Cavallotti c. Italia: confische senza condanna dinanzi alla Corte EDU (Vincenzo Giglio)

Avvertenza preliminare

La notorietà della vicenda giudiziaria qui tratta e dei suoi protagonisti rende impossibile ed inutile l’anonimizzazione dei dati personali solitamente assicurata da Terzultima Fermata.

La causa Salvatore Cavallotti ed altri contro Italia dinanzi alla Corte europea dei diritti umani

Pende dinanzi la prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo il ricorso n. 29614/16 introdotto da Gaetano, Vincenzo e Salvatore Cavallotti (che la Corte, come si vedrà, definisce cumulativamente “il primo gruppo di ricorrenti”) ed ancora da Salvatore Cavallotti, Giovanni Cavallotti, Margherita Martini e Salvatore Mazzola (“il secondo gruppo di ricorrenti”).

I componenti del primo gruppo hanno chiesto ai giudici europei di riconoscere l’esistenza in loro danno di plurime violazioni di norme convenzionali.

Segue adesso il provvedimento interlocutorio, da me tradotto in lingua italiana, emesso dalla Corte il 10 luglio 2023 e pubblicato il 28 agosto 2023 (allegato nella versione originale in lingua inglese alla fine del post).

OGGETTO DELLA CAUSA

I ricorsi riguardano la confisca dei beni dei ricorrenti come misura preventiva ai sensi della Legge n. 575 del 31 maggio 1965.

Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti (“il primo gruppo di ricorrenti”) sono stati accusati in un procedimento penale di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso ex art. 416 bis del Codice penale (“CC”) e – per quanto riguarda Gaetano e Vincenzo – di turbativa d’asta ai sensi dell’articolo 353 del Codice penale.

Il procedimento è stato successivamente interrotto riguardo alla turbativa d’asta e tutti e tre i ricorrenti sono stati assolti dall’accusa di partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso, con sentenza definitiva della Corte d’Appello di Palermo del 6 dicembre 2010.

Nel frattempo, nell’ambito di un procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione,  preventive, i giudici nazionali hanno ritenuto che il primo gruppo di ricorrenti fossero sospettabili di appartenenza a un’organizzazione criminale di tipo mafioso e, sulla base della loro pericolosità qualificata, gli hanno confiscato un gran numero di beni, tra i quali diverse società, appartenenti a loro o ai loro familiari (Salvatore Cavallotti, Giovanni Cavallotti, Margherita Martini e Salvatore Mazzola; “il secondo gruppo di ricorrenti”). I giudici nazionali hanno considerato che tutti questi beni erano nella disponibilità del primo gruppo di ricorrenti e di valore sproporzionato rispetto al reddito lecito della famiglia e che costoro non erano riusciti a dimostrarne la provenienza lecita. La confisca è divenuta definitiva con la sentenza della Corte di cassazione n. 4305 del 2 febbraio 2016.

Le censure denunciate in ciascun ricorso sono indicate nello schema allegato.

In particolare, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, l’eccessività dell’onere probatorio circa la proprietà e la provenienza dei beni, l’uso di presunzioni e il fatto che le decisioni dei tribunali siano state emesse sulla base di meri sospetti.

Essi lamentano inoltre, ai sensi dell’articolo 6 § 2 della Convenzione, la violazione della presunzione di innocenza in virtù della loro precedente assoluzione e, ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, l’imposizione di una sanzione non preceduta dall’accertamento di una responsabilità penale.

Invocano infine l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, lamentando un’ingerenza e sproporzionata nei loro diritti di proprietà.

DOMANDE ALLE PARTI

Le censure sollevate da ciascuno dei ricorrenti e le corrispondenti domande alle quali le parti sono chiamate a rispondere, sono indicate nella tabella allegata.

1. Tenendo conto che il primo gruppo di ricorrenti è stato assolto dall’accusa di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, le decisioni dei tribunali nazionali sono state il riflesso dell’opinione che essi fossero colpevoli, nonostante l’assenza di un formale accertamento di colpevolezza? Se è così, c’è stata una violazione della presunzione di innocenza, garantita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione (si veda Allen c. Regno Unito [GC], n. 25424/09, CEDH 2013 e, mutatis mutandis, Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, § 47, 1° marzo 2007)?

2. Tenuto conto della qualificazione dell’atto impugnato secondo il diritto e la giurisprudenza nazionali (si confronti, inter alia, Corte di Cassazione, sentenze n. 18 del 3 luglio 1996, n. 57 dell’8 gennaio 2006, n. 39204 del 17 maggio 2013 e n. 4880 del 2 febbraio 2015; contra, sentenza n. 14044 del 25 marzo 2013; v. anche, inter alia, Corte Costituzionale, sentenza nn. 21 del 9 febbraio 2012, e n. 24 del 24 febbraio 2019), della sua natura e del suo scopo,  delle procedure implicate nella sua realizzazione e attuazione e della sua gravità, la confisca dei beni dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 24 del decreto n. 159 del 2011 costituisce una “sanzione” penale ai sensi dell’articolo 7 § 1 della Convenzione (confronta Arcuri c. Italia (dicembre), n. 52024/99, § 2, CEDU 2001-VII, Capitani e Campanella c. Italia, NO. 24920/07, § 37, 17 maggio 2011, Gogitidze e altri c. Georgia, NO. 36862/05, § 121, 12 maggio 2015, e, mutatis mutandis, Balsamo c. San Marino, nn. 20319/17 e 21414/17, § 58 e segg., 8 ottobre 2019, e G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia [GC], nn. 1828/06 e altri 2, §§ 214 e segg., 28 giugno 2018)?

