aggiunto; lo straniero ospite disperde in fretta il senso della pur precaria identità che l’accoglienza gli ha offerto.

Si manifestano poi anche altre caratteristiche che emergeranno con maggiore evidenza nei paragrafi successivi.

Le politiche di accoglienza dipendono in larga misura dall’impostazione ideologica della maggioranza al potere e, se in passato era dato scorgere sensibilità e approcci sensibilmente differenti, la tendenza contemporanea sembra consistere in una vistosa enfatizzazione dei temi securitari e in una corrispondente contrazione dell’afflato umanitario, all’insegna di parole d’ordine come “Prima gli italiani”, “Aiutiamoli a casa loro” o altre meno sofisticate e più crude e intolleranti.

Conta infine, come sempre, il fattore umano: qualsiasi strumento è regolato da norme e da prassi applicative e le une e le altre dipendono non da un uomo astratto, non dal buon padre di famiglia, ma da uomini veri, investiti di cariche pubbliche e di poteri, che danno un certo significato al diritto, adottano certe condotte e ne evitano altre.

Se questi uomini interpretano la tendenza contemporanea di cui si appena detto o addirittura ne sono gli ispiratori, se l’intera catena decisionale ha una configurazione gerarchica sicché l’input politico non è arricchito o mediato da alcuno spunto critico, allora può capitare che il senso complessivo della legislazione e i valori costituzionali di cui è o dovrebbe essere la realizzazione siano intesi all’insegna di un’ottica minimizzatrice e ragioneristica.

Se ne riparlerà.

6. I controlli sul Comune di Riace e le conseguenze che ne sono derivate

Le difficoltà e le non poche contraddizioni del sistema nazionale di accoglienza e la continua condizione emergenziale che ne caratterizza l’attuazione aumentano a dismisura il rischio di errori, deficit gestionali e organizzativi, scelte affrettate e quindi foriere di problemi successivi.

È un rischio che sarebbe erroneo associare soltanto ai segmenti terminali dell’accoglienza, cioè le attività imputabili agli enti locali ed agli organismi privati di cui si avvalgono.

Al contrario, esso non risparmia nessuno degli anelli della catena.

Una sola fonte per tutte: la relazione della Sezione centrale di controllo della Corte dei Conti sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato dal titolo «La “prima accoglienza” degli immigrati: la gestione del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (2013-2016)»[3].

Vi si leggono espressioni del genere: «attuale incapacità da parte del Ministero di tracciare la presenza e gli spostamenti dei richiedenti asilo, anche da una struttura all’altra»; «Inoltre, si è osservata una carenza da parte di alcune prefetture che hanno fornito dati non sempre controllati e puntualmente verificati. Nello stesso caso, a seguito di verifiche mirate su varie società alle quali il comune aveva affidato i relativi servizi a favore degli immigrati, si è reso necessario emettere provvedimenti interdittivi antimafia. Infine, dalle risposte fornite da alcune prefetture, si è riscontrata una rappresentazione dei dati contabili e delle presenze effettive nei centri di accoglienza non sempre attendibile»; «In generale, una criticità è emersa dalla non puntuale contabilizzazione dei dati gestionali, soprattutto con riguardo al rilevamento delle effettive presenze giornaliere nei centri, e l’assenza di un corretto sistema di controllo da parte di una prefettura; il che non ha consentito di far emergere preventivamente specifiche anomalie, per le quali sussistono procedimenti penali pendenti presso le Procure della Repubblica di Avellino e Napoli. Inoltre, desta perplessità il fatto che un ufficio territoriale di Governo non sia stato in grado di fornire dati attendibili circa i costi giornalieri, sostenuti per la gestione della prima accoglienza. È infatti emerso che il costo giornaliero pro capite di ogni migrante per l’anno 2014 ha toccato la cifra massima di 50,39 euro, per l’anno 2015 si è scesi al minimo di 21,87 euro e per l’anno 2013 erano stati spesi mediamente 32,89 euro (cfr. tabella 31); di contro, dai dati forniti dalla Guardia di finanza, risulta che la spesa giornaliera pro capite sarebbe oscillata da un minimo di 30 euro per il 2014 ad un massimo di 35 euro per l’anno 2015. Ciò denota la incongruenza dei dati forniti, che è sintomatica di un disordine contabile e che certamente non salvaguarda i principi di buona amministrazione. Da ciò si dovrebbe trarre motivo per ritornare al più presto alle regole di contabilità ordinaria, soprattutto in quelle realtà territoriali ove il fenomeno dell’accoglienza dei richiedenti asilo non assume più carattere emergenziale».

