Affermare che le associazioni e i movimenti rappresentativi delle comunità omosessuali, transgender e rivendicativi della fluidità sessuale diffondono la pedofilia equivale a diffamarle (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 39770/2023, udienza del 15 giugno 2023, ha definito il ricorso di un’imputata riconosciuta responsabile con doppia conforme del reato di diffamazione  per aver offeso l’onore e la reputazione delle persone di orientamento omosessuale, con una dichiarazione pubblicata sul suo blog personale nella quale si accusava esplicitamente la parte offesa di stare “sempre più diffondendo la pedofilia“.

Sono molti gli spunti di interesse della condivisibile decisione della quinta penale.

Ci si sofferma su quelli più significativi.

Inammissibilità dell’estensione dell’istruttoria al contesto storico, politico e sociologico

La difesa chiede al collegio di prendere posizione sulla mancata rinnovazione istruttoria richiesta in appello, per ascoltare due testimoni, i quali avrebbero dovuto riferire del contesto storico, politico e sociologico ritenuto rilevante, solo assertivamente, indicato come “decisivo” per arricchire gli elementi cognitivi del processo ed inquadrare nella sfera dell’irrilevanza penale le espressioni utilizzate dalla ricorrente, che, nella sua qualità di medico e studiosa dei temi centrali sottesi alle sue dichiarazioni, avrebbe soltanto voluto dar voce a tesi che hanno un serio fondamento documentale.

Già tale constatazione contiene in sé gli elementi di inammissibilità del motivo, trattandosi ad un tempo di una richiesta, nonostante l’apparente argomentazione, generica nei contenuti e apodittica negli approdi ai quali punta.

Evidente è, da un lato, la aspecificità del dato di contesto che si chiedeva di ampliare alla Corte d’appello, non essendo la giurisdizione la sede per approfondimenti di tal fatta su temi con forti interferenze con le convinzioni morali degli individui; dall’altro, è sicuramente irrilevante l’argomento su cui avrebbe dovuto riferire uno dei due testi, vale a dire la circostanza che il termine “pedofilia” ricomprenda o meno la “parafilia”, sicché non sia riconducibile al solo abuso su minori, come invece inteso dalle sentenze di merito, poiché quel che conta, nella verifica della configurabilità del reato di diffamazione, è l’accezione negativa, spregiativa e, in ultima analisi, lesiva dell’onore di una persona o di un ente, che assume una determinata espressione lessicale, per come percepita in un dato contesto sociologico e storico.

Del resto, in tale senso si sono espresse anche le motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado, quando hanno evidenziato la completezza dell’istruttoria svolta nel processo e l’inutilità delle prove ulteriormente richieste.

I limiti del sindacato di legittimità sul rigetto dell’istanza di rinnovazione istruttoria sono ben delineati, d’altra parte, dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Sez. 6, n. 2972 del 14/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589).

Infondatezza delle censure sulla configurabilità del reato di diffamazione

Sono infondati i motivi terzo, quarto, quinto, sesto e settimo del ricorso, tutti complessivamente costruiti intorno all’obiezione di non configurabilità del reato di diffamazione nel caso di specie, anche con riguardo al diritto di critica, alla valenza diffamante dell’espressione al centro della condanna ed al dolo.

I giudici di merito hanno distinto la dichiarazione espressa relativamente alla parte offesa rispetto alla quale vi è stata condanna della ricorrente per diffamazione – dalle frasi ulteriormente contestate all’imputata, ritenute inidonee ad integrare il reato, poiché dirette alla categoria indistinta degli omosessuali e dell’omosessualità, come carattere attribuito a persone non individuate; espressioni riguardo alle quali si è pronunciata sentenza di assoluzione.

Per la porzione di contestazione in relazione alla quale vi è stata condanna, la sentenza impugnata ha evidenziato la portata evidentemente diffamatoria delle espressioni utilizzate sul suo blog dalla ricorrente, che travalicano i limiti della legittima manifestazione del diritto di critica e della libera manifestazione del pensiero e mirano a screditare indiscriminatamente la parte offesa nelle sue varie articolazioni, trasmettendo un “messaggio denigratorio tranchant ed incisivo, in quanto propalato in un contesto nel cui ambito l’imputata rivendica competenze qualificate, derivanti dal suo patrimonio di conoscenze di medico e studiosa della materia“.

