Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 29291/2023, udienza dell’8 marzo 2023, tratta la questione dell’imputato alloglotta e delle condizioni alle quali è azionabile il diritto all’assistenza di un interprete e alla traduzione degli atti.
La decisione della Corte di cassazione
La giurisprudenza di legittimità, già sotto la vigenza dell’art. 143, cod. proc. pen. nella versione precedente le modifiche introdotte dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 32, aveva autorevolmente affermato il principio secondo il quale, poiché l’efficacia operativa dell’art. 143 cod. proc. pen. è subordinata all’accertamento dell’ignoranza della lingua italiana da parte dell’imputato, qualora l’imputato straniero mostri, in qualsiasi maniera, di rendersi conto del significato degli atti compiuti con il suo intervento o a lui indirizzati e non rimanga completamente inerte ma, al contrario, assuma personalmente iniziative rivelatrici della sua capacità di difendersi adeguatamente, al giudice non incombe l’obbligo di provvedere alla nomina dell’interprete, non essendo del resto rinvenibile nell’ordinamento processuale un principio generale da cui discenda il diritto indiscriminato dello straniero, in quanto tale, a giovarsi di tale assistenza (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216258; nello stesso senso anche Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239693 secondo cui il riconoscimento del diritto all’assistenza dell’interprete non discende automaticamente, come atto dovuto e imprescindibile, dal mero status di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore presupposto, in capo a quest’ultimo, dell’accertata ignoranza della lingua italiana).
Non diversamente, l’attuale art. 143, cod. proc. pen. riconosce il diritto all’interprete e alla traduzione degli atti fondamentali a favore dell’imputato «che non conosce la lingua italiana». La conoscenza della lingua italiana non è, dunque, presunta; ma ciò non equivale ad affermare che, ove risulti che l’imputato la conosca, questi abbia diritto all’interprete e alla traduzione degli atti.
Si è, del resto, già affermato (Sez. 2, n. 46139 del 28/10/2015, Rv. 265213) che, in tema di diritto alla traduzione degli atti, l’accertamento relativo alla conoscenza da parte dell’imputato della lingua italiana costituisce una valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità, se – come avvenuto nella specie – fondato su circostanze obiettive e motivato in termini corretti ed esaustivi (Sez. 2, n. 11137 del 20/11/2020, dep. 2021, Rv. 280992).
Risulta ancora pertinente in proposito, l’arresto secondo cui «La pregressa nomina dell’interprete o la traduzione di alcuni atti del procedimento o del processo non provano di per sé l’ignoranza della lingua italiana, né vincolano l’autorità giudiziaria, sempre libera di accertare, in ogni momento e ogni fase del giudizio, la conoscenza effettiva della lingua» (Sez. 3, n. 37364 del 05/06/2015, Rv. 265185; in questo senso anche nella citata Sez. U. n. 12, Jakani, §3, ultimo paragrafo).
Deve ancora aggiungersi che, secondo l’opzione ermeneutica prevalente condivisa e ribadita dal collegio, «in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa, l’omessa traduzione della sentenza in lingua nota all’imputato alloglotta non integra di per sé causa di nullità della stessa, atteso che, dopo la modifica dell’art. 613 cod. proc. pen., ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, l’imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso per cassazione» (Sez. 5, n. 32878 del 05/02/2019, Rv. 277111; Sez. 5, n. 15056 dell’11/03/2019, Rv. 275103). La giurisprudenza di legittimità, invero, muovendo dalla funzione servente della traduzione rispetto alla facoltà di proporre impugnazione ha escluso che l’omessa traduzione della sentenza di appello determini, sic et simpliciter, la nullità della stessa. Ciò in quanto alla violazione dell’articolo 143 cod. proc. pen. non sono collegate nullità formali specifiche, sicché la eventuale sanzione configurabile per il caso di inosservanza di tali disposizioni è esclusivamente quella prevista dall’art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., concernente la violazione delle disposizioni relative all’assistenza dell’imputato: essa richiede, tuttavia, che una qualche effettiva lesione di tale diritto possa dirsi realizzata, in quanto si tratta di disposizioni volte ad assicurare l’effettività e la piena consapevolezza della partecipazione al giudizio e la possibilità della completa esplicazione del diritto di difesa, sicché quando queste si siano comunque realizzate non può dirsi sussistente alcuna violazione.
Il commento
La decisione esposta in precedenza è una delle tante che minimizzano e banalizzano garanzie rilevanti poste dall’ordinamento a tutela dell’accusato in sede penale.
La norma di riferimento è contenuta nell’art. 143 cod. proc. pen. i cui primi quattro commi sono così congegnati:
“1. L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall’esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento.
2. Negli stessi casi l’autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell’informazione di garanzia, dell’informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali,
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna.
3. La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza.
4. L’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall’autorità giudiziaria. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.“.