Critiche e rilievi specifici hanno poi riguardato la situazione del comprensorio di Reggio Calabria: «l’analisi dei dati forniti dalle prefetture in sede di indagine, in alcuni casi (prefetture di Avellino e Reggio Calabria), ha mostrato ampi disallineamenti rispetto a quelli rilevati dalla Guardia di finanza con accertamenti in loco»; «a seguito di appositi bandi di gara ad evidenza pubblica anche europei, andati deserti, è mancato, nel trasferire ai comuni la gestione del sistema di accoglienza, un idoneo raccordo tra la Prefettura di Reggio Calabria e gli enti locali nell’individuazione dei soggetti gestori dei centri di accoglienza, benché tale individuazione avrebbe dovuto essere effettuata dai prefetti, ai quali spetta, altresì, di condurre le verifiche ed i riscontri sulle specifiche attività svolte dagli operatori»; «La prefettura di Reggio Calabria ha specificato che le uniche strutture presenti sul territorio provinciale, nel periodo 2010-2014, riguardavano i centri di primo soccorso e assistenza che, a tutto il 2013, non sono stati da essa gestiti, mentre, negli anni 2014 e 2015, visti gli esiti negativi con cui si erano concluse due manifestazioni d’interesse e una procedura di gara aperta per operatori economici privati, ha stipulato due convenzioni con i comuni di Riace e Monasterace»; «il sistema di accoglienza straordinaria dei richiedenti asilo è stato gestito, nel periodo 2014-2015, con procedure non conformi alla circolare ministeriale n. 104/2014. Infatti, la prefettura, in assenza di manifestazioni di interesse per tre gare di evidenza pubblica, aveva assegnato le attività di assistenza ai migranti direttamente alla Caritas diocesana, all’ente parco nazionale dell’Aspromonte, e, come già detto, ai comuni, nonostante la circolare di cui sopra non consentisse di delegare alle istituzioni locali (comuni, enti, ecc.) la scelta dei gestori cui attribuire l’affidamento dei servizi di accoglienza oltre i conseguenziali controlli, sia preventivi che successivi, sui soggetti effettivamente appaltatori dei contratti pubblici. Del resto, i comuni e gli altri enti territoriali affidatari dei servizi di accoglienza non possiedono strutture, risorse e competenze per eseguire i controlli necessari nell’ambito dell’affidamento a soggetti delle attività di gestione del servizio di accoglienza. Dalle indagini svolte dalla Guardia di finanza si è rilevato che i soggetti gestori sono stati selezionati direttamente dai comuni, nonostante che la richiamata circolare n. 104 preveda, al contrario, che tale scelta sia effettuata dalla prefettura “in raccordo con gli enti locali”. Nel caso di specie, pertanto, sarebbero stati delegati dalla prefettura agli enti locali poteri che la prefettura avrebbe dovuto esercitare direttamente, nonché “in raccordo” con i comuni».

La relazione fa infine presente che «La Regione Calabria, con la l. 12 giugno 2009, n. 1852, ha previsto un piano a livello locale finalizzato a sostenere: a) la gestione di interventi di accoglienza e di orientamento legale e sociale degli stranieri accolti presso le comunità locali nelle quali si realizzino gli specifici interventi previsti dalla stessa legge; b) l’avvio di programmi, anche innovativi, di supporto all’inserimento lavorativo, anche tramite la creazione di nuove attività economiche imprenditoriali che coinvolgano direttamente sia i beneficiari dei programmi di accoglienza che la popolazione autoctona; c) la gestione di interventi di assistenza specifica per i richiedenti asilo, i rifugiati, ed i titolari di protezione sussidiaria ed umanitaria portatori di esigenze particolari; d) la realizzazione di interventi volti a sostenere il proseguimento degli studi, il riconoscimento dei titoli di studio e dei titoli formativi acquisiti nei paesi di origine verso gli stranieri accolti; e) la ristrutturazione, riqualificazione ed adeguamento, nonché affitto, arredamento e manutenzione delle strutture abitative destinate all’ospitalità; f) la riqualificazione, l’adeguamento e l’allestimento di strutture destinate a fungere da centri di aggregazione sociale e culturale per gli stranieri accolti e per la comunità locale; g) la realizzazione di programmi e produzioni culturali, anche plurilingue, ed interventi di formazione e sensibilizzazione. Conseguentemente, non avendo un dettaglio a consuntivo delle spese sostenute con il fondo gestito dal Ministero dell’interno (dati disaggregati pro capite e pro die), non è facile comprendere se i contributi della regione (aggiuntivi ai 30/35 euro statali) siano serviti per realizzare gli scopi previsti dal legislatore regionale, ovvero se l’erogazione delle stesse abbia determinato il pagamento della prestazione all’immigrato per la quale era già stanziata la quota statale».

Sarebbe esagerato equiparare ad un marasma la situazione descritta dalla magistratura contabile ma è certo che l’elevata complessità degli effetti dei movimenti migratori di massa sul nostro Paese ha generato difficoltà a carico di ciascuno dei livelli decisori e organizzativi chiamati a farsene carico.

Sulla base di queste premesse si può adesso analizzare con qualche strumento in più la relazione, risalente alla seconda metà del 2018, della Direzione centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo del Ministero dell’Interno che ha comportato la revoca dell’affidamento del progetto SPRAR avviato nel Comune di Riace[4].

Il documento è una sorta di cahier de doléances, un dettagliato atto di accusa e di condanna.

