Attenuante della provocazione: criteri per il riconoscimento (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 1 con la sentenza numero 36863/2023 ha delineato, in conformità al dato testuale dell’articolo 62 comma 2 c.p., il rapporto di causalità psicologica, in altre parole quando il fatto ingiusto sia stato causa dello stato d’ira e della conseguente reazione.

La Suprema Corte premette che secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorrono:

a) lo «stato d’ira», costituito da un’alterazione emotiva che può anche protrarsi nel tempo e non essere in rapporto di immediatezza con il «fatto ingiusto altrui»;

b) il «fatto ingiusto altrui», che deve essere connotato dal carattere della ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale;

c) un rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse, sempre che sia riscontrabile una qualche adeguatezza tra l’una e l’altra condotta (Sez. 1, n. 21409 del 27/03/2019, Rv. 275894-01).

Ebbene, per quanto attiene al requisito di cui alla lettera a) , per configurare lo “stato di ira” è necessario che l’agente abbia perduto il controllo di sé stesso per mancato funzionamento dei freni inibitori e dunque questo elemento di natura soggettiva deve concretizzarsi in un impulso emotivo incontenibile che comporta la perdita, da parte dell’agente, del controllo delle proprie azioni, determinato dal fatto ingiusto altrui, e può consistere anche in un’alterazione emotiva che si protrae nel tempo.

Per quanto invece concerne il requisito di cui alla lettera b) , per “fatto ingiusto altrui”, deve intendersi ciò che riveste carattere di ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell’ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non valutate con riferimento alle convinzioni dell’imputato e alla sua sensibilità personale, non corrispondenti a canoni di civile convivenza, e tenuto conto che è comunque richiesto che tale fatto ingiusto debba essersi effettivamente verificato, a nulla rilevando l’erroneo convincimento dell’imputato.

In ordine al requisito indicato alla lettera c), inoltre, occorre osservare come pur non essendo richiesta la proporzione fra l’offesa e la reazione, sia comunque necessario che la reazione sia in qualche modo adeguata all’offesa, onde lasciar desumere l’esistenza del nesso di causalità tra le condotta ed il fatto ingiusto altrui e non di mera occasionalità.

Nel caso esaminato, invero, premessa la differente ricostruzione accreditata dalle due sentenze di merito in relazione ai meccanismi genetici da cui era scaturito l’omicidio (ovvero in relazione agli effetti prodotti, sulla dimensione psicologica dell’imputato, dai fattori esterni ascrivibili alle condotte della vittima e agli effetti, anche di tipo sociale, che esse avevano determinato), va rilevato che l’affermazione, da parte della Corte di secondo grado, secondo cui non vi sarebbe stato un evento scatenante dello stato di ira dell’imputato non pare coerente con quanto dalla sentenza argomentato in ordine al momento del sorgere del proposito delittuoso, identificato, come detto, in quello in cui S. aveva ricevuto la telefonata della moglie, la mattina dell’omicidio, nel corso della quale la donna gli aveva rappresentato il crescendo di azioni intimidatorie da parte della vittima.

Anche sotto tale profilo, dunque, appare necessario un ulteriore approfondimento motivazionale, volto a ricostruire, in termini di certezza processuale e secondo una puntuale scansione logico argomentativa, il rapporto tra le condotte agite da K. e il maturare del proposito criminoso in capo all’imputato, al fine di ricostruirne le specifiche interrelazioni e di stabilire il rapporto tra le condotte vessatorie in precedenza realizzate dalla vittima, l’insorgere del proposito criminoso e la sua successiva attuazione, al fine di lumeggiarne le eventuali relazioni eziologiche (Sez. 1, n. 19150 del 16/02/2023, Rv. 284549 — 01).

La cassazione sottolinea che è stato spiegato che non si richiede la proporzione tra fatto ingiusto della vittima e reazione del reo, bensì, in conformità al dato testuale, di un rapporto di causalità psicologica, in altre parole che il fatto ingiusto sia stato causa dello stato d’ira e della conseguente reazione.

A fronte della molteplicità delle spinte emotive all’azione, molteplicità che spesso è presente nell’animo di chi reagisce alla condotta altrui, si rende necessario assumere un criterio per distinguere i casi in cui il fatto ingiusto altrui sia solo occasione o pretesto per l’azione violenta dai casi in cui il fatto ingiusto altrui sia stato effettivamente la causa dello stato d’ira e della reazione violenta.

A tal fine, si è rilevato che la sussistenza di un rapporto di adeguatezza o proporzionalità tra fatto ingiusto e reazione è significativo indicatore di una relazione di causalità psicologica.

Nell’ambito di tale interpretazione della norma si è poi aggiunta la considerazione che il “fatto ingiusto altrui“, ai fini dell’art. 62 n. 2) cod. pen., può essere integrato anche da una realtà complessa, caratterizzata da pregresse condotte che hanno determinato l’insorgere di una forte contrapposizione personale vissuta con esasperazione e da una ulteriore condotta, direttamente scatenante il fatto reato, anche non grave, ma tale inserendosi nel contesto di esasperazione, determinare uno stato d’ira e una condotta violenta, cosiddetta provocazione per accumulo.

E’ stato, quindi, ritenuto che «Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante della provocazione, pur nella forma c.d. per accumulo, si richiede la prova dell’esistenza di un fattore scatenante che giustifichi l’esplosione, in relazione ed in occasione di un ultimo episodio, pur apparentemente minore, della carica di dolore o sofferenza che si affermi sedimentata nel tempo” (Sez. 1, n. 4695 del 13/01/2011, Rv. 249558).

Dunque, a fronte di un contesto di esasperata conflittualità, esitato in una grave condotta violenta, non è sufficiente verificare la relazione tra la condotta violenta e l’atteggiamento, immediatamente precedente, della vittima, ma è necessario leggere la rilevanza causale dell’ultima manifestazione della vittima nel contesto della conflittualità esistente con l’imputato per verificare se quell’ultima azione, magari in sé meno grave di altre, avesse avuto, nella percezione soggettiva del reo, una valenza potenziata da tutta conflittualità pregressa e quindi avesse fatto insorgere uno stato d’ira che ha mosso il reo alla reazione.

Anche nella provocazione così detta per accumulo è necessario verificare se vi sia stata relazione di causalità psicologica tra fatto ingiusto della vittima e reazione, ma nella valutazione del fatto ingiusto l’ultima condotta non va isolata dal contesto nel quale si è verificata.