Cass. pen., Sez. 4^, sentenza n. 32424/2023, udienza del 12 luglio 2023, ricostruisce l’evoluzione normativa e giurisprudenziale del fenomeno delle “contestazioni a catena” e delinea i vigenti orientamenti orientativi.
Le finalità dell’art. 297 cod. proc. pen.
Con l’art. 297 cod. proc. pen. il legislatore del 1989 ha inteso codificare la regula iuris, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale formatasi sotto il previgente codice di rito, della “contestazione a catena”, con la quale si era stabilita una deroga al principio della decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a ciascun titolo cautelare.
Il fine, evidente, è quello di evitare il fenomeno della “diluizione” nel tempo della “carcerazione provvisoria”, attuata mediante l’emissione, in momenti diversi, nei confronti del medesimo soggetto, di una pluralità di provvedimenti coercitivi riguardanti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero concernenti fatti di reato diversi ma connessi tra loro.
Nel suo testo originario, l’art. 297 cod. proc. pen., al terzo comma (che riprendeva la disposizione da ultimo appositamente introdotta nel codice abrogato dalla legge n. 398 del 1984) prevedeva che la decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare applicata con un’ordinanza si sarebbe dovuta retrodatare al momento dell’esecuzione di altra precedente ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso fatto, ovvero più fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di aberratio delicti o di aberratio ictus plurioffensiva.
Modifiche del 1995
Sull’impianto originario della norma il legislatore è, tuttavia intervenuto già nel 1995, da un lato restringendone l’ambito applicativo, con la previsione dell’operatività del meccanismo di retrodatazione esclusivamente con riferimento ai casi di connessione qualificata ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., lett. b) (continuazione tra i reati) e c) limitatamente all’ipotesi di reati commessi per eseguire gli altri (connessione teleologia); dall’altro, introducendo una regola generale di retrodatazione “automatica” (“se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura… i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave”).
Si è premurato, tuttavia, di specificare che tale ultimo automatismo non sarebbe stato applicabile, laddove la seconda ordinanza cautelare fosse stata emessa dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (“la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”).
Sentenza additiva n. 408/2005 della Corte costituzionale
L’ambito di operatività della disposizione in esame veniva, però, ampliato per effetto della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte costituzionale ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, nella parte in cui “non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell’emissione della precedente ordinanza”; ed ulteriormente precisata dalla sentenza n. 233 del 2011, con la quale i giudici delle leggi, in dissonanza rispetto ad un contrario orientamento che emergeva dalla giurisprudenza della Suprema Corte, dichiaravano la illegittimità dello stesso art. 297 nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevedeva che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applicasse anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato fosse stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
Giurisprudenza delle Sezioni unite: messa a fuoco di tre distinte situazioni
A chiarire ulteriormente la portata applicativa della norma sono poi intervenute due pronunce delle Sezioni unite penali del 2005 e del 2006 (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006 dep. 2007, Librato, Rv. 235909-10-11; Sez. U, n. 21957 del 22/3/2005, P.M. in proc. Rahulia ed altri, Rv. 231057-8-9). Applicando i principi espressi in tali pronunce, con riguardo alla contestazione di reati diversi, variamente collegabili tra loro, è possibile – in linea schematica – riconoscere tre distinte situazioni, alle quali corrispondono altrettante, distinte regole operative.
Comune a tutti e tre i casi è la necessità, perché si possa parlare di “contestazione a catena” e conseguentemente possa trovare applicazione la disciplina della retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare, che i reati oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore (in questo senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 31441 del 24/4/2012, Rv. 253237).
La prima fattispecie è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti-reato legati tra loro da concorso formale, continuazione o da connessione teleologica (casi di connessione qualificata), e per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio.
In tal caso trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, che non lascia alcun dubbio sul fatto che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima operi automaticamente e, dunque – come affermano le Sezioni unite di questa Corte – “indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure”.
Si ha, in altri termini, in tal caso un’automatica retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare che risponde all’esigenza “di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabili dalla legge, anche quando nel corso delle indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata” (così C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89), e che si determina solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale (così Sez. U, n. 14535/2007 Librato, cit.).
La seconda fattispecie è molto simile alla prima, verificandosi comunque allorquando sia accertata esistenza, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari, di una delle tre forme di connessione qualificata di cui si è detto, ma presuppone l’intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti posti alla base del primo provvedimento coercitivo.
Tale ipotesi si realizza, dunque, in casi in cui le due o più ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti penali e, secondo il dictum delle più volte richiamate Sezioni unite, si palesa irrilevante che gli stessi derivino da un procedimento inizialmente unico, in virtù dell’avvenuta separazione delle indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini.