Il senso complessivo di questa disciplina è chiarissimo:
- se l’imputato non conosce la lingua italiana ha diritto di essere assistito da un interprete e di poter disporre della traduzione degli atti procedimentali più importanti;
- tali diritti sono espressamente finalizzati alla comprensione dell’accusa e all’esercizio delle facoltà difensive;
- l’accertamento della conoscenza della lingua italiana è demandato all’autorità giudiziaria.
Non è superfluo ricordare che i diritti di cui si parla, quantomeno riguardo all’assistenza di un interprete, sono di rango costituzionale in quanto espressamente contemplati nell’ultimo periodo dell’art. 111, comma 3, Cost.
È senz’altro vero che il codice di rito non prevede alcuna nullità specifica per la violazione delle disposizioni dell’art. 143 ma è ugualmente vero, per quanto si tenda a dimenticarsene, che in applicazione dell’art. 124 cod. proc. pen. i magistrati “sono tenuti ad osservare le norme di questo codice anche quando l’inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale” e che “I dirigenti degli uffici vigilano sull’osservanza delle norme anche ai fini della responsabilità disciplinare“.
Così come è vero, e conta anche di più, che l’art. 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., includa tra le nullità di ordine generale quelle derivanti dall’inosservanza delle disposizioni concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato.
Fatta questa premessa scontata, il suo confronto con le argomentazioni della decisione qui commentata ne rivela la precarietà e talvolta anche la banalità.
Secondo il collegio della prima sezione penale è indizio rivelatore della conoscenza della lingua italiana la circostanza che l’imputato non rimanga completamente inerte e mostri in qualsiasi modo di capire il senso degli atti compiuti in sua presenza.
Non rimanere inerti significa verosimilmente fare qualcosa ma i giudici di legittimità non spiegano cosa, preferendo mantenersi sul vago.
Lo stesso può dirsi riguardo al mostrare in qualche modo di aver capito il senso di ciò che avviene. È un’espressione generica che dice tutto e nulla: se un imputato comprende alla lontana il senso minimale di una domanda posta dal PM e di una risposta data da un teste, ciò non equivale ovviamente ad aver compreso il valore processuale dell’una e dell’altra, le conseguenze che possono derivarne e le eventuali iniziative reattive utili per contrastarle.
Concetti inservibili, dunque, che tuttavia, se ripresi tali e quali dal giudice di merito allo scopo di attestare la sufficiente conoscenza dell’italiano dell’imputato alloglotta, saranno considerati corretti ed esaustivi e per ciò stesso insindacabili dal giudice di legittimità.
La demolizione della garanzia è completata attraverso due ultime argomentazioni.
Non conta, nell’opinione del collegio, che un giudice abbia già nominato un interprete e disposto la traduzione degli atti poiché tali provvedimenti giudiziari non dimostrano l’ignoranza della lingua italiana e non vincolano altre autorità giudiziarie che rimangono pertanto libere di accertare in ogni momento la conoscenza effettiva della lingua stessa.
Un principio assai singolare, a pensarci bene: se l’imputato non rimane inerte (e, data la già sottolineata genericità del concetto potrebbe bastare alzare le sopracciglia o sudare copiosamente per uscire dall’inerzia), vuol dire che conosce l’italiano; se invece un giudice della Repubblica gli nomina un interprete (cosa che può fare solo se abbia accertato la sua incapacità di comprendere e parlare la nostra lingua), questo non impedisce di tornare sulla questione e, in ipotesi, cambiare rotta.
Ugualmente singolare è la considerazione che la violazione delle norme contenute nell’art. 143 conta solo se ha prodotto un’effettiva lesione del diritto di difesa dell’imputato.
Non conta quindi l’omessa traduzione della sentenza di appello visto che l’imputato non ha più la facoltà di ricorrere personalmente per cassazione.
Così come non conta che l’imputato rimanga ignaro di ciò che avviene nel giudizio che lo riguarda se comunque la sua partecipazione e la sua difesa non siano state intaccate.
Si dovrebbe convenire che argomentazioni del genere sono la negazione della logica.
Se un imputato è inconsapevole di ciò che sta accadendo nel suo processo, può davvero sostenersi che le attività svolte dal suo difensore possano da sole supplire a quell’assenza di consapevolezza? Può dimenticarsi così facilmente che l’imputato è il mandante del ministero difensivo e l’avvocato è solo un mandatario, sia pure specializzato?
E può ragionevolmente sostenersi che l’assenza di conoscenza della sentenza sia ovviata dalla sua impugnazione? Ha o no voce in capitolo l’imputato sulle iniziative da assumere anche riguardo alla prosecuzione del giudizio e alle questioni da sottoporre al giudice superiore e se sì, se le ha, come può esercitarle senza avere idea di ciò che ha statuito quello di grado inferiore?
Domande retoriche, ovvio, ma alla Cassazione basta che l’imputato non sia rimasto inerte.
