Avvocato: il confine tra concorso esterno e partecipe ad una associazione di tipo mafioso (di Riccardo Radi)

Il diritto di difesa e il suo esercizio tramite il difensore hanno uno spazio notevole riconosciuto dall’ordinamento giuridico.

Tuttavia, questo spazio ha un limite nel rispetto dell’esigenza dello Stato a una corretta amministrazione della Giustizia e nell’osservanza degli obblighi e dei divieti espressamente indicati come illeciti penali, oltre la quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione, eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge (Sez. 6, n. 6989 del 27/05/1986, Rv. 173315).

Il professionista nell’area legale (avvocato, notaio) che non si limiti a fornire al proprio cliente, che sia partecipe di una associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen., consigli e pareri mantenendosi nell’ambito di quanto legalmente consentito ma si trasformi nel consigliere di fiducia del capo di una associazione mafiosa in quanto conoscitore delle leggi e dei modi per eluderle (“consigliori”, nel gergo italo-americano), assicurando un’assistenza tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge, risponde del delitto di partecipazione all’associazione, se ricorrono gli ulteriori presupposti della affectio societatis e dello stabile inserimento nella sua struttura organizzativa.

Quando mancano questi ulteriori presupposti, rimane configurabile il concorso esterno se la condotta costituisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo (di natura materiale o morale) dotato di apprezzabile rilevanza causale per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione.

La cassazione sezione 1 con la sentenza numero 27722/2023 ha stabilito che in tema di associazione di tipo mafioso, integra la condotta di “concorso esterno” l’attività del professionista che fornisca un concreto, specifico e volontario contributo idoneo a conservare ovvero a rafforzare le capacità operative del sodalizio, nella consapevolezza di favorirne, in tal modo, la realizzazione del programma criminoso.

Nel caso esaminato la Suprema Corte ha ritenuto la sussistenza del reato nei confronti di un avvocato che, al fine di prevenire l’adozione di provvedimenti ablatori a carico di un esponente di vertice di un’associazione mafiosa in relazione a un immobile di cui questi era proprietario di fatto, ne acquisiva la proprietà formale con un contratto di compravendita e, il giorno stesso, lo rivendeva al fratello del capomafia.

La Suprema Corte ha stabilito che per integrare l’elemento oggettivo nel concorso nel reato associativo è sempre necessario che il contributo del concorrente valga a conservare o rafforzare le capacità operative dell’associazione (ex multis: Sez. 1, n. 49067 del 10/07/2015, Rv. 265423; Sez. 6, n. 8674 del 24/01/2014, Rv. 258807) e non soltanto gli interessi personali di alcuni suoi appartenenti, anche se identificabili con i soggetti costituenti il nucleo egemone all’interno dell’associazione.

Al diritto di difesa e al suo esercizio tramite il difensore l’ordinamento giuridico riconosce ampio spazio per consentire la effettiva attuazione del principio affermato nell’art. 24, comma 2, Cost.

Tuttavia, questo spazio ha un limite nel rispetto dell’esigenza dello Stato a una corretta amministrazione della Giustizia e nell’osservanza degli obblighi e dei divieti espressamente indicati come illeciti penali, oltre la quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione, eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge (Sez. 6, n. 6989 del 27/05/1986, Rv. 173315).

È il caso, per esempio, della alterazione dei risultati delle indagini già svolte (Sez. 6, n. 38516 del 5/04/2007, Rv. 238034), o dello sviamento dell’attività di ricerca e acquisizione della prova da parte della magistratura (Sez. 6, n. 7270 del 21/03/2000, Rv. 216888).

In particolare, il difensore che, acquisita illegalmente la notizia dell’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare come nel caso di concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio o nella fraudolenta visione o estrazione di copie di atti che devono rimanere segreti), lo informi, consentendogli di sottrarsi all’esecuzione di questa e alle successive ricerche dell’autorità, commette un favoreggiamento personale (Sez. 6, n. 35327 del 18/07/2013, Rv. 256098; Sez. 6, n. 7913 del 29/03/2000, Rv. 217188), che non ricorre, invece, nel caso del difensore che, avendo ritualmente conosciuto atti processuali da cui emergano gravi indizi di colpevolezza contro il suo assistito, lo informi della possibilità che gli sia applicata una misura cautelare nell’ambito del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e per il legittimo esercizio del diritto di difesa.