In tali casi si applica la regola dettata dal secondo periodo dell’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, derivandone che la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza.
In tal senso anche le pronunce più recenti di legittimità hanno ribadito che quando nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, opera la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. anche rispetto ai fatti oggetto di un procedimento “diverso”, se questi erano desumibili dagli atti anteriormente al rinvio a giudizio disposto per il fatto oggetto della prima ordinanza (cfr. Sez. 1, n. 27658 del 12/4/2013, Rv. 254005; conf. Sez. 6, n. 50128 del 21/11/2013; Rv. 258500).
La terza possibile situazione che può profilarsi è quella in cui tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari non esista alcuna ipotesi di connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata, cioè diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologico (per quest’ultimo, nei limiti fissati dal codice).
Tale fattispecie, che in passato si riteneva pacificamente non coperta dall’art. 297 cod. proc. pen., comma 3, oggi rientra nel campo di applicazione di tale norma per effetto del dictum prima delle Sezioni unite con la sentenza Rahulia (Sez. Un. n. 21957 del 22/03/2005, Rahulia, Rv. 231059) e poi della sentenza “manipolativa” della Consulta n. 408 del 2005, è dunque quella delle ordinanze cautelari emesse nello “stesso procedimento” per fatti non legati da connessione qualificata, in cui la retrodatazione opera solo se, al momento dell’emissione della prima ordinanza, esistevano elementi idonei a giustificare la misura adottata con la seconda ordinanza.
La Corte, nella sentenza citata, ha osservato come sia comune alla seconda ed alla terza delle ipotesi appena esaminate il carattere non automatico della retrodatazione e la necessità, per il giudice dinanzi al quale essa è invocata, di verificare la “desumibilità”, dagli atti del procedimento precedente, dei fatti posti ad oggetto della ordinanza custodiale successiva.
Pertanto, la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare è dovuta “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze”.
Il giudice in tal caso è dunque chiamato a verificare se al momento dell’emissione della prima ordinanza cautelare non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva ordinanza cautelare, da intendersi – come precisato dalla Corte costituzionale – come “elementi idonei e sufficienti per adottare” il provvedimento cronologicamente posteriore. Tale regola vale solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, per la retrodatazione occorre verificare, oltre che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza, che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (così Sez. U, n. 14535/07 del 19/12/2006, Librato, cit; conf., in seguito, su tale specifico aspetto, Sez. 2, n. 44381 del 25/11/2010, Rv. 248895; Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, Rv. 240099).
La Corte di legittimità ha precisato che in tema di contestazioni a catena, la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., non opera nel caso di misure cautelari emesse per fatti diversi, in relazione ai quali esiste una connessione non qualificata e che siano oggetto di distinti procedimenti pendenti davanti ad autorità giudiziarie diverse per ragioni di competenza. (così Sez. 2, n. 51838 del 16.10.2013, rv. 258104, ove in motivazione si è precisato che la diversità di competenza delle autorità giudiziarie fa ritenere che i procedimenti non avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza di provvedimenti cautelari non può essere frutto di una scelta del pubblico ministero per ritardare la decorrenza della seconda misura).
Condizioni di deducibilità delle retrodatazione
Le Sezioni unite erano poi intervenute a precisare che, in tema di contestazione a catena, la questione relativa alla retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche nel procedimento di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
a) che il termine interamente scaduto, per effetto della retrodatazione, al momento del secondo provvedimento cautelare;
b) che dall’ordinanza applicativa della misura coercitiva siano desumibili di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva (così Sez. Un. n. 45246 del 19/7/2012, PM in proc. Polcino, Rv. 253549; conf. S.U. n. 45247/12, Asllani, non massimata).
La Corte costituzionale, tuttavia, è subito intervenuta a cassare questo secondo presupposto, dichiarando l’illegittimità dell’art. 309 cod. proc. pen., in quanto interpretato nel senso che la deducibilità della retrodatazione, nel procedimento di riesame, della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall’art. 297, co. 3, cod. proc. pen., sia subordinata alla condizione che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall’ordinanza cautelare impugnata (così Corte cost., sentenza n. 293 del 6 dicembre 2013). Questa Corte Suprema ha poi precisato che è onere della parte che, nel procedimento di riesame, invoca l’applicazione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare, in presenza di contestazioni a catena, fornire la prova dell’esistenza delle condizioni di applicazione di tale retrodatazione riferite al termine interamente scaduto al momento del secondo provvedimento cautelare e alla desumibilità dall’ordinanza applicativa della misura di tutti gli elementi idonei a giustificare l’ordinanza successiva (così sez. 5, n. 49793 del 5.6.2013, rv. 257827).
