Alle volte ci sono dei processi grotteschi per delle condotte minimali, direi risibili, che per trovare una soluzione ragionevole devono arrivare in cassazione.
Oggi segnaliamo la sentenza della cassazione sezione 6 numero 34098/2023 che si è occupata di stabilire se un detenuto sottoposto al 41-bis che proferisce la frase “domani faccio colloquio”, comunicando con altri detenuti sottoposti allo stesso regime ma appartenenti a gruppi di socialità diversi, debba essere condannato per la violazione dell’articolo 391-bis comma terzo, cod. pen., per aver eluso le prescrizioni a questo scopo imposte.
Fatto
La sentenza impugnata precisa che, mentre veniva accompagnato e immesso nel locale con le docce, F. si accostò alle porte blindate dei detenuti appartenenti a gruppi di socialità diverse e pronunciò la frase «domani faccio il colloquio» dinanzi alla camera di pernottamento n. 14 del detenuto G. S. (appartenente a altro gruppo di socialità), poi, non ricevendo risposta, dopo essere stato ammonito dal personale, dalla finestra della doccia proferì le parole «buongiorno a tutti domani faccio il colloquio» indirizzate ai detenuti in quel momento nel passeggio n. 13 nord e, mentre tornava nella sua camera detentiva, nuovamente pronunciò la frase «Io domani faccio il colloquio anche davanti alla camera di pernottamento n. 20, occupata dal N. che rispose «ci vediamo domani».
La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, ha assolto il coimputato D. N. ritenendo che egli abbia risposto a F. soltanto per cortesia, ma senza avere provocato o stimolato la conversazione o con il fine di veicolare informazioni.
Invece, ha confermato la condanna di F. evidenziando che il ricorrente, benché ammonito a tenere un comportamento corretto, persistette nella volontà di interagire con detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis Ord. pen. appartenenti a gruppi di socialità differenti dal suo.
Decisione
La Suprema Corte premette che la condotta descritta nella norma incriminatrice riguarda la «elusione delle prescrizioni imposte», che consiste in qualcosa di più della loro mera violazione, e che la sentenza non ha chiarito quale fosse lo specifico contenuto delle prescrizioni imposte.
Inoltre, ha rilevato che l’imputato in realtà non instaurò un dialogo con altre persone, sicché il suo comportamento potrebbe avere una rilevanza disciplinare ma non risulta essere stato tale da ledere l’interesse tutelato dall’art. 41-bis Ord. pen.
Tale interpretazione aderisce al significato letterale e alla ratio della disposizione contenuta nell’art. 391-bis cod. pen.
La Costituzione e, per via diversa, il diritto dell’Unione europea indirizzano verso la ricerca di una coerenza dell’interpretazione giuridica anzitutto rispetto ai principi costituzionali — che costituiscono i principali fattori dell’unità dell’ordinamento — sicché acquistano nuova forza gli argomenti esegetici fondati sulle rationes delle norme.
L’interpretazione alla luce della ratio, si fonda sull’argomento della razionalità, secondo il quale tra più significati possibili, deve preferirsi quello che corrisponde alla ratio sia della specifica norma sia del sistema nel suo complesso (Corte cost. n. 692 del 1988, Sez. Un. civ. n. 6518 del 1987).
Questo canone, in realtà, ha fondamento già nella tradizione giuridica che si compendia nell’art. 12 delle preleggi al codice civile dove si prevede che il «senso» da attribuire alla legge nella sua «applicazione» si trae al contempo dalla sua interpretazione letterale «e dalla intenzione del legislatore»
In questa prospettiva l’interpretazione fondata sulla ratio e l’interpretazione sistematica si interpenetrano, sicché l’interpretazione letterale è necessaria ma non sufficiente per individuare il significato di un testo linguistico e in certi casi la considerazione del contesto nel quale si inserisce una disposizione normativa può anche condurre a una sua interpretazione (almeno apparentemente) antiletterale (Cass. civ., Sez. 5, n. 14376 de1/06/2007, Rv. 599325).
Nel caso in esame il ricorrere di una «elusione» delle prescrizioni avrebbe dovuto comunque comportare, in aggiunta alla loro mera violazione, una “malizia” o una “astuzia” o una “destrezza” che non risultano connotare la condotta dell’imputato.
Né lo scarno contenuto delle frasi pronunciate da F. risulta tale da prefigurare l’agevolazione di attività di tipo criminale all’interno e/o all’esterno del carcere, ma si presenta semplicemente come la esuberante manifestazione di uno stato d’animo positivo connesso alla possibilità di una (legittima) comunicazione con l’esterno.
Su queste basi deve concludersi che il reato attribuito al ricorrente nella fattispecie non sussiste, sicché la sentenza impugnata va annullata senza rinvio come in dispositivo.