La condanna è stata inflitta sul presupposto ulteriore che le entità giuridiche o di fatto “determinate”, rappresentanti categorie di soggetti in forma collettiva, possono rivestire la qualifica di persone offese dal reato di diffamazione, essendo concettualmente concepibile un onore o un decoro collettivo quale bene morale di tutti gli associati o membri, considerati come unitaria entità, appunto, capace di percepire l’offesa.

Sono state escluse dall’area di rilevanza penale, invece, le condotte ascritte all’imputata e ritenute denigratorie, in via solo generale, della condizione omosessuale e dei comportamenti collegati, nonostante la sottolineatura relativa alle forme di manifestazione “incontinenti” espressive del pensiero al riguardo, poiché non dirette ad un destinatario preciso, ancorché ente collettivo, ed alla sua reputazione: in relazione ad esse, già il Tribunale aveva assolto l’imputata con formula “perché il fatto non sussiste”.

Linee-guida in tema di diffamazione

Occorre, pertanto, premettere alcune linee-guida interpretative, utili a chiarire l’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità sui confini applicativi del reato di diffamazione.

Ebbene, anzitutto, dal punto di vista oggettivo, per la configurabilità del reato previsto dall’art. 595 cod. pen., è necessaria la capacità offensiva dell’onore dell’espressione incriminata come diffamatoria.

Sotto tale profilo, secondo la concezione “fattuale”, tradizionalmente adottata dalla giurisprudenza di legittimità e dalla dottrina dominante per individuare il bene giuridico tutelato dal reato di diffamazione previsto dalla disposizione citata, l’onore la cui lesione è penalmente rilevante deve essere inteso in senso “oggettivo” o “esterno”, e cioè come reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi nel senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (così, tra le tante, Sez. 5, n. 50659 del 18/10/2016, Rv. 268694, in motivazione; Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Rv. 20105401).

Secondo tale tesi, ciò che viene tutelato attraverso l’incriminazione del reato di diffamazione è l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato; detto altrimenti, l’opinione e la valutazione dei consociati rispetto alla personalità morale e sociale di un individuo.

In dottrina, si ritrova anche una diversa concezione, denominata “personalistica”, del concetto di “onore”, che intende quest’ultimo come attributo originario dell’individuo e valore intrinseco della persona umana in forza della dignità che gli è propria e che non può essere negata dalla comunità sociale. Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che tende a superare la dicotomia tra onore in senso soggettivo e oggettivo, tradizionalmente attribuita alla concezione “fattuale”.

Tuttavia, non è ragionevole ritenere che, in un contesto interpretativo multilivello ed integrato come quello attuale, il richiamo ai principi ed ai valori della Costituzione, necessariamente “doppiati” dal nucleo dei diritti fondamentali riconosciuti dalla CEDU e dalla CDFUE, possa essere appannaggio della concezione personalistica e non anche di quella “fattuale-normativa”.

Appare necessario, invece, ricollegare comunque all’art. 2 Cost. e, appunto, alla categoria dei diritti inviolabili dell’uomo, nonché all’art. 3 Cost. ed al diritto di eguaglianza e di pari dignità sociale (coprendo, così, anche forme di discriminazione inaccettabili), la nozione di onore tutelato dal precetto penale, qualunque sia la declinazione interpretativa cui si accede.

Il bilanciamento necessario tra valori tutti di rilievo costituzionale avviene, poi, di regola, con il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 Cost., che viene in gioco, a determinate condizioni, attraverso la scriminante del diritto di critica.

Nella consapevolezza – comune alle due opzioni – che la lesione della reputazione non si sovrappone sempre a quella dell’identità personale, poiché quest’ultima, se non accompagnata da una rappresentazione della sfera dell’onore inteso in senso oggettivo, non ha rilevanza penale, ma la sua lesione integra un illecito esclusivamente civile (cfr. Sez. 5, n. 50659 del 18/10/2016, cit. e Sez. 5, n. 849/93 del 6 novembre 1992, Rv. 19349401).

