Applicabilità delle pene sostitutive brevi da parte del giudice di cognizione o da parte del giudice dell’esecuzione (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 6 con la sentenza numero 34091/2023 è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla questione relativa alla individuazione del momento in cui può ritenersi “pendente” il processo in grado di legittimità (ma, come si dirà, il tema si pone negli stessi termini anche in relazione alla pendenza in grado di appello) per determinare le modalità di applicabilità delle pene detentive brevi introdotte dall’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022, contenente le disposizioni transitorie in materia di pene sostitutive delle pene detentive brevi, prevede, infatti, che le nuove disposizioni introdotte al Capo III della legge 24 novembre 1981, n.689, se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. (30 dicembre 2022).

Il codice di rito non contiene, infatti, alcuna norma che individui il fatto o l’atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione.

Decisione

La Suprema Corte premette che la riforma del processo penale introdotta con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 ha profondamente innovato lo statuto delle pene sostitutive, chiarendo, anche da un punto di vista lessicale, la loro essenza di “pena” al pari della pena principale sostituita della reclusione o dell’arresto.

La stessa Relazione illustrativa afferma, infatti, che si tratta di pene, diverse da quelle edittali, che possono essere comminate dal giudice in funzione, oltre che delle finalità di prevenzione generale e speciale, anche della rieducazione del condannato.

In particolare, la riforma, intervenendo sia nel codice penale, attraverso l’introduzione dell’art. 20-bis, che nella legge 24 novembre 1981, n. 689, modificando le disposizioni contenute nel Capo III, ha riconfigurato le pene sostitutive non pecuniarie ed innalzato il limite massimo di pena detentiva sostituibile fino a quattro anni, allineandolo, così, al limite di pena entro il quale, ai sensi dell’art. 656, comma 5, c.p.p. opera la sospensione dell’esecuzione.

Accanto alla pena pecuniaria sostitutiva, sono state, infatti, introdotte, le pene sostitutive della semilibertà, della detenzione domiciliare e del lavoro di pubblica utilità e, al contempo, sono state soppresse le pene sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata. Dall’esame degli artt. 20-bis c.p. e 53 della legge n. 689 del 1981 emerge che: la semidetenzione e la detenzione domiciliare possono essere applicate in sostituzione delle pene detentive contenute entro il limite di quattro anni; il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena detentiva contenuta entro i tre anni e, infine, la pena detentiva contenuta entro il limite di un anno può essere sostituita con la pecuniaria della specie corrispondente.

La sede fisiologica destinata alla valutazione della possibilità di sostituzione della pena detentiva breve è il giudizio di primo grado in relazione al quale il legislatore ha previsto, per il giudizio ordinario, il meccanismo processuale bifasico descritto dall’art. 545-bis c.p.p. – connotato dalla lettura del dispositivo cui segue, in caso di istanza di sostituzione da parte dell’imputato, la successiva decisione, nel corso della medesima udienza o di un’udienza successiva, in ordine alla sostituzione della pena detentiva.

Un meccanismo analogo è stato, inoltre, previsto all’art. 448, comma 1-bis, cod. proc. pen. nell’ipotesi in cui, in caso di patteggiamento, l’accordo investa anche l’applicazione di una pena sostitutiva.

Sebbene, come detto, la sede fisiologica destinata alla valutazione ed applicazione delle pene sostitutive è il giudizio di primo grado, il legislatore della riforma, sul presupposto della loro natura sostanziale e del contenuto favorevole al reo del più elevato limite edittale che consente fa sostituzione della pena detentiva, ha previsto una disciplina transitoria che ne consente l’applicazione retroattiva in bonam partem anche nei giudizi di impugnazione pendenti alla data di entrata in vigore della riforma.

L’art. 95, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2022, contenente le disposizioni transitorie in materia di pene sostitutive delle pene detentive brevi, prevede, infatti, che le nuove disposizioni introdotte al Capo III della legge 24 novembre 1981, n.689, se più favorevoli, si applicano anche ai procedimenti penali pendenti in primo grado o in grado di appello al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. (30 dicembre 2022).

Con riferimento al giudizio di legittimità, la norma prevede, invece, che il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all’esito di un procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto, può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’articolo 666 cod. proc. pen., entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza. In caso di annullamento con rinvio provvede il giudice del rinvio.

La ratto di tale disciplina differenziata per i procedimenti di impugnazione può essere agevolmente ravvisata nel fatto che la decisione in ordine alla sostituzione della pena detentiva ed all’applicazione della pena sostitutiva implica un giudizio di merito (si veda l’art. 58 legge n. 689 del 1981) estraneo al sindacato di legittimità cosicché, a differenza dei giudizi pendenti in grado di appello, per quelli pendenti dinanzi alla Corte di cassazione si riserva ogni decisione al giudice dell’esecuzione, una volta passata in giudicato la sentenza.

La questione che il ricorso pone attiene alla individuazione del momento in cui può ritenersi “pendente” il processo in grado di legittimità (ma, come si dirà, il tema si pone negli stessi termini anche in relazione alla pendenza in grado di appello).

Il codice di rito non contiene, infatti, alcuna norma che individui il fatto o l’atto processuale che determina la “pendenza” del giudizio di impugnazione.

La giurisprudenza di legittimità, pronunciandosi soprattutto in relazione alla disciplina transitoria in tema di prescrizione del reato, introdotta dall’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 – disciplina che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006, escludeva l’applicazione delle disposizioni più favorevoli nei processi pendenti in grado di appello o dinnanzi alla Corte di cassazione – ha formulato soluzioni contrastanti, individuando il “fatto processuale” cui correlare tale pendenza ora nella proposizione del ricorso, ora nell’iscrizione del processo nel registro della corte di appello ora, infine, nella pronuncia della sentenza di primo grado.

