Divieto di “bis in idem” in caso di nuovo esercizio dell’azione penale in relazione al medesimo fatto oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 5 con la sentenza numero 32918/2023 ha stabilito che il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l’azione penale non già perché la querela sia stata successivamente portata all’attenzione dell’organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dall’inedita contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio.

In motivazione la Cassazione ha precisato che la valutazione sull’identità del fatto deve essere compiuta unicamente con riferimento all’elemento materiale del reato nelle sue componenti essenziali relative alla condotta, all’evento e al nesso causale.

L’art. 649 cod. proc. pen. che disciplina, appunto, il divieto di nuovo giudizio vieta che l’imputato, già giudicato per il medesimo fatto con sentenza o decreto divenuti irrevocabili, possa essere sottoposto nuovamente a procedimento penale per lo stesso fatto.

Rinviando al prosieguo per l’intervento della Corte costituzionale del 2016 sulla norma in oggetto, basti qui accennare anche e solo per completezza, in quanto la questione non riguarda il caso di specie — all’esegesi estensiva del divieto offerta da Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231800, secondo cui, a prescindere dall’irrevocabilità della sentenza o del decreto di condanna per il fatto pregresso, «Non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del PM, di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità».

Il principio suddetto patisce, però, un’eccezione.

L’art. 649 cod. proc. pen. — ed è questo, invece, un aspetto di specifico interesse in questa sede — esclude che la relativa disciplina operi nel caso in cui la precedente sentenza sul medesimo fatto sia una pronunzia di improcedibilità per mancanza di querela; ciò lo si ricava dal richiamo che il primo comma della disposizione suddetta contiene all’art. 345 cod. proc. pen. («[…] salvo quanto disposto dagli artt. 69, comma 2, e 345»).

L’art. 345, comma 1, cod. proc. pen., a sua volta, prevede infatti — per quello che rileva ai fini dell’odierno giudizio — che la sentenza di proscioglimento ex art. 529 cod. proc. pen., non impedisce il successivo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona «se è in seguito proposta querela».

Dal combinato disposto delle due disposizioni citate, dunque, si ricava che non si incorre nel divieto di bis in idem qualora l’imputato sia stato destinatario di una precedente sentenza di proscioglimento per difetto di querela e quest’ultima sopravvenga.

Ed è proprio quest’ultimo punto che impone di dissentire dal ragionamento in diritto della Corte di merito, che ha ritenuto che la natura del precedente proscioglimento — per mancanza di querela, appunto — collocasse la questione al di fuori dell’ambito del bis in idem.

Ciò sarebbe avvenuto, infatti, solo laddove il nuovo processo avesse preso l’avvio dal successivo ingresso nel procedimento della necessaria querela ma non — come è accaduto in questo caso — quando ciò sia stato semplicemente frutto di una rimeditazione della contestazione da parte del pubblico ministero, che, questa volta, ha avuto cura di indicare puntualmente le circostanze aggravanti che intendeva contestare, sì da rendere l’imputazione chiara ed il reato per cui si procede perseguibile di ufficio.

Consentire un nuovo processo in un caso di questo genere condurrebbe, invero, a conseguenze non volute dal legislatore e, in definitiva, alla elusione del divieto di secondo giudizio, permettendo al pubblico ministero di porre rimedio, attraverso una puntuale contestazione, a precedenti omissioni che avevano determinato comunque una pronunzia terminativa del giudizio.

Ritiene la Suprema Corte che la logica della disposizione di cui all’art. 345 cod. proc. pen. sia tutt’altra, ossia quella di rimediare all’eventuale mancata confluenza della querela — evidentemente già sporta nel termine di legge — nel fascicolo processuale; e reputa altresì che la norma sia di stretta interpretazione, perché costituisce un limite alla garanzia costituita dallo sbarramento di cui all’art. 649 cod. proc. pen.

A questo proposito preme rimarcare — benché non pare che il principio sia stato mai specificamente enucleato — che una conferma indiretta della correttezza di questo ragionamento si ricava dalle motivazioni di Sez. 4, n. 31446 del 25/06/2008, Rv. 240894, sia pure concernente regiudicanda parzialmente diversa.

Nella specie il procuratore generale lamentava l’abnormità del provvedimento con cui il tribunale — contestualmente alla pronunzia di non doversi procedere per mancanza di querela, previa esclusione dell’unica circostanza aggravante contestata — aveva disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero affinché valutasse “la possibilità di procedere nei confronti dell’imputato” per il medesimo furto, aggravato tuttavia da altre e diverse circostanze.

Nella specie, la cassazione – precisato che la sentenza di non luogo a procedere per difetto di querela, una volta divenuta definitiva, è idonea ad integrare il presupposto del divieto di un secondo giudizio al pari di quella di assoluzione, salvo nel caso della successiva presentazione della querela medesima – ha affermato che il provvedimento di trasmissione degli atti era tamquam non esset «sia perché inidoneo ad impartire al pubblico ministero, in via immediata e diretta, l’ordine di agire per il fatto diversamente circostanziato, sia perché, comunque, se il pubblico ministero procedesse si imbatterebbe inevitabilmente nel divieto di cui all’art. 649 c.p.p.».

