Abbiamo pubblicato ieri, a firma di Riccardo Radi, la bella storia dell’Ufficio di Assistenza Legale per i poveri che operò a cavallo tra le prime due decadi dello scorso secolo e assicurò la difesa di persone non abbienti in migliaia di cause (a questo link per la consultazione).
Quell’impegno fu assolto – scrive Radi – da “una schiera di volonterosi professionisti, alieni da ogni idea di lucro o di réclame, desiderosi solo di salvare il povero dalle notissime male arti di “professionisti meno onesti e di pseudo patrocinatori da corridoio”, e di offrire, disinteressatamente, il patrocinio in sede penale, l’assistenza in sede civile, od anche il semplice consiglio che valesse a distrarlo “da pericolose manie di litigiosità”“.
Anche ai giorni nostri esiste qualcosa di simile ed è l’attività legale pro bono.
Per capire cos’è attingiamo ad un articolo di Valentina Maglione, Gli avvocati della solidarietà più attivi nei servizi “pro bono”, pubblicato il 23 novembre 2021 sull’edizione digitale del quotidiano Il Sole 24 ore (a questo link).
Apprendiamo anzitutto che l’attività pro bono consiste in consulenza e assistenza legale prestata gratuitamente a enti non profit e a privati in difficoltà. Attorno ad essa nel 2017 si è costituita l’associazione Pro Bono Italia che conta su 46 associati e su una rete di oltre 800 persone.
La Thomson Reuters Foundation ha concepito un programma dedicato al pro bono legale, denominato Trustlaw, il quale ha condotto la ricerca Pro bono Index 2020.
È risultato che in quell’anno i professionisti coinvolti hanno dedicato al pro bono una media di 21 ore di lavoro (erano 9 nel 2016).
Quanto alle ragioni dell’impegno, è risultato che esso è principalmente indirizzato al sostegno della comunità ma serve anche a soddisfare esigenze di formazione e sviluppo delle competenze professionali ed è considerato utile a fini di marketing e di staff retention (una sorta di strategia volta ad incrementare il senso di appartenenza dei componenti degli studi legali e quindi a fidelizzarli all’organizzazione di cui fanno parte).
C’è poi un’ulteriore motivazione ed è spiegata da Giovanni Carotenuto, presidente di Pro Bono Italia: l’affidamento dei servizi legali da parte dei committenti più appetibili dipende anche dal rispetto dei parametri ESG (acronimo dei termini inglesi enviromental, social e governance, cioè attenzione all’ambiente, rispetto dei diritti umani e attenzione al benessere e alla sicurezza, qualità e diversificazione degli organismi direttivi); la coerenza di un organismo ai parametri ESG e parte integrante del cosiddetto beauty contest (altra espressione inglese che designa una procedura che conduce all’assegnazione di un bene ad un soggetto in vista di un duplice obiettivo: la massimizzazione del valore del bene e la sua migliore allocazione possibile); le attività pro bono di uno studio legale rientrano a pieno titolo nell’ESG e concorrono quindi al beauty contest.
Dal reportage del Sole 24 ore apprendiamo infine che le richieste di pro bono dei privati stanno aumentando costantemente, tanto che Pro Bono Italia ha dovuto creare due clearing house (ambiti destinati al filtro delle richieste ed alla selezione di quelle meritevoli di essere prese in carico), e che hanno per lo più a che fare con il diritto del lavoro, di famiglia e dell’immigrazione.
Osserviamo laicamente e oggettivamente il fenomeno del pro bono e siamo certi che comprende una vocazione sociale dell’avvocatura, sicuramente meritoria.
Ci sentiamo tuttavia di aggiungere che è una vocazione sociale fortemente contemporanea, liquida in senso baumaniano: assistenza ai deboli, senz’altro, ma unita ad una elevata attenzione a marketing, staff retention e beauty contest e, in definitiva, all’ottenimento di incarichi professionali.
Cent’anni fa lucro e réclame erano banditi dalla prospettiva dell’Ufficio legale per i poveri, oggi hanno diritto di cittadinanza.
È un po’ diverso.