Si contestano violazioni diffuse: sovrapposizione di strutture e operatori tra SPRAR e CAS; utilizzo di unità abitative non preventivamente autorizzate; disallineamenti delle presenze constatate nelle abitazioni rispetto alle notizie risultanti nella banca dati SPRAR; presenze di migranti non aventi diritto o per i quali è già decorso il termine massimo di accoglienza (i cosiddetti lungopermanenti); mancata o tardiva registrazione dei contratti da cui deriva la disponibilità delle abitazioni; carenze nel rispetto degli standard abitativi e delle condizioni di decoro e igiene degli alloggi; contestazioni sull’uso dei bonus e del pocket money; violazioni plurime delle regole previste per l’affidamento a organismi esterni dei servizi attuativi dello SPRAR; carenze nei progetti individualizzati, nell’orientamento legale, nei corsi di apprendimento della lingua, nelle attività di formazione e qualificazione professionale e orientamento al lavoro; assenza di mediatori linguistici professionali; la carente specializzazione degli operatori SPRAR ed altri rilievi di dettaglio.

Il Comune di Riace ha provato a replicare in questi termini: l’ente soffre di una generale carenza di risorse finanziarie e il problema è aggravato dal ritardo cronico dei corrispettivi dovuti per il servizio reso; la commistione di presenze nelle abitazioni deriva dal fatto che le persone ospitate si incontrano tra loro ed hanno normali relazioni umane; i disallineamenti abitativi dipendono dall’esigenza di fronteggiare situazioni particolari oppure dalla mancata sincronia tra la partenza di vecchi ospiti e l’arrivo di nuovi; il trattenimento di ospiti oltre (talvolta ben oltre) la scadenza del termine massimo di legge dipende dalla situazione di particolare vulnerabilità di costoro o da serie ragioni umanitarie ed in ogni caso interpella il senso stesso dello SPRAR e delle sue finalità; il mancato rispetto degli standard abitativi dipende dalla pura e semplice mancanza dei mezzi finanziari che sarebbero necessari per la loro messa a norma; il largo ricorso ai bonus e al pocket money serve a far sì che i migranti, piuttosto che subire la mortificazione della consegna di derrate alimentari alla stregua di una carità, abbiano una sia pur modesta autonomia economica e la facoltà di scegliere come e dove acquisire i beni di cui hanno necessità; il personale utilizzato per l’erogazione dei servizi è quello che il Comune di Riace può permettersi di remunerare.

Nessuna di queste giustificazioni ha funzionato e la Direzione dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo ha decretato, applicando 34 punti di penalità al Comune di Riace, la fine dell’esperienza SPRAR in quel Comune e il trasferimento/uscita di tutti gli ospiti residenti.

È improprio in questa sede e non spetta certo a chi scrive esprimere valutazioni di coerenza della decisione assunta dall’organo ministeriale.

Non si rinuncia tuttavia ad esprimere qualche impressione.

Nell’atto ministeriale, così preciso nella contestazione degli addebiti e così capillare nella confutazione degli elementi di giustificazione addotti dal Comune, sembra mancare ogni considerazione per i due aspetti che si penserebbe debbano essere quelli primari.

Le contestazioni e la decisione sono interamente fondate su astratte previsioni normative e regolamentari, in una parola su ciò che dovrebbe essere, ma non sfiorano mai ciò che è, cioè la concreta realtà che ci si è sforzati di mettere in luce nei paragrafi precedenti.

Nessuna attenzione è stata riservata alla palese disparità tra lo sforzo richiesto al piccolo Comune di Riace e la modestia delle sue risorse o alla difficoltà di gestire una situazione che tanti altri organismi territoriali si sono rifiutati di gestire. Né si è tenuto in conto che analoghe difficoltà hanno investito livelli decisionali e organizzativi posti assai più in alto nella piramide del sistema d’accoglienza.

Ciò che colpisce di più, tuttavia, è che, al di là del richiamo generico di formule normative, nessuna considerazione sembra essere stata attribuita ai migranti ospitati a Riace, cioè coloro la cui vita presente e futura dipende dalla decisione presa. Non si è ponderato in alcun modo se quella decisione fosse vantaggiosa o svantaggiosa per loro, se ne tutelasse la dignità umana o la lasciasse sullo sfondo, se, ancora più semplicemente, quegli uomini, quelle donne e quei bambini stessero bene o male nel luogo in cui la sorte li aveva condotti, se provassero speranza e contentezza o fossero in preda allo sconforto e alla disperazione.

Nulla. E questo nulla fa impressione.

Si segnala infine ai lettori, per completezza informativa, che, nell’ambito di un recentissimo movimento di Prefetti e su proposta del Ministro dell’Interno[5], il Capo del Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione è stata designata come prefetto di Roma ed al suo posto è stato nominato l’attuale prefetto di Reggio Calabria. A sua volta, la firmataria della relazione citata nella nota n. 4, già direttore centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo, è stata chiamata ad assumere le funzioni di Vicecapo del medesimo Dipartimento.

Ognuno di questi funzionari pubblici ha avuto un ruolo importante nella gestione della vicenda di Riace[6].

Due di essi occuperanno d’ora in avanti le prime due postazioni dell’apparato amministrativo cui spetta la gestione nazionale dell’immigrazione.