Quest’ultima affermazione è eloquente della rispondenza di questa interpretazione al ragionamento sopra svolto, in quanto è il frutto di una precisa scelta esegetica, ossia quella di ritenere che non sia possibile una “reviviscenza” dell’azione penale ex art. 345 cod. proc. pen., quando essa non sia frutto della sopravvenienza della querela, ma solo di una “ristrutturazione” dell’imputazione, per il medesimo fatto storico, attuata dal pubblico ministero.

Da quanto sopra può quindi trarsi una prima conclusione, cioè che il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l’azione penale non già perché la querela è successivamente stata portata all’attenzione dell’organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dalla contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio.

Svolta questa prima riflessione, se ne impone un’altra, legata agli ulteriori enunciati con i quali la Corte di appello ha giustificato la reiezione della censura dell’appellante, enunciati con i quali ha sostenuto la diversità tra i due fatti.

A questo riguardo occorre un ulteriore inciso in diritto sulla portata dell’art. 649 cod. proc. pen., utile a vagliare la correttezza degli altri riferimenti che la Corte distrettuale ha utilizzato per respingere la tesi del bis in idem.

Un’importante chiave di lettura della disposizione processuale in argomento si deve alla sentenza della Corte costituzionale n. 200 del 2016 — già sopra genericamente evocata — che l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (secondo cui «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato»).

In particolare, la previsione del nostro codice di rito è stata reputata incostituzionale nella parte in cui, secondo il diritto vivente, escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale.

Nel circoscrivere il giudizio di incostituzionalità rispetto a quanto opinato dal Giudice rimettente, la pronunzia della Consulta ha indicato all’interprete quale debba essere il percorso di verifica dell’identità del “fatto” che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 cod. proc. pen. A questo riguardo, la Corte costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è «l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi»; criteri normativi — ha opinato il Giudice delle leggi che ricomprendono non solo l’azione o l’omissione, ma anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio.

Tale concetto — ha ricordato la Consulta — non è estraneo all’esegesi della Corte di cassazione sull’art. 649 codice di rito (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), laddove si sono valorizzati, quali indicatori della medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale). In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore.

Come ha scritto la Corte costituzionale, il fatto va apprezzato «secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento», ma, a smentire la possibile riemersione dell’idem legale, «ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto» (in termini e per un’ampia ricostruzione del tema, cfr. Sez. 5, n. 11049 del 13/11/2017, dep. 2018, Rv. 272839, in motivazione, nonché Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Rv. 270387).

In definitiva, quindi, per verificare se vi sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la “griglia” normativa ‘condotta-nesso causale-evento’.

Tanto premesso, la cassazione sottolinea che, proprio in ragione dei criteri interpretativi sopra delineati sul concetto di medesimezza del fatto, l’argomento — adoperato dalla Corte di merito — secondo cui esso sarebbe diverso nei due processi perché, in quello in corso, M.M. risponde dell’addebito in concorso con il fratello non è utilmente spendibile.

Pur seguendo la strada tracciata dalla Consulta ed inquadrando la condotta nella griglia giuridica di cui sopra si è detto, infatti, deve escludersi che la contestazione al medesimo soggetto, ora come singolo, ora come concorrente, di uno stesso fatto di reato ne muti la struttura e le caratteristiche di accadimento di vita e consenta di sottrarsi al divieto di secondo giudizio.

Non solo. Neanche la contestazione di inedite circostanze aggravanti nel nuovo processo serve a mutare — come pare aver invece ritenuto la Corte distrettuale — l’essenza del fatto, che resta lo stesso anche laddove diversamente caratterizzato in diritto quanto alle conseguenze penalistiche dell’agire del suo autore.

Le circostanze aggravanti, infatti, non sono altro che elementi accessori dell’imputazione, che ne costituiscono una precisazione, attuata riconducendo alcune delle caratteristiche della condotta illecita in altrettante ipotesi astratte che determinano un aggravamento dello statuto sanzionatorio. In questo senso si è pronunziata la Suprema Corte — facendo dichiarata applicazione dell’autorevole percorso esegetico innanzi richiamato — con principio che si intende in questa sede ribadire, secondo cui «l’operatività del divieto di un secondo giudizio, previsto dall’art. 649 cod. proc. pen., non è preclusa dalla configurazione di circostanze aggravanti non costituenti oggetto del precedente processo, in quanto la valutazione sull’identità del fatto deve essere compiuta unicamente con riferimento all’elemento materiale del reato nelle sue componenti essenziali relative alla condotta, all’evento e al relativo nesso causale» (Sez. 1, n. 42630 del 27/04/2022, Rv. 283687).