Tale contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 47008 del 29/10/2009, D’Amato, Rv. 244810 in cui si è affermato che ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli.

A sostegno di tale soluzione, le Sezioni Unite hanno considerato gli effetti che conseguono alla pronuncia della sentenza di condanna che:

a) pone fine al grado precedente;

b) comporta l’impossibilità per il giudice di assumere ulteriori decisioni in merito all’accusa (salva la residua competenza in tema di procedimenti incidentali cautelari);

c) apre la fase dell’impugnazione, indipendentemente dal fatto (correlato al deposito della sentenza) che siano pendenti i termini per proporla.

Tale principio è stato successivamente ribadito dalle Sezioni Unite, investite del contrasto emerso nelle Sezioni semplici in ordine alla sua estensibilità anche al caso in cui venga emessa una pronuncia di assoluzione.

Si è, pertanto, affermato, sulla base di un percorso ermeneutico simmetrico a quello della sentenza D’Amato, che, ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (Sez. U, n. 15933 del 24/11/2011, dep. 2012, Rancan, Rv. 252012).

Va, inoltre, aggiunto che in entrambe le sentenze appena esaminate le Sezioni Unite hanno posto l’accento anche sulla tecnica legislativa adottata nella redazione della norma nonché sulla sua ratio. In particolare, quanto al primo profilo, si è sottolineato che il legislatore non ha fatto riferimento ad un determinato segmento processuale del giudizio di impugnazione, ma ai giudizi di appello e di cassazione «nella loro globalità e come aventi, ciascuno di loro, immediato corso rispetto al precedente: il che segnala che non è ipotizzabile una soluzione di continuità tra la conclusione di un grado e la pendenza del successivo» (così, la sentenza D’Amato).

Il medesimo principio è stato recentemente applicato dalla cassazione anche in tema di nomina del difensore che, ai sensi dell’art. 96, comma 2, cod. proc. pen., va fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente.

Si è, pertanto, affermato che nel giudizio di cognizione, successivamente alla pronuncia della sentenza di primo grado, l’atto di nomina di un nuovo difensore di fiducia deve essere depositato presso la corte di appello, quale giudice procedente, atteso che la pubblicazione della sentenza, indipendentemente dalla proposizione dell’impugnazione ovvero dall’iscrizione del processo nel registro del giudice di secondo grado, determina la pendenza del procedimento in appello (Sez. 3, n. 11622 del 23/10/2020, dep.2021, Rv. 281482).

Ai fini dell’applicazione dell’art. 95 d.lgs. n. 150 del 2022, la locuzione “procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione”, al pari di quella riferita alla pendenza in grado di appello, si riferisce al segmento processuale che ha inizio con la pronuncia della sentenza da parte del giudice dell’appello o, nel secondo caso, del giudice di primo grado.

Depongono a favore di tale soluzione non sono le considerazioni già esposte dalle Sezioni Unite con riferimento agli effetti conseguenti alla pronuncia della sentenza che definisce il grado di giudizio, ma anche la struttura e la ratio sottesa alla norma in esame.

Quanto al primo profilo, al pari di quanto già osservato dalle Sezioni Unite con riferimento all’art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, va evidenziato che anche nell’art. 95 d.lgs. n. 150 del 2022 il legislatore ha fatto genericamente riferimento ai processi in grado di appello o dinanzi alla Corte di cassazione, intesi nella loro globalità, senza individuare un determinato segmento processuale al loro interno, quale il deposito del ricorso o la trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione ai sensi dell’art. 590 cod. proc. pen.

La cassazione ritiene che non sia estensibile analogicamente la specifica disciplina prevista dall’art. 91 disp. att. cod. proc. pen. e ciò perché, come osservato dalle Sezioni Unite, tale disciplina si giustifica in ragione delle misure cautelari in corso al momento della pronuncia della sentenza. Pertanto, in assenza di una specifica disposizione di legge, deve escludersi che successivamente alla pronuncia della sentenza di secondo grado, il giudice di appello abbia una competenza, diversa da quella eventualmente rilevante in fase esecutiva, a provvedere su una istanza di sostituzione della pena detentiva.

Va, inoltre, considerata la ratio sottesa alla disciplina transitoria in esame, volta a consentire la più ampia applicazione in bonam partem sia nei giudizi di primo grado che nei giudizi di impugnazione delle nuove disposizioni in tema di pene sostitutive.

In virtù della regola generale contenuta all’art. 2, comma quarto, cod. pen., di cui l’art. 95 costituisce diretta applicazione, l’unico limite all’applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli in tema di pene sostitutive è rappresentato dalla formazione del giudicato di condanna a pena detentiva, non sostituita, in data antecedente l’entrata in vigore della riforma.

Qualora, il giudicato riguardi, invece, una condanna a pena detentiva già sostituita sulla base della precedente disciplina, troverà, invece, applicazione il comma 2 dell’art. 95 d. lgs. n. 150 del 2022 in base al quale mentre le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata, già applicate o in corso di esecuzione al momento dell’entrata in vigore del decreto, continuano ad essere disciplinate dalle disposizioni previgenti, i condannati alla semidetenzione possono chiedere al magistrato di sorveglianza la conversione nella semilibertà sostitutiva.

Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto:

ai fini dell’operatività dell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, recante disposizioni transitorie in tema di pene sostitutive delle pene detentive brevi, la pronuncia della sentenza di appello determina la pendenza del procedimento innanzi alla Corte di cassazione, cosicché, per i processi pendenti in tale fase alla data di entrata in vigore del citato d.lgs. (30 dicembre 2022), una volta formatosi il giudicato, il condannato potrà avanzare istanza di sostituzione della pena detentiva al giudice dell’esecuzione”.