La politica esprime dunque fiducia nel loro operato e ne condivide la filosofia.

7. La vicenda giudiziaria

7.1. Il provvedimento cautelare del GIP di Locri

La crescente attenzione istituzionale verso l’esperienza riacese e l’infittirsi di rilievi così negativi da generare ombre sulla condotta del sindaco Lucano hanno provocato l’intervento della Procura della Repubblica di Locri, ufficio giudiziario competente per il territorio di Riace.

Ne è nato un procedimento penale iscritto a ruolo nel 2016 (localmente denominato operazione Xenia), condotto nei confronti di 31 indagati, e di cui si è avuta notizia a settembre del 2018 allorché il GIP del Tribunale di Locri ha emesso a carico di Domenico Lucano e della sua compagna Lemlem Tesfahun un’ordinanza cautelare[7].

Se ne esamina adesso il contenuto, e lo stesso si farà per i successivi provvedimenti del subprocedimento cautelare.

La pista che si vuole percorrere non porta ad alcuna pagella, non si risolve in un improprio giudizio parallelo.

Si vuole solo comprendere quali fatti siano stati presi in considerazione per costruire la base conoscitiva, quale realtà sia stata esplorata e quali tecniche di valutazione siano state adoperate per arrivare alle determinazioni proprie di ciascuna fase.

Interessa, in fondo, un’unica cosa: capire se la bellezza e l’armonia rappresentate dal film di Wenders e percepite da tanti che hanno voluto guardare con i propri occhi la realtà di Riace siano materia artistica e basta oppure possano diventare un fatto nel senso propriamente giudiziario; se siano così indefinibili ed effimere da sfuggire ad ogni tentativo di classificazione e materializzazione oppure possano concorrere a definire uno o più dei temi strutturali del giudizio penale (elemento soggettivo, possibili scriminanti ed attenuanti, a tacer d’altro).

Dalla lettura dell’ordinanza cautelare si ricava che a Domenico Lucano sono stati contestati svariati capi di imputazione.

Campeggia in primo piano l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al compimento di un numero indeterminato di delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio, tutti accomunati dal riferimento alla gestione dell’accoglienza nell’ambito dei progetti SPRAR, CAS e MSNA.

Seguono ipotesi di turbata libertà della scelta del contraente, abuso, truffa aggravata, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, falso ideologico, concussione, malversazione a danno dello Stato, falsità ideologica in certificati, turbata libertà degli incanti, compimento di atti idonei a procurare l’ingresso illegale in Italia di un cittadino straniero.

Il giudice, esposte inizialmente le coordinate normative di rilievo, si è pronunciato sui singoli capi di imputazione ed ha escluso nella quasi totalità dei casi l’esistenza del requisito della gravità indiziaria.

Così è avvenuto anzitutto per la fattispecie di turbata libertà della scelta del contraente collegata all’affidamento diretto dei servizi di accoglienza.

Il GIP rileva che ai termini “frodi” e “collusioni” impiegati dal PM non seguiva l’indicazione di alcun fatto materiale che gli desse corpo e neanche l’allegazione degli atti di affidamento e delle successive convenzioni. Manca, per così dire, la materia prima.

Segue l’accusa di abuso per avere indebitamente rendicontato e portato a rimborso gli importi connessi al prolungamento dell’ospitalità per i lungopermanenti, ben oltre la scadenza del periodo massimo di legge.

Il GIP ha ritenuto che il servizio a questa categoria di migranti fosse stato comunque reso e che andava quindi compensato il che escludeva l’indebito arricchimento.

Segue la valutazione dell’accusa di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche che sarebbe avvenuta mettendo a rendiconto nei progetti SPRAR, CAS e MSNA l’acquisto di derrate alimentari utilizzate per fini privati anziché essere destinate ai migranti e altri costi fittizi o non giustificati, condotte cui sarebbe seguito un ingiusto profitto di oltre 10 milioni di euro e un uguale danno patrimoniale per lo Stato.

Il GIP afferma che gli inquirenti abbiano commesso in questo caso un «errore tanto grossolano da pregiudicare irrimediabilmente la validità dell’assunto accusatorio». Hanno cioè considerato ingiusto l’intero importo liquidabile al Comune di Riace, come se l’ente non avesse mai erogato alcun servizio. Non solo: l’accusa si fonda su elementi inutilizzabili, poiché desunti da sommarie informazioni testimoniali rese da soggetti che avrebbero dovuto invece essere sentiti con le garanzie accordate dagli artt. 64 e 65 c.p.p., o presuntivi e congetturali, o non riscontrati.

È il turno delle plurime contestazioni di falso ideologico, collegate a 56 determinazioni di liquidazione che servivano per ottenere il rimborso degli oneri di gestione per i servizi CAS e SPRAR. Nell’opinione dell’accusa, il falso deriva dall’attestazione del sindaco Lucano di avere controllato i rendiconti di spesa pur non avendolo fatto.

Il GIP si limita a constatare che, fino al giugno del 2016, la vigente convenzione tra il Comune di Riace e la Prefettura di Reggio Calabria richiedeva la mera comunicazione del numero degli ospiti presenti e del pagamento in loro favore del pocket money. A luglio dello stesso anno fu stipulata una nuova convenzione che imponeva la documentazione delle spese e il Comune, sia pure in ritardo, la esibì.