La Corte costituzionale, invero, ha riconosciuto più volte il carattere fondamentale del diritto all’onore, ascrivibile non solo al novero dei «diritti inviolabili» riconosciuti dall’art. 2 Cost. (sentenze n. 379 del 1996, n. 86 del 1974 e n. 38 del 1973), ma anche all’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, che espressamente tutela i diritti all’onore e alla reputazione, nonché all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea, all’art. 7 CDFUE, i quali ultimi tutelano il più ampio diritto al rispetto della vita privata, al cui perimetro i diritti all’onore e alla reputazione vengono tradizionalmente ricondotti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (così, Corte cost. sentenza n. 37 del 2019, che richiama le pronunce della Corte EDU, 6 novembre 2018, Vicent del Campo contro Spagna; 20 giugno 2017, Bogomolova contro Russia; 9 aprile 2009, A. contro Norvegia; 15 novembre 2007, Pfeifer contro Austria; 4 ottobre 2007, Sanchez Cardenas contro Norvegia).

Evidenziando la Consulta sempre che, dal riconoscimento di un diritto come “fondamentale” – ed in specie del diritto all’onore – non discende, necessariamente e automaticamente, l’obbligo per l’ordinamento di assicurarne la tutela assoluta mediante sanzioni penali: tanto la Costituzione quanto il diritto internazionale dei diritti umani lasciano, infatti, di regola, il legislatore (e più in particolare il Parlamento, naturale depositario delle scelte in materia penale in una società democratica) libero di valutare se e come sia necessario apprestare tutela penale a un determinato diritto fondamentale, soprattutto nel bilanciamento con altri diritti fondamentali; significativa, da ultimo, è la ricostruzione operata nella sentenza della Corte costituzionale n. 150 del 2021 sui rapporti tra diritto alla libertà di manifestazione del pensiero e di informazione con il diritto alla reputazione ed all’onore.

Come si è anticipato, ai fini di valutare la sussistenza del reato di cui all’art. 595 cod. pen., deve essere verificata dal giudice penale l’accezione negativa, spregiativa e, dunque, lesiva dell’onore “oggettivo” di una persona o di un ente, che assume una determinata espressione lessicale, per come percepita in un dato contesto sociologico e storico: le parole utilizzate, per essere “oggettivamente” diffamatorie, devono essere attributive di qualità sfavorevoli alla persona offesa, che gettino una luce negativa su quest’ultima.

Orbene, non può esservi dubbio che, nel caso di specie, la frase sia oggettivamente diffamatoria: secondo la contestazione, l’imputata avrebbe accusato un soggetto ancorché collettivo, di “diffondere sempre più la pedofilia”, così attribuendogli un comportamento che incrementa la diffusione di un atteggiamento umano costituente reato e univocamente riconosciuto come infamante.

Secondo l’accezione dominante, infatti, che trova riscontro anche nell’esegesi del lessico della lingua italiana, la pedofilia è una forma di parafilia – una categoria di disturbi psichiatrici caratterizzati da devianze sessuali di diversa natura – che connota chi prova interesse ed eccitazione sessuale ricorrente e intensa verso bambini e/o compie attività sessuali con bambini.

Nel significato lessicale attuale e storicizzato del termine “pedofilia” o “pedofilo” è intrinseco un giudizio di elevata riprovazione per tale atteggiamento sessuale, da un punto di vista morale ed etico; dal lessico proviene anche, forte ed immediatamente evocativo, il richiamo, fonte di innegabile disdoro, ad una serie di diverse condotte sanzionate a vario titolo come illecito penale e riconoscibili tra i delitti di più grave impatto sociale ed individuale, anche perché normalmente abbinati all’atteggiamento violento, subdolo o predatorio dell’agente.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, la parafilia, in cui rientra la pedofilia, se non accompagnata da un disturbo psichiatrico maggiore, rappresenta una devianza sessuale, senza influenza alcuna sulle capacità intellettive e volitive della persona (Sez. 3, n. 6818 del 27/11/2014, dep. 2015, Rv. 262413).

