Ingiusta detenzione: il bizantinismo nostrano per eludere una decisione della Corte EDU (di Riccardo Radi)

Merita di essere segnalata una vistosa lacuna del nostro ordinamento in merito all’assenza, per quanto attiene alla materia della riparazione dell’ingiusta detenzione, di strumenti volti a risolvere l’efficacia di giudicato delle pronunce emesse nei confronti di chi abbia successivamente adito, con esito favorevole, la Corte europea ed abbia perciò pieno diritto ad un nuovo esame della propria domanda; e, dall’altro, dell’ineludibilità dell’obbligo di dare attuazione alle pronunce del giudice europeo.

La cassazione sezione 4 con la sentenza numero 18288/2023 Rv 284770-01 ha stabilito che, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione di cui all’art. 314 cod. proc. pen., l’accoglimento del ricorso da parte della Corte EDU, per violazione, ex art. 6 della Convenzione, del diritto alla trattazione in pubblica udienza dell’istanza di riparazione, consente all’interessato di riproporre la domanda ai sensi dell’art. 315 cod. proc. pen., non essendo, a tal fine, ostativo il giudicato intervenuto sulla decisione di rigetto dell’originaria istanza, stante la necessità di dare attuazione, in tal modo, alla pronuncia del giudice europeo, pur in assenza di uno specifico strumento. In motivazione, la Corte ha precisato che il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo da parte della Corte EDU è equiparabile all’accoglimento del ricorso, ai sensi dell’art. 37 della CEDU.

Fatto

B.S.A. propone ricorso avverso l’ordinanza resa dalla Corte territoriale che ha dichiarato inammissibile la domanda di riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta in ordine al reato di cui all’art. 270- bis cod. pen., da cui il B.S.A. era stato assolto dalla Corte d’assise, per non aver commesso il fatto.

All’esito di udienza svoltasi in forma pubblica, in accoglimento dell’istanza formulata dall’Avvocatura dello Stato, la Corte territoriale si è posta la questione relativa all’eventuale configurabilità di un giudicato ostativo alla cognizione del merito della domanda.

Ciò perché dagli stessi atti depositati dal ricorrente risultava che questi, in data 15/02/2011, aveva depositato una richiesta di riparazione identica, per personae, petitum e causa petendi, a quella di cui all’odierno procedimento.

La Corte di appello aveva adottato il rito camerale, ai sensi dell’art. 646 cod. proc. pen., e aveva rigettato la domanda di indennizzo, con pronuncia definitiva, poiché il ricorso per cassazione, proposto dall’istante, era stato dichiarato inammissibile.

Con l’ordinanza impugnata, il giudice della riparazione ha ritenuto che il passaggio in giudicato della decisione reiettiva della domanda di riparazione, pronunciata dalla Corte territoriale, precluda un’ulteriore disamina del merito della pretesa del ricorrente, nonostante l’intervenuta pronuncia della Corte EDU, emessa ex art. 37 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, all’esito del riconoscimento, da parte dello Stato, della violazione correlata all’avvenuto svolgimento del giudizio con il rito camerale e non in udienza pubblica.

Il ricorrente osserva che, nelle more del giudizio di legittimità, essendo nel frattempo intervenuta la sentenza della Corte EDU nel caso Lorenzetti c. Italia, che aveva ritenuto violata la Convenzione poiché il procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione non prevede la pubblica udienza, le Sezioni Unite, con ordinanza del 25/10/2012, avevano rimesso la questione alla Corte Costituzionale.

La Corte costituzionale la dichiarava però inammissibile per carenza di interesse nel caso concreto, non essendo stata chiesta dalla parte privata la trattazione del procedimento in udienza pubblica, e la Corte di cassazione dichiarava inammissibile il ricorso.

La difesa presentava allora ricorso alla CEDU, che, con sentenza del 15/04/2021, dando atto dell’avvenuto riconoscimento della violazione dell’art. 6 CEDU da parte dell’Italia, cancellava la causa dal ruolo, disponendo il pagamento di una somma in favore dell’istante.

Quest’ultimo pertanto riproponeva la domanda di riparazione di cui all’attuale procedimento. Celebrata l’udienza in forma pubblica, la Corte territoriale dichiarava l’inammissibilità dell’istanza, per l’esistenza del precedente giudicato.

Ciò premesso, il ricorrente osserva che, in considerazione del fatto che l’istanza è stata riproposta proprio in ragione del riconoscimento della violazione da parte dello Stato italiano, sia del tutto illogico assumere che la domanda sia inammissibile.

È altresì contraddittorio contestare al ricorrente, da un lato, di non avere attivato mezzi di impugnazione straordinari per rimuovere il giudicato formatosi sulla prima istanza e, dall’altro, affermare che la revisione europea non possa operare per un giudizio di natura sostanzialmente