È poi contestato il delitto di concussione, imputandosi al Lucano di avere minacciato il congelamento dei rimborsi a un commerciante presso il cui esercizio i migranti spendevano parte dei bonus per l’acquisto di detersivi e prodotti affini.

Il giudice osserva che l’accusa si fonda quasi interamente sulle dichiarazioni del commerciante il quale tuttavia, essendosi accusato di avere emesso fatture per operazioni inesistenti, avrebbe dovuto essere sentito ai sensi degli artt. 64 e 65 c.p.p. Si tratta comunque, secondo il GIP, di «persona tutt’altro che attendibile».

L’ulteriore contestazione è quella di malversazione a danni dello Stato, consistita nell’asserita distrazione di fondi corrisposti alle associazioni e cooperative coinvolte nei progetti SPRAR e CAS che, anziché per gli scopi loro propri, sarebbero stati invece in parte impiegati per l’acquisto, l’arredo e la ristrutturazione di alcune abitazioni e di un frantoio, per il pagamento dei concerti estivi tenuti a Riace o comunque prelevati e impiegati senza giustificazione e senza rendiconto.

Il GIP constata che l’accusa è riuscita a dimostrare l’esistenza di prelievi, ad opera dei responsabili degli organismi affidatari del Comune di Riace, di somme imputabili agli accreditamenti per i servizi svolti. Ritiene ugualmente provato che il sindaco Lucano abbia tentato di convincere i medesimi responsabili a concorrere al finanziamento dei concerti estivi e che sia infine riuscito a destinare parte delle somme accreditate agli organismi di cui sopra per l’acquisto o la ristrutturazione di immobili e strutture produttive compresi nel complessivo “laboratorio sociale” di Riace.

Il giudice ritiene tuttavia che la prima dimostrazione sia probatoriamente insignificante, che la seconda non sia corroborata dall’accertamento di effettivi versamenti, che la terza non sia decisiva, risultando plausibile che le spese di acquisto e ristrutturazione di immobili posti a servizio del complessivo “modello Riace” siano coerenti alle finalità pubbliche per cui i relativi importi erano stati erogati.

Merita di essere segnalata, a fini della particolare prospettiva che si segue in questo scritto, l’importanza che il GIP ha attribuito ad alcune frasi pronunciate dal Lucano nel corso di una conversazione telefonica intercettata.

«La truffa è che me ne sono approfittato. Ma l’approfittamento, e l’ho spiegato anche al Colonnello oggi, gli ho detto che ieri non sono stato utile perché non sono abituato a questo, però una cosa l’ho voluta ribadire, se lui può capire quello che ho fatto un po’ in giro, è rimasto sorpreso da questo, ho ribadito dove si trova l’economia dei 35 euro, se ci sono le fattorie didattiche, se ci sono i laboratori dell’artigianato, c’è una riqualificazione anche urbana, estetica dei laboratori, se ci sono pratiche  per l’accoglienza e per il turismo dell’accoglienza, se c’è questo frantoio, tutte queste iniziative sono servite perché dobbiamo costruire attività collaterali, perché altrimenti l’accoglienza è fine a se stessa». Questo è il passaggio testuale e il GIP l’ha richiamato quando non ha escluso la coerenza delle spese all’interesse pubblico sotteso all’erogazione dei fondi statali.

Segue una contestazione di truffa aggravata, consistita nell’asseritamente indebita corresponsione del corrispettivo previsto per il servizio di pulizia delle spiagge per gli anni 2016 e 2017 affidato con distinti contratti alla medesima cooperativa.

Il GIP rileva che il dato essenziale nell’economia della contestazione, cioè lo svolgimento del servizio da parte degli addetti di una certa associazione anziché dalla cooperativa aggiudicataria del servizio medesimo, non è stato in alcun modo verificato.

C’è poi la contestazione di turbata libertà degli incanti con cui si rimprovera al Lucano di avere affidato in modo diretto a due cooperative sociali del luogo il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti benché non fossero iscritte all’albo regionale delle cooperative e fosse quindi precluso il ricorso all’affidamento diretto.

Il GIP ha ritenuto esistente il requisito della gravità indiziaria in relazione a ciascuno degli elementi strutturali dell’imputazione che ha comunque ritenuto opportuno riqualificare in turbata libertà del procedimento di scelta del contraente.

Segue l’esame della contestazione del compimento di atti finalizzati all’illecito ingresso nel territorio nazionale di un cittadino etiope, realizzato attraverso un matrimonio di comodo (poi non riuscito per l’arresto dell’interessato in Etiopia) tra questi e Lemlem Tesfahun, in realtà sua sorella.

Il GIP ha ritenuto anche in questo caso raggiunta la soglia della gravità indiziaria.

Alla conclusione contraria è pervenuto invece in ordine alla contestazione associativa, poiché i delitti fine non sono stati convenientemente dimostrati dall’accusa.