Di fronte a tale consolidato abbinamento di significato, è innegabile l’accezione negativa, spregiativa e, dunque, lesiva dell’onore “oggettivo” che assume l’espressione utilizzata dalla ricorrente nel caso di specie, ancorché indirizzata ad un … che  rappresenta l’insieme variegato ma ben identificabile dell’universo … in alcun modo identificabile o sovrapponibile alle inclinazioni o alle pratiche pedofile.

E non possono aver ingresso, nella presente sede giurisdizionale, ricostruzioni storiche che provino – secondo le prospettazioni difensive contenute nel ricorso, riproposte nella discussione orale in udienza – collegamenti o derivazioni … del rispetto a gruppi i quali hanno, nel tempo, assunto posizioni giustificative o liberalizzatrici della pedofilia, poiché è altrettanto riferibile alla comune, opposta e diffusa percezione la distanza e la non sovrapponibilità, né confusione, tra l’inclinazione pedofila e l’omosessualità, la transessualità oppure la fluidità di genere, vale a dire la galassia di diversità di orientamento sessuale, differenti dall’eterosessualità, che rivendicano, attraverso il … suddetto, atteggiamenti di tutela contro le discriminazioni a sfondo sessuale.

Soccorre, in tale distinzione, la giurisprudenza di legittimità che già in passato ha sporadicamente evidenziato, da un lato, l’indubbia carica lesiva dell’altrui reputazione e dell’altrui onore insita nell’attribuzione di aggettivazioni “pedofile” ad individui o gruppi di persone individuabili – così, ad esempio, Sez. 5, n. 18249 del 28/3/2008, Rv. 239831 – e, d’altro canto, ha rimarcato come non integri il reato di diffamazione il mero riferirsi ad una persona indicandola con il termine “omosessuale”, trattandosi di espressione che, a differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio, si limita ad attribuire una qualità personale attinente alle preferenze sessuali, ed è in tal senso entrata nell’uso comune (Sez. 5, n. 50659 del 2016, cit.; vedi anche, in senso analogo, Sez. 5, n. 17944 del 7/2/2020, Rv. 279116).

D’altra parte, l’oggettiva valenza diffamatoria dell’espressione contestata alla ricorrente promana anche dalla sua struttura e forma, laconica e povera concettualmente, declinata come un insulto e non come un dato di asserita riflessione, ancorché discutibile ed opinabile; lontanissima, quindi, dal punto di vista della complessità espressiva, da quella posizione critica che la ricorrente rivendica come scriminante, nel prisma del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, anche nell’ultimo motivo di ricorso, evidenziando la sua posizione di studiosa che ha approfondito il tema da un punto di vista storico e culturale, oltre che medico e psichiatrico.

Costituisce orientamento consolidato, infatti, ritenere che sussiste l’esimente del diritto di critica, quando le espressioni utilizzate consistano in un’argomentazione che esplicita le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolve in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui (Sez. 5, n. 9953 del 15/11/2022, dep. 2023, Rv. 284177; Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Rv. 282871; Sez. 1, n. 5695 del 5/11/2014, dep. 2015, Rv. 262531).

Il diritto di critica (così come quello di cronaca e finanche di satira) è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato (Sez. 5, n. 15060 del 23/2/2011, Rv. 250174; Sez. 5, n. 37397 del 24/6/2016, Rv. 267866; Sez. 5, n. 18170 del 9/3/2015, Rv. 263460, in motivazione; in tema di diffamazione a mezzo stampa, cfr. Sez. 5, n. 9566 del 16/12/2020, dep. 2021, Rv. 280809).

Ai fini del rispetto del canone di continenza ciò che rileva è che le modalità espressive dispiegate risultino proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione o dell’opinione che ne costituisce l’oggetto, poiché la continenza è requisito che attiene alla forma comunicativa e non al contenuto comunicato, come agevolmente si deduce dalla circostanza che può essere punita anche la divulgazione di un fatto vero.

Infatti, permane l’esigenza del rispetto della verità del fatto, che costituisce l’oggetto o il mero spunto della critica, per quanto affievolito se confrontato con la sua accezione riferita al diritto di cronaca (vedi Sez. 5, n. 49570 del 23/9/2014, Rv. 261340).

