I magistrati devono saper sorridere (di Riccardo Radi)

Non basta che i magistrati conoscano a perfezione le leggi come sono scritte;

sarebbe necessario che altrettanto conoscessero la società in cui queste leggi devono vivere.

Il tradizionale aforisma iura novit curia non ha alcun valore pratico se non si accompagna a quest’altro: mores novit curia”.

Così scriveva Piero Calamadrei che oggi ricordiamo nel 67 anno dalla sua scomparsa.

In ricordo dell’avvocato per antonomasia pubblichiamo alcune facezie ed aneddoti che il giurista scrisse per tratteggiare, da par suo, con ironia e acutezza a la complessa e frastagliata figura dell’avvocato.

Ho tratto dai suoi scritti alcune perle che sono verità indelebili e che spesso dimentichiamo nello svolgimento della nostra professione. 

All’avvocato, quando tratta col giudice, non disdice l’umiltà: che non è né viltà né piaggeria di fronte all’uomo, ma reverenza civica all’altezza della funzione.

La nobile passione dell’avvocato dev’essere in ogni caso consapevole e ragionante: avere i nervi così solidi da saper rispondere alla offesa con un sorriso amabile, e da ringraziare con un garbato inchino il presidente burbanzoso che ti toglie la parola.

Solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici possono essere imparziali; solo là dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici; e dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia.

L’avvocato che nel difendere una causa entra in aperta polemica col giudice, commette la stessa imperdonabile imprudenza dell’esaminando che durante la prova si prende a parole coll’esaminatore.

L’avvocato che si lagna di non essere capito dal giudice, biasima non il giudice, ma se stesso. Il giudice non ha il dovere di capire: è l’avvocato che ha il dovere di farsi capire fra i due, quello che sta a sedere, in attesa, è il giudice; chi sta in piedi, e deve muoversi e avvicinarsi anche spiritualmente, è l’avvocato.

Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione.

Non era né un eroe né un santo: era semplicemente un avvocato.

Che vuol dire «grande avvocato»?

Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni.

Utile è quell’avvocato che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l’udienza con la sua invadente personalità, che non annoia i giudici con la sua prolissità e non li mette in sospetto con la sua sottigliezza: proprio il contrario, dunque, di quello che certo pubblico intende per «grande avvocato».

Il segreto della giustizia sta in una sempre maggior umanità e in una sempre maggiore vicinanza umana tra avvocati e giudici nella lotta contro il dolore. Infatti il processo, e non solo quello penale, è di per sé una pena che giudici e avvocati devono abbreviare rendendo giustizia.

Avvocato sommo è colui che riesce a parlare in udienza colla stessa semplicità e la stessa schiettezza con cui parlerebbe al giudice incontrato per via: colui che, quando veste la toga, riesce a dare al giudice l’impressione che può fidarsene come se fosse fuori di udienza.

Al Giudice è vietato essere caritatevole; ma l’avvocato deve essere per il suo cliente, in certi momenti in cui ogni calcolo di mestiere si scioglie e si purifica nella commozione, il fratello e il confessore che può dargli, più che la sua dottrina e la sua eloquenza, il conforto di tenergli compagnia nel dolore.

E’ facile far dell’ironia sull’altruismo degli avvocati; ma chi crede che la missione di carità oggi adempiuta dai liberi avvocati possa domani essere esercitata con lo stesso spirito da un corpo di funzionari tenuti soltanto alla scrupolosa osservanza dell’orario di ufficio, non ha pensato che non si può stabilire in anticipo quali sono le ore in cui il dolore batte alla porta dell’avvocato, nel cui studio anche nelle ore notturne rimane accesa la lampada rossa, a indicare nel buio il pronto soccorso delle ambasce umane

Gli avvocati non possono permettersi il lusso di essere malati: altro che medicine!! Qui ci sono in giuoco gli interessi dei clienti, e i termini che scadono!

Bisognerebbe che ogni avvocato, per due mesi all’anno, facesse il giudice; e che ogni giudice, per due mesi all’anno, facesse l’avvocato. Imparerebbero così a comprendersi e a compatirsi e reciprocamente si stimerebbero di più.

Certi clienti vanno dall’avvocato a confidargli i loro mali, nell’illusione che, col contagiarne lui, essi ne rimarranno subito guariti: e ne escono sorridenti e leggeri, convinti di aver riconquistato il diritto di dormire tranquilli dal momento che hanno trovato che si è assunto l’obbligo professionale di passare le sue notti agitate per conto loro.

L’avvocato deve sapere in modo così discreto suggerire al giudice gli argomenti per dargli ragione, da lasciarlo nella convinzione di averli trovati da sé.

A queste illuminanti riflessioni, vorrei aggiungere un modesto personale inciso, che tutti i giudici dovrebbero tener presente al momento della quantificazione della pena. “Le attenuanti generiche, Signor Presidente, – disse una volta un avvocato – sono il sorriso del codice penale“.

E il Giudice sorrise. Le attenuanti furono concesse.

Bibliografia:

Piero Calamandrei, Gli avvocati, Edizioni Henry Beyle.

Piero Calamandrei, La causa più originale che ho difeso, Edizioni Henry Beyle

Luciano Revel, Leoni vegetariani pecore inferocite angeli senza ali, AgC, 2001