Il giudice ha conclusivamente ravvisato l’esistenza del pericolo di reiterazione criminosa ed ha ritenuto misura adeguata per Domenico Lucano gli arresti domiciliari e per la Tesfahun il divieto di dimora nel Comune di Riace.

7.2. L’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria

Il Lucano ha impugnato il provvedimento del GIP e il TDL si è pronunciato con un’ordinanza la cui motivazione è stata depositata il 19.11.2018.

Si ricorderà che gli unici due capi di imputazione sopravvissuti al vaglio del GIP sono la turbata libertà della scelta del contraente per la vicenda dell’affidamento diretto del servizio di raccolta e trasporto della nettezza urbana e gli atti finalizzati all’illecito ingresso di un cittadino straniero in Italia.

Si riporta uno stralcio della motivazione dell’ordinanza per la prima delle due contestazioni: «l’Albo regionale era stato istituito ed era pienamente operativo e nessun problema di tempistica vi era per l’iscrizione in esso, contrariamente a quanto, in modo non corrispondente al vero, aveva farfugliato il Lucano allo Z. [responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Riace, NdA] al fine di indurlo all’affidamento diretto (…) E davvero impudente è la produzione difensiva odierna concernente delle CCTT di parte al fine di provare l’economicità e la convenienza del servizio prestato dalle due cooperative (…) Quanto alla circostanza, sottolineata dalla difesa, secondo la quale tutte queste delibere recano il parere favorevole del responsabile dell’area tecnica (…), essa è ininfluente posto che trattasi di parere tecnico e non certo di legittimità».

Il TDL dedica poi molte pagine alla seconda imputazione che qui non mette conto riportare e commentare.

Segue infine la parte relativa alle esigenze cautelari.

Vi si leggono espressioni di questo genere (riportate fedelmente anche nell’evidenziazione grafica scelta dall’estensore): «il Lucano non può gestire la Cosa pubblica né gestire denaro pubblico mai e in nessun modo. Egli è totalmente incapace di farlo e, quel che più rileva, in nome di principi umanitari ed in nome di diritti costituzionalmente garantiti viola la legge con naturalezza e spregiudicatezza allarmanti. Quel che consegna il compendio attizio, al di là di ogni più approfondita disamina della provvista indiziaria sui capi di imputazione (…) è, quantomeno, un Lucano afflitto da una sorta di delirio di onnipotenza e di mantenere quel sistema Riace rilucente all’esterno, ma davvero opaco e inverminato da mille illegalità al suo interno».

Si potrebbe continuare ancora a lungo ma le considerazioni restanti sono del medesimo tenore e non aggiungono nulla al convincimento che le frasi riportate già esprimono con la massima chiarezza.

Non si fa per ora alcun commento, poiché il passo motivazionale prescelto è di quelli che parlano da sé.

Si fanno invece due considerazioni.

L’organo del riesame motiva diffusamente anche sulle ipotesi di reato che il GIP ha ritenuto prive di consistenza indiziaria e se ne serve per rafforzare la conclusione della spregiudicatezza e della pericolosità del Luciano.

Lo stesso organo, pur avendo speso buona parte del provvedimento per evidenziare l’allarmante gravità delle condotte del Lucano e pur non mettendo minimamente in dubbio il pericolo della reiterazione del reato, gli accorda la meno restrittiva misura del divieto di dimora a Riace.

Entrambi i profili sono di difficile lettura, sia se considerati in connessione alla funzione tipica del TDL in sede di riesame, sia se vagliati in termini di pura logica.

Ci si limita tuttavia, coerentemente alla premessa di inizio paragrafo, ad offrirli all’attenzione del lettore senza alcun commento.

Occorre poi aggiungere che anche Lemlem Tesfahun ha presentato istanza di riesame al medesimo organo giudiziario il quale, in parziale riforma del provvedimento del GIP, ha sostituito l’obbligo di presentazione presso la polizia giudiziaria al precedente divieto di dimora a Riace.

7.3. Le pronunce di legittimità

Sia il Lucano che la Tesfahun hanno presentato ricorso per cassazione contro la decisione del TDL.

La decisione del ricorso del Lucano è avvenuta con la sentenza 14418/2019 della sesta sezione penale[8].

Il collegio di legittimità ha confermato il giudizio di gravità indiziaria relativo al delitto di cui all’art. 12 del D. Lgs. 286/1998, ritenendo priva di vizi logici la motivazione del TDL sul punto.

Ha invece accolto il ricorso per l’altro capo di imputazione attinente al reato ex art. 353-bis c.p.

Difettano infatti, secondo il collegio, la chiarezza e la coerenza argomentativa necessarie per la dimostrazione del mezzo fraudolento e del fine di condizionamento.

Non si è tenuto debitamente conto del carattere collegiale delle delibere e degli atti amministrativi adottati e dell’esistenza di pareri di regolarità tecnica e contabile resi dal segretario comunale e dai funzionari competenti.

Non è stato verificato, mentre sarebbe stato necessario, se esistessero altre imprese che potessero svolgere il servizio pubblico in esame e che garantissero i criteri di economicità ed efficacia.