Il diritto di critica non può prescindere, comunque, anch’esso, dal requisito della verità del fatto storico, ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica (Sez. 1, n. 40930 del 27/9/2013, Rv. 257794), sebbene il ricorso ad una forma espositiva, comunque, non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale (Sez. 1, n. 36045 del 13/6/2014, Rv. 261122).

E tale necessità di far riferimento ad un fatto che sia “vero” nel suo nucleo essenziale si rivela soprattutto in circostanze nelle quali – come si è già sottolineato – si registra un’evidente distanza tra la verità e quanto riferito nell’ambito dell’esercizio del diritto di critica, anche in ragione della radicalità dell’asserzione, ben lontana da un argomentare in qualche modo ragionato, dubitativo e scientifico, e del tutto slegata da contesti dialettici che costituiscono, secondo la giurisprudenza di legittimità, lo scenario in cui maggiormente può ritenersi scriminato l’utilizzo di espressione critiche dispregiative anche forti (cfr. Sez. 5, n. 32027 del 23/3/2018, Rv. 273573; Sez. 5, n. 4853 del 18/11/2016, dep. 2017, Rv. 269093). Anzi, collegata ad una dimensione di diffusione unilaterale del pensiero attraverso il blog, facente capo alla ricorrente.

Offesa rivolta non un soggetto determinato ma una collettività: configurabilità della diffamazione

L’altro tema centrale sollevato dalla ricorrente nei motivi in esame è quello della direzione lesiva della frase dal contenuto diffamatorio, che si ritiene non individuabile nei confronti di un soggetto determinato, in ragione della non riconducibilità del … in quanto tale complessivamente inteso ad un ente o una persona giuridica determinati, ovvero ad una collettività di soggetti individuabile con precisione.

Come è noto, infatti, costituisce orientamento consolidato della Cassazione ritenere che la configurabilità del reato di diffamazione sia subordinata alla condizione che l’offesa alla reputazione sia rivolta ad una persona determinata ed individuata o individuabile (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 10307 del 18/10/1993, Rv. 195555).

Anche se non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, e i riferimenti personali e temporali (ex multis, Sez. 6, n. 2598 del 6/12/2021, dep. 2022, Rv. 282679; Sez. 5, n. 2784 del 21/10/2014, dep. 2015, Rv. 262681).

Ebbene, è vero senza dubbio che il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili (Sez. 5, n. 24065 del 23/2/2016, Rv. 266861, con riguardo alla categoria indistinta ed indistinguibile dei “veneti”, attaccati con preconcetti e luoghi comuni; Sez. 5, n. 51096 del 19/9/2014, Rv. 261422, avuto riguardo, invece, ad un’espressione evocativa e troppo generica – “errori voluti dall’alto” – per essere riferibile ad un novero di soggetti determinati, ancorché collettivamente indicati; cfr. anche Sez. 5, n. 10307 del 18/10/1993, Rv. 195555).

Tuttavia, si accorda tutela penale all’onore di un’aggregazione di individui o associazioni quando questi siano chiaramente individuabili, attraverso, appunto, i concreti riferimenti di contesto, sociologici e storici, ben chiari nel momento storico in cui vengono diffuse le espressioni diffamatorie.

L’individuazione deve avvenire con ragionevole certezza, di modo che possa desumersi la piena e immediata consapevolezza, da parte di chiunque legga le affermazioni contestate come diffamatorie, dell’identità del destinatario della diffamazione (Sez. 5, n. 8208 del 10/1/2022, Rv. 282899).

La giurisprudenza di legittimità, quindi, ha ammesso la lesione del bene giuridico dell’onore e della reputazione anche di soggetti non soltanto persone fisiche, ma enti o organismi collettivi, attaccati sotto il profilo dell’onore “sociale”, riferito all’attività svolta ed alle finalità perseguite dall’ente, per tale ragione soggetto passivo del reato.