In caso affermativo, vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione a causa del  provvedimento di confisca nonostante l’assoluzione del primo gruppo di ricorrenti dell’accusa di partecipazione ad un’ associazione a delinquere di tipo mafioso organizzazione (vedi G.I.E.M. S.R.L. e altri, sopra citata, § 251)?

3. La contestata interferenza nel pacifico godimento dei beni dei ricorrenti è stata fondata su una legge sufficientemente prevedibile, come richiesto dall’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione?

In caso affermativo, l’ingerenza è stata necessaria e proporzionata?

Le parti sono invitate ad affrontare i seguenti punti:

a) se, alla luce dell’assoluzione del primo gruppo di ricorrenti dall’accusa di partecipazione ad un’associazione per delinquere di tipo mafioso, siano stati giustificati l’accertamento di una pericolosità qualificata e la conseguente confisca dei beni;

b) se le autorità nazionali abbiano dimostrato in modo motivato che i beni di proprietà del secondo gruppo di ricorrenti appartenessero effettivamente al primo gruppo di richiedenti, sulla base di un valutazione obiettiva degli elementi di fatto e senza fare affidamento su un semplice sospetto;

c) se le autorità nazionali abbiano dimostrato in modo motivato che i beni confiscati potessero essere di illecita provenienza, sulla base di una valutazione oggettiva degli elementi di fatto e senza fare affidamento su un semplice sospetto, anche alla luce della data della loro acquisizione (si veda Todorov e altri c. Bulgaria, nn. 50705/11 e altri 6, § 215);

d) se l’inversione dell’onere della prova circa la lecita provenienza di beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti (si veda Todorov, sopra citato, § 202 e, mutatis mutandis, Dimitrovi c. Bulgaria, n. 12655/09, § 46, 3 marzo 2015?

e) se ai ricorrenti sia stata concessa una ragionevole opportunità di presentare le loro argomentazioni davanti ai tribunali nazionali e se questi abbiano esaminato le prove prodotte dai ricorrenti (G.I.E.M. S.R.L. e altri, sopra citata, § 302; Telbis e Viziteu contro Romania, n. 47911/15, § 78, 26 giugno 2018).

Alcune considerazioni

La vicenda da cui è scaturito il ricorso di cui si parla è una sorta di crocevia delle questioni problematiche che si agitano nel sempre più vasto contenitore delle misure di prevenzione e non a caso ha avuto un rilievo speciale nel libro L’inganno Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene scritto dal giornalista Alessandro Barbano e pubblicato lo scorso anno da Marsilio: un libro concepito come un saggio e realizzato con la metodologia propria dei ricercatori.

Spicca naturalmente la questione giuridica in senso stretto: la legittimità della confisca senza condanna, dunque necessariamente fondata su un compendio indiziario di capacità dimostrativa ben inferiore a quella richiesta in sede penale.

Strettamente correlato è il ricorso piuttosto abituale a presunzioni che, se agevolano gli oneri dimostrativi dell’accusa, per contro li appesantiscono non poco per la difesa.

Presunzioni che talvolta si raddoppiano o si moltiplicano come avviene tutte le volte che il giudice della prevenzione si avvale di elementi indiziari tratti dal procedimento penale e su di essi costruisce i propri sillogismi. Un esempio per tutti: si immagini che un collaboratore di giustizia renda dichiarazioni accusatorie nella sede penale e che queste rimangano indimostrate o insufficientemente dimostrate nei termini richiesti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen.; esse saranno inservibili ai fini dell’affermazione della responsabilità penale ma potranno essere utilizzate in sede preventiva; a un elemento incerto può cioè essere assegnato presuntivamente un significato certo e tale significato può essere sfruttato altrettanto presuntivamente come indice della pericolosità sociale del destinatario di una proposta di prevenzione.

C’è poi, ed è anch’esso un tema cruciale, il problema di chiarire una volta per tutte la natura del sistema preventivo (id est, se si debba oppure no includerlo nella “materia penale” sulla base dei cosiddetti “criteri Engel”). Finora la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha escluso tale appartenenza ma, ad onor del vero, lo ha fatto con argomentazioni ben poco convincenti che hanno pretermesso la notevole capacità afflittiva e stigmatizzante delle misure preventive, sia personali che patrimoniali. I quesiti posti alle parti nel caso Cavallotti lasciano intendere che i giudici dei diritti umani intendono considerare quest’aspetto di particolare rilievo ai fini della decisione definitiva.

C’è infine, sebbene estranea all’oggetto del caso in esame, una questione imponente ed è quella della gestione dei beni sequestrati e confiscati ai sensi della normativa di prevenzione.

Non ci si riferisce a fenomeni aberranti ma fortunatamente isolati di sequestri avvenuti non per finalità di giustizia ma per l’arricchimento di individui che hanno strumentalizzato le loro funzioni istituzionali.

Ci si riferisce invece ai tanti, troppi, casi in cui la gestione statuale è risultata così fallimentare da ridurre in macerie beni di valore e da privare così la collettività (in caso di confisca definitiva) o gli espropriati (in caso di restituzione dei beni medesimi) della ricchezza che gli apparteneva.

Per tutte queste ragioni, si attende con interesse e curiosità l’esito della controversia fin qui commentata.