Non è stata oggetto delle opportune verifiche una circostanza affermata dal Lucano che, se riscontrata positivamente, avrebbe avuto un peso decisivo: all’epoca dei fatti l’Albo regionale delle cooperative, pur istituito con una legge regionale del 2009, non era stato reso operativo e non era quindi possibile l’iscrizione.

Non risulta dimostrata la consapevolezza del ricorrente di avere aggirato fraudolentemente le procedure di gara né è spiegato perché al Lucano e solo a lui è stata attribuita la responsabilità di atti assunti sempre collegialmente.

Sono ugualmente fondate le critiche rivolte al ricorrente all’ordinanza impugnata nella parte riguardante le esigenze cautelari.

Il TDL si è abbandonato sul punto a considerazioni apodittiche e congetturali o fondate su argomentazioni asintomatiche o su indebite valutazioni morali e non ha tenuto conto dell’incensuratezza dell’indagato né, come avrebbe dovuto fare, delle motivazioni che hanno spinto il Lucano a favorire l’ingresso del cittadino etiope, verosimilmente legate alla relazione affettiva con la Tesfahun.

Ne è seguito l’annullamento con rinvio dell’ordinanza del TDL sui punti appena messi in evidenza.

Quanto al ricorso della Tesfahun, deciso con la sentenza 13179/2019 emessa anch’essa dalla sesta sezione penale, il suo esito è stato l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata per totale difetto delle esigenze cautelari.

7.4. Gli eventi giudiziari successivi

Nell’aprile del 2019 la vicenda giudiziaria di Domenico Lucano si è arricchita di nuovi eventi.

Il giorno 11 l’ex sindaco è stato rinviato a giudizio, assieme alla Tesfahun ed altre 24 persone, per varie ipotesi di reato comprese quelle per le quali i vari uffici giudiziari che si sono pronunciati hanno escluso la presenza di gravi indizi.

Il giorno dopo la Procura di Locri gli ha notificato l’avviso di conclusione delle indagini per nuove ipotesi di reato, contestandogli di avere falsamente attestato che le strutture di accoglienza di Riace fossero conformi alle prescrizioni della normativa in materia di idoneità abitativa, impiantistica e standard igienico-sanitari.

A distanza di una settimana il TDL di Reggio Calabria, pronunciatosi dopo l’annullamento con rinvio della Cassazione, ha confermato la misura del divieto di dimora a Riace.

7.5. Qualche osservazione conclusiva

La vicenda giudiziaria farà il suo corso e fra qualche anno arriverà la verità processuale definitiva.

I dati di cui si è a conoscenza consentono tuttavia già ora qualche conclusione.

La congerie di capi di imputazione formulati dall’accusa non ha retto affatto bene al vaglio degli organi giudiziari di controllo al punto che per una sola contestazione (quella legata all’organizzazione del matrimonio di comodo) è stata riconosciuta l’esistenza di una grave base indiziaria.

La severa sconfessione di gran parte dell’impianto accusatorio non ha tuttavia arrecato alcun beneficio concreto alla posizione di Domenico Lucano che si trova rinviato a giudizio per rispondere anche di contestazioni per le quali sembra arduo, sulla base delle valutazioni di cui si è dato conto, prevedere una futura condanna e che non può ancora oggi mettere piede nel suo luogo di residenza.

Altre imputazioni si sono aggiunte nel frattempo e, considerate insieme a quelle già formulate, compongono un manifesto d’accusa che pare voler mettere in dubbio l’intera gestione dell’accoglienza riacese ai migranti più che singoli temi amministrativi.

Nessuno degli organi giudiziari che si sono fin qui pronunciati, fatta eccezione per fugaci accenni per lo più subito seguiti da richiami all’ineluttabilità della legge, ha ritenuto che fosse suo compito guardare l’armonica bellezza trasmessa dal film di Wenders, anche solo per comprendere se le scene de Il volo fossero solo una trasfigurazione artistica o una pura e semplice verità.

Gli inquirenti, per ciò che è dato desumere dagli atti giudiziari al momento ostensibili, non hanno ritenuto di dare spazio ai migranti, non hanno ascoltato la loro voce, sicché mancano le loro percezioni sul tipo di accoglienza ricevuta, sull’adeguatezza del trattamento che è stato loro riservato, sul “senso” che hanno tratto dal loro inserimento nella comunità e nel territorio di Riace.

Allo stesso modo e per ciò che se ne sa, le indagini e i provvedimenti di chi ne ha valutato i risultati non sembrano avere anche solo provato ad esplorare le difficoltà fisiologiche della concreta gestione delle politiche migratorie ad opera di un piccolo e povero Comune dell’estremo Sud.

Così come manca radicalmente l’attenzione ai risultati sostanziali di quelle politiche, sicché, almeno per ciò che è prevedibile al momento, i giudici che dovranno valutare i fatti addebitati a Domenico Lucano e ai suoi coimputati, non sapranno se i tanti riconoscimenti che artisti, opinion leader, esponenti della politica e dell’accademia, think tank nazionali e internazionali e semplici cittadini hanno tributato al “modello Riace” e al suo ispiratore siano meritati oppure frutto di una meschina e fasulla grandeur, se l’esperimento sociale tentato in quella terra sia la realizzazione di valori costituzionali di prima grandezza o solo fuffa.