Si è, così, già affermata la capacità di essere titolari dell’onore sociale e di essere soggetti passivi del reato nei confronti di entità giuridiche o di fatto – associazioni, partiti, fondazioni, comunità religiose, corpi amministrativi e giudiziari – in quanto rappresentativi sia di un interesse collettivo unitario ed indivisibile in relazione alla finalità perseguita, sia degli interessi dei singoli componenti (Sez. 5, n, 4982 del 30/1/1998, Rv. 210601, con riferimento alla Corte dei Conti; cfr. anche Sez. 5, n. 1188 del 26/10/2001, dep. 2002, Rv. 220813, che ha riconosciuto il ruolo di persona offesa ad un Consiglio dell’ordine di avvocati; Sez. 5, n. 1059 del 8/10/2021, dep. 2022, Rv. 282468, avuto riguardo ad espressioni denigratorie dirette nei confronti di singoli appartenenti ad un ente locale, ritenute lesive anche dell’onorabilità dell’entità collettiva cui essi appartengono).

È pacifico, dunque, che non solo una persona fisica ma anche un’entità giuridica o di fatto, una fondazione, un’associazione o altro sodalizio, anche di natura religiosa, possa rivestire la qualifica di persona offesa dal reato, essendo concettualmente identificabile un onore o un decoro collettivo, quale bene morale di tutti gli associati o membri, considerati come unitaria entità, capace di percepire l’offesa (Sez. 5, n. 12744 del 07/10/1998, Rv. 213415 con riguardo alla congregazione dei Testimoni di Geova; cfr. anche Sez. 5, n. 3809 del 28/11/2017, dep. 2018, Rv. 272320, in una fattispecie di offese riferite ad un politico …, in cui la Corte ha escluso che la legittimazione competa anche ai singoli componenti, rilevato che le offese non erano idonee a riverberarsi direttamente su di essi, offendendo la loro personale dignità: Sez. 5, n. 2886 del 24/01/1992, Rv. 189901).

L’affermazione di capacità è semplice quando il soggetto/ente, sia esso pubblico o privato, abbia una personalità giuridica definita e determinata, ovvero quando sia attaccato un componente persona fisica dell’organizzazione e, plurioffensivamente, anche la persona collettiva cui quest’ultima appartiene.

Nel caso all’esame del collegio, ciò che ha destato problemi interpretativi è la indistinta soggettività del … in quanto tale, e la mancanza di riferimenti a persone fisiche o giuridiche determinate, riferibili al … stesso.

La questione, pertanto, è stata posta relativamente a se, con tale espressione, si possa intendere un riferimento ad un agglomerato stabile ed individuabile di associazioni o enti, rivolti ad un unico obiettivo di promozione di una causa … per la tutela dei diritti all’autodeterminazione sessuale, senza discriminazioni.

Ma il tema, in tal modo, è mal posto.

Ciò che rileva, nel caso di specie, è la verifica “in concreto” del se, al bersaglio della frase gravemente diffamatoria, possano farsi corrispondere una serie determinata di soggetti collettivi e associazioni, tra le quali quelle costituite parti civili nel processo, tutti accusati di contribuire a diffondere un fenomeno criminale e riprovevole quale è la pedofilia, con sicura accezione negativa.

Ebbene, nel caso della ricorrente e dell’espressione utilizzata sul suo blog, il riferimento al … è stato “in concreto” utilizzato come espressione sintetica di collegamento logico-soggettivo-individualizzante, allo scopo di rappresentare con un solo termine tutte le associazioni giuridiche o enti di fatto che, riconosciute nell’appartenenza all’aggregazione movimentista, danno vita ad un’attività politica sociale di tutela dei diritti dei soggetti-individui che li compongono, in quanto appartenenti alla comunità omosessuale, transgender o comunque che rivendica la fluidità sessuale.

In questo senso (e, si ribadisce, nella fattispecie concreta in esame), valutato come l’imputata ha utilizzato e contestualizzato la frase oggettivamente lesiva dell’onore (in modo secco e tranchant, in un blog dove costantemente si attaccano i comportamenti omosessuali, sotto più profili), il soggetto collettivo cui tale offesa è stata diretta può dirsi sufficientemente determinato: il “… in questo caso, è espressione ellittica, che maschera il riferimento alle molte associazioni sicuramente costituite in enti, giuridici o di fatto, identificate o identificabili in modo sicuro.

La ricorrente, facendo proprie alcune osservazioni critiche comparse in dottrina dopo la pronuncia della sentenza di primo grado nel presente processo, ha inteso attaccare la ratio decidendi sotto il profilo della vaghezza della collettività indistinta rappresentata dal … ma non è questo il punto.

