Procedimento penale e procedimento di prevenzione: conseguenze dell’assoluzione in sede penale (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 36878/2023, udienza camerale del 17 maggio 2023, permette di comprendere – non necessariamente condividere – le sequenze logiche, a loro volta derivanti dall’autonomia e dalla diversità degli scopi tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, che possono in alcuni casi giustificare la permanenza del giudizio di pericolosità sociale e la confisca dei beni nei confronti di taluno che sia stato assolto in sede penale.

Permette ugualmente di comprendere come sia latente in questa materia il rischio di automatismi decisionali frutto di vuote tautologie piuttosto che di valutazioni razionali.

Autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione

Va rammentato, in linea generale, che, attesa l’autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica o qualificata del proposto ex art. 4 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto medesimo (tra le più recenti, Sez. 2, n. 15704 del 25/1/2023, Rv. 284488; v. anche Sez. U, n. 18 del 10/12/1997, Pisco, Rv. 210042).

Assoluzione in sede penale: non preclude il giudizio di pericolosità nella sede preventiva

Proprio in virtù dell’autonomia tra i due procedimenti, è stato affermato che l’assoluzione, in sede penale, dal reato di associazione per delinquere di stampo mafioso non preclude un’autonoma valutazione, da parte del giudice della prevenzione, dei profili di pericolosità soggettiva del proposto, ove risulti adeguatamente motivata in fatto la permanenza dell’inquadramento del soggetto in una delle categorie tipizzate di cui agli articoli 1 e 4 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Sez. 2, n. 23813 del 17/7/2020, Rv. 279805; Sez. 1, n. 24707 del 1/2/2018, Rv. 273361).

Revoca della confisca: condizioni

È stato precisato, in argomento, che la misura ablatoria può essere revocata solo ed esclusivamente se il processo penale abbia accertato, nel merito, l’assoluta estraneità del proposto ai fatti reato sulla base dei quali, essendo stato ritenuto pericoloso, era stata ordinata la confisca (Sez. 2, n. 31549 del 6/6/2019, Rv. 277225).

Nozione di appartenenza

Quanto al concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, Sez. unite, ‘Gattuso’ (n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Rv. 271512) insegna che in esso va ricompresa la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.

Attualità della pericolosità sociale

Con la medesima decisione, si è statuito che anche nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della “attualità”  della pericolosità del proposto (in motivazione la Corte ha precisato che solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità).

Pericolosità sociale come parametro di delimitazione temporale dell’applicabilità della confisca

Non è superfluo ricordare, al termine di questa breve ricognizione giurisprudenziale, che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato (Sez. unite, n. 4880 del 26/6/2014, dep. 2/2/2015, Spinelli ed altro, Rv. 262605).

Esame del caso oggetto di ricorso: errore metodologico della decisione impugnata

Tanto premesso, ritiene il collegio che la Corte territoriale, pur avendo operato un corretto richiamo ai principi che, in astratto, governano la materia sottoposta all’odierno vaglio, non ne abbia fatto, poi, esatta applicazione al caso di specie, nelle sue  connotazioni concrete, pervenendo, conclusivamente, a una decisione deprivata di un segmento argomentativo decisivo conseguente ad un errore metodologico di approccio.

Si rileva, invero, che, nel concludere sul punto della confermata pericolosità sociale del proposto, la Corte territoriale ha affermato, “in virtù della totale autonomia dei procedimenti in questione”, che “la pronuncia assolutoria e irrevocabile della Corte d’appello non ha ribaltato, né tantomeno destrutturato, il giudizio di pericolosità svolto dal giudice della prevenzione nel decreto di confisca. Infatti, entrambe le pronunce si sono fondate sui medesimi fatti storici che, analizzati nella loro oggettività, non sono in contrasto tra loro. Pertanto, gli indizi sorti dall’analisi e dalla valutazione di tali fatti storici lasciano permanere in capo a XXX una pericolosità sociale qualificata ai sensi dell’art. 4 lettera A d.lgs. 159/2011, con riferimento al delitto di cui all’art. 416-bis c.p.”.

