La nomina di Nicola Gratteri alla guida della procura di Napoli e il dibattito sul modello ideale dell’accusatore pubblico (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Ben prima della sua deliberazione formale da parte del Plenum del CSM, la nomina del Dr. Nicola Gratteri alla guida della procura della Repubblica presso il tribunale di Napoli ha provocato un ampio dibattito mediatico che ha di gran lunga travalicato i confini dell’ambito giuridico.

Come spesso avviene allorché si discuta di personaggi pubblici fortemente esposti e con una altrettanto forte caratterizzazione identitaria – e, indiscutibilmente, il Dr. Gratteri ha entrambe queste caratteristiche – sono state espresse per lo più opinioni assai nette e così conflittuali tra loro da rendere quasi impossibile un punto di incontro e di conciliazione.

È senz’altro prevalente la convinzione che la personalità dell’interessato, il percorso professionale che ha compiuto nella sua ormai lunga carriera e i risultati che ha ottenuto nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata calabrese lo rendano uno dei migliori interpreti dell’etica civile pubblica e la migliore guida possibile per la procura che ha il compito di perseguire la camorra.

Concorrono in modo rilevante a questa opinione lusinghiera alcuni tratti specifici della vita del Dr. Gratteri: sotto scorta da decenni per via di rischi consistenti e concreti di attentati alla sua incolumità ad opera degli aggregati criminali colpiti dalle sue indagini; infaticabile divulgatore dell’etica antimafia attraverso la sua attività di pubblicista, l’opera di comunicazione nelle scuole a contatto con i giovani, le frequenti apparizioni pubbliche; la sua meritata fama di intransigenza nell’esercizio delle funzioni professionali; la sua ostentata distanza dall’associazionismo magistratuale e da qualunque forma di appartenenza, fosse anche la più lecita, che possa condizionare la sua autonomia.

Ha infine un peso assai forte un ulteriore tratto del Dr. Gratteri: la sua evidente e mai nascosta avversione verso ogni norma e istituto che gli sembrino privi di coerenza e utilità nel contrasto alle organizzazioni mafiose o che addirittura ne ostacolino l’efficacia.

All’estremo opposto si collocano coloro che considerano il nuovo capo della procura partenopea un’icona di ciò che non deve essere un pubblico ministero con responsabilità dirigenziali.

Un aspetto per certi versi paradossale è che i fautori di questo apprezzamento negativo lo argomentano sulla base degli stessi elementi che i sostenitori del Dr. Gratteri considerano in positivo.

Questa minoranza ritiene dunque deprecabili la sua sovraesposizione mediatica, le sue forti convinzioni, il piglio autoritario che contraddistingue il suo modello di direzione degli uffici giudiziari affidatigli.

Appartengono ugualmente a questa posizione: lo sfavore verso le grandi operazioni antimafia sul presupposto che aumenterebbero il rischio di disattenzioni e massimalismi valutativi e darebbero comunque vita a maxiprocessi ingestibili per tribunali piccoli o medi e per collegi composti da magistrati di poca o nessuna esperienza; il giudizio negativo verso le esternazioni pubbliche coeve al varo di tali operazioni che influenzerebbero l’opinione pubblica in senso colpevolista e sarebbero idonee a condizionare ugualmente la terzietà dei giudicanti sui quali sarebbe riversata una pressione mediatica ai limiti della sostenibilità.

Il dibattito/scontro tra sostenitori e oppositori del Dr. Gratteri comprende in verità ulteriori argomenti generali o di dettaglio ma quanto fin qui detto dovrebbe già dare l’idea dell’inconciliabilità cui si accennava in aperura.

Fatta questa premessa e chiarito che l’intento di questo post non è distribuire pagelle, si desidera invece esprimere una considerazione di fondo.

Una cosa appare chiara, prima e sopra tutto: per quanto importanti siano il ruolo e l’immagine del Dr. Gratteri, il dibattito di cui si parla attiene in realtà al modo di intendere, qui e ora, la funzione di giustizia.

Si discute cioè – ed è una discussione vecchia quanto è vecchio l’uomo – dell’eterno conflitto tra sicurezza collettiva e libertà individuali.

È indubbio che nel periodo in cui viviamo prevalga di gran lunga la prima, poco importa se in conseguenza di paure e rischi reali o, almeno in parte, indotti da interessate e martellanti campagne mediatiche che cercano consenso creando un bisogno di sicurezza.

Un modello di successo, dunque, così tanto da avere ammaliato non solo le destre, tradizionalmente adesive al mantra legge e ordine, ma anche significative componenti delle sinistre.

Ora, poiché la buona riuscita delle politiche securitarie e la loro incorporazione nel comune sentire richiedono necessariamente la convergenza tra potere legislativo e potere giudiziario, è logico e comprensibile che all’interno della magistratura trovino adesioni e spazi crescenti i modelli e gli idealtipi più propensi a privilegiare la collettività e la sua tutela piuttosto che i singoli individui.

Il Dr. Gratteri è tra costoro e la sua esposizione mediatica porta a identificarlo come paladino e campione di quel modello ma di certo non è solo ed anzi si trova in buona compagnia, come si può apprezzare leggendo migliaia di sentenze i cui redattori esprimono una sensibilità identica o affine alla sua.

È il momento di concludere e lo si fa affermando che è un errore impostare la questione di cui si parla in termini di giusto o sbagliato.

Nicola Gratteri è un esponente di punta di una sensibilità sociale e giudiziaria che c’è sempre stata e che oggi vince su tutti i fronti e domina la scena.

Ci crede e fa bene ad essere coerente con il suo credo: non c’è niente di sbagliato in questo.

Ma fa ugualmente bene chi crede in un modello alternativo fondato sull’idea che diritto e giustizia abbiano come fine primo e ultimo la promozione degli esseri umani e non la loro mortificazione, la protezione delle loro libertà e non la loro compressione.