La verifica circa la determinatezza del soggetto passivo, infatti, va condotta non in astratto, per valutare se il … si comporti come un soggetto collettivo con una sola voce, oppure sia un’aggregazione di collettività molte delle quali distanti tra loro e non riconducibili ad unità di intenti – e del resto non spetta alla giurisdizione operare ricostruzioni dal valore storico-sociologico – bensì deve essere orientata a ricercare se, nel caso concreto, con il riferimento al … suddetto, si sia voluta attaccare sul punto dell’onore e della reputazione collettiva quella pletora di associazioni ed enti che

si riconoscono in esso ed agiscono sotto la sua egida (sovente attraverso manifestazioni pubbliche ben note oramai e divenute periodicamente, recentemente, “tradizionali”).

In questo senso – obbligato per il giudice – il … e le due associazioni costituite parte civile nel presente processo, ritenute espressive di tale … secondo la stessa prospettazione difensiva, rappresentano soggetti determinati e determinabili, di talché solo la casualità della libera scelta di ciascun ente ha impedito che altre associazioni collegate al si facessero parte attiva nel diritto di querela.

Non ha pregio, dunque, l’obiezione difensiva – peraltro nella gran parte anche molto generica – secondo cui non vi è ragione perché proprio le due associazioni e non altre siano state ritenute, dai giudici, titolari del diritto di querela e soggetti passivi: correttamente, si è dato riconoscimento alle sole due associazioni che avevano deciso di sporgere querela (una delle parti civili) e di pretendere tutela ai propri diritti nell’ambito del processo penale (entrambe le parti civili).

I giudici di merito non hanno “scelto” tra le associazioni collegabili al quelle alle quali riconoscere tutela, come erroneamente prospetta la difesa della ricorrente, ma si sono limitati a ritenere chi ha sporto querela – il … – un’associazione espressiva ed esponenziale del … nazionale attaccato dalla frase diffamatoria, riconoscendo tutela anche all’associazione ammessa alla costituzione di parte civile, e respingendo, infatti, la costituzione di parte civile del Comune di …, sul presupposto che l’ente territoriale, per quanto collegato ai fatti territorialmente, non rappresenta una collettività accomunata dall’ideologia di cui il … è portatore.

Può concludersi, pertanto, che le espressioni denigratorie (nella specie, l’accusa di diffondere sempre più la pedofilia) dirette nei confronti del “… configurano il reato di diffamazione qualora in concreto il riferimento a detto sia stato utilizzato come locuzione sintetica di collegamento logico-soggettivo-individualizzante, allo scopo di rappresentare con un solo termine tutte le associazioni giuridiche o enti di fatto che, riconosciute nell’appartenenza all’aggregazione movimentista ed individuabili, danno vita ad un’attività politica sociale di tutela dei diritti dei soggetti che li compongono, in quanto appartenenti alla comunità omosessuale, transgender o comunque che rivendica la fluidità sessuale.

Elemento soggetto del reato di diffamazione

Occorre sottolineare, infine, l’infondatezza del motivo dedicato a contestare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di diffamazione.

Invero, la giurisprudenza consolidata ritiene sufficiente il dolo generico, quale coefficiente di attribuibilità volontaria della condotta al suo autore, dolo che può anche assumere la forma del dolo eventuale, e che, comunque, implica l’uso consapevole, da parte dell’agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (tra le molte, cfr. Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, Rv. 258943; Sez. 5, n. 4364 del 12/12/2012, dep. 2013, Rv. 254390).

Nel caso della ricorrente, la ricostruzione già operata nei paragrafi precedenti conferma che ella stessa, ancorché convinta di riferire opinabili tesi dal fondamento scientifico, è ben consapevole del significato della parola pedofilia, inequivocabilmente interpretabile socialmente come altamente offensiva, nel contesto di una frase in cui si indica il soggetto offeso come promotore di tale attitudine sessuale, dovendosi tener conto del significato che l’espressione offensiva oggettivamente assume nell’ambito sociale e storico di riferimento – in cui il termine, come si è già sottolineato – si veste immediatamente di connotazioni penalmente rilevanti, e non può raccordarsi alle personali convinzioni dell’autore della condotta.