Ci si potrebbe e dovrebbe chiedere se agli inquirenti e ai giudici spetti un compito del genere.

Se gli basti il “fatto” e se quindi il giudizio inizi e si esaurisca nella contesa tra l’accusa che confeziona un’imputazione e la difesa che prova a contestarla oppure se debbano cercare l’uomo, non quello astratto, non quello corrispondente a questa o quella corrente filosofica, ma il reale essere umano che si presenta a loro per rispondere a delle accuse e l’altro essere umano, quello che si assume aver subito il male provocato dal primo.

È il dilemma eterno della giustizia penale, quello che riguarda i confini della ricerca consentita al giudice e il quantum di conoscenza la cui acquisizione, se non garantisce necessariamente il miglior verdetto, è comunque coerente allo scopo del giudizio.

Non sembra, a dire il vero, che l’operazione Xenia, chi l’ha concepita e chi l’ha finora valutata si siano posti quel dilemma o l’abbiano almeno avvertito.

Tutt’altro. Semmai il contrario. Le parole e il senso generale della motivazione del TDL reggino, tanto per fare un esempio, tradiscono una pulsione di stampo moralista, correttamente stigmatizzata dalla Cassazione, e un convincimento che va ben oltre i temi in valutazione.

Lucano non parla, farfuglia. La sua difesa è impudente. Non è un uomo razionale ma un essere delirante. Riace, nella gestione di Lucano, non è un modello ma un verminaio.

Qui, pare di poter dire, la ricerca dell’uomo non è mai iniziata perché il giudice ha ritenuto che tutto fosse già chiaro e che non occorresse andare oltre il “compendio attizio”.

Al di là delle argomentazioni appena esposte, ad alto tasso di opinabilità, una cosa è certa in modo assoluto.

Il “modello Riace” è finito, i migranti sono andati via, le strade del paese si sono svuotate e la vita che vi scorreva si è affievolita e ripiegata.

Questo è il primo durevole risultato raggiunto dalle iniziative istituzionali che si sono abbattute su Domenico Lucano.


[1] I dati statistici sui flussi migratori e sulla distribuzione dei migranti nei centri di accoglienza sono stati ricavati da un reportage di L. Misculin, pubblicato su Il Post, edizione web del 12 giugno 2018, reperibile all’indirizzo https://www.ilpost.it/2018/06/12/dati-italia-immigrazione/

Si segnala, per chi desideri un quadro di maggiore ampiezza, che dalla homepage del sito web istituzionale del Ministero dell’Interno è possibile accedere alla sezione “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati” e quindi al “Cruscotto statistico giornaliero” curato dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione che offre aggiornamenti quotidiani sull’andamento degli arrivi e sulle presenze dei migranti nelle strutture di accoglienza.

[2] I dati sullo SPRAR qui citati sono stati tratti dall’apposita scheda aggiornata a gennaio 2019, reperibile all’indirizzo https://www.sprar.it/wp-content/uploads/2019/02/SPRAR-SIPROIMI-Numeri-SITO-2019-01-31.pdf

[3] Il documento è accessibile collegandosi al sito web istituzionale della Corte dei Conti al seguente link: http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/controllo/sez_centrale_controllo_amm_stato/2018/delibera_3_2018_g.pdf

[4] Il documento è scaricabile collegandosi al seguente link: https://www.quotidianodelsud.it/calabria/politica/2018/10/13/migranti-ministero-dellinterno-cancella-modello-riace-ufficiale-revoca

[5] Se ne è data notizia nel comunicato stampa emesso in esito alla riunione del Consiglio dei Ministri del 30 aprile 2019 per la cui lettura ci si può collegare al seguente link: http://www.governo.it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n57/11467

[6] Al prefetto uscente di Reggio Calabria va anche ascritta la recente operazione che ha portato allo sgombero e allo smantellamento della baraccopoli di San Ferdinando, con l’immediato plauso del Ministro Salvini e il compiacimento dello stesso prefetto, secondo il quale si è riusciti «a coniugare legalità e umanità». Per un resoconto dell’operazione e dei suoi effetti, si rinvia a A. Candito, Il paradosso di San Ferdinando: sgomberata la baraccopoli in Calabria, una nuova tendopoli sta già nascendo, Repubblica.it, edizione web del 6.3.2019, consultabile al seguente link:

https://www.repubblica.it/cronaca/2019/03/06/news/migranti_sgombero_baraccopoli_san_ferdinando_calabria-220819472/

[7] L’ordinanza del GIP del Tribunale di Locri è stata pubblicata da Questione giustizia ed è scaricabile collegandosi al seguente link: http://www.questionegiustizia.it/articolo/l-ordinanza-di-riace-i-fatti-contro-le-polemiche_03-10-2018.php

[8] Entrambe le sentenze citate in questo sottoparagrafo sono reperibili sul sito web istituzionale della Corte di Cassazione, entrando nella sezione “Per il cittadino” e di lì accedendo a “SentenzeWeb”.