Tale passaggio argomentativo, cruciale nell’economia complessiva della motivazione, sottende, in primo luogo, una interpretazione del principio di autonomia dei procedimenti di tipo “assolutista”, nel senso, cioè, propugnatore di una sua applicazione anche nei casi, come quello di specie, in cui, come ammesso dalla stessa Corte decidente, “entrambe le pronunce si sono fondate sui medesimi fatti storici”.

Trattasi, tuttavia, di assunto inconciliabile con l’insegnamento di legittimità, alla luce del quale la revoca della confisca di prevenzione (oggi revocazione ex art. 28, lett. b) del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159) non consegue automaticamente all’intervenuta assoluzione, con sentenza definitiva, del proposto da una delle imputazioni a suo carico, salvo che il fatto escluso in sede penale sia esattamente lo stesso posto a fondamento del giudizio di pericolosità (Sez. 2, n. 15650 del 14/2/2019, Rv. 275778).

In un caso peculiare come quello in esame, caratterizzato dall’assoluzione in sede penale dei coimputati di dall’accusa di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e dalla esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nella sua declinazione del metodo mafioso, la Corte di merito, prima di poter eventualmente pervenire ad un giudizio di conferma della pericolosità sociale qualificata del proposto, in funzione della confisca, avrebbe dovuto confrontarsi, in modo adeguato, con il novum allegato dai richiedenti la revoca della misura patrimoniale, costituito, appunto dalla sentenza di assoluzione in sede penale di cui si è detto.

Con ciò si vuol dire che il giudice della prevenzione avrebbe dovuto esaminare la sentenza assolutoria del giudice penale, con specifico riferimento alla parte illustrativa delle ragioni per le quali gli elementi di fatto valorizzati dalla pubblica accusa non erano stati ritenuti sufficienti a dimostrare la sussistenza del reato associativo originariamente contestato e del connesso metodo mafioso; tale analisi, peraltro, non avrebbe dovuto essere concentrata –  come ha fatto la Corte di appello – sulla sola persona di XXX ma avrebbe dovuto estendersi alle interrelazioni tra la sua posizione con quella dei sodali assolti.

Solo in esito a tale indispensabile ragionato confronto con la motivazione assolutoria del giudice penale, il giudice della prevenzione avrebbe potuto, eventualmente, affermare che “i medesimi fatti storici” posti a sostegno delle due pronunce non fossero “in contrasto tra loro” e che, insufficienti a dimostrare l’intraneità al sodalizio investigato, potessero apprezzarsi come sufficienti a comprovare l’appartenenza a quello stesso sodalizio, e non soltanto la contiguità o vicinanza.

L’affermazione conclusiva di “non contrasto” fra gli stessi fatti storici posti alla base delle due pronunce, penale e di prevenzione, pertanto, si rivela un’affermazione “apparente”, perché carente dell’indispensabile, e logicamente antecedente, sviluppo argomentativo che avrebbe dovuto giustificarla, previo confronto – come detto – con le ragioni della sentenza assolutoria.

Esito del ricorso

Tali lacune motivazionali impongono l’annullamento del decreto impugnato, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte territoriale, che dovrà procedere, di nuovo, alla valutazione della eventualmente persistente (anche dopo la pronuncia assolutoria in sede penale) pericolosità sociale, qualificata o meno, di in funzione della confisca dei beni di cui si chiede la revoca, valutazione che dovrà essere operata secondo la metodologia indicata e, all’esito della quale, in caso di ritenuta conferma della pericolosità, dovrà affrontarsi il successivo tema, oggi da considerarsi assorbito, della correlazione temporale della pericolosità medesima in coincidenza con la data dell’acquisto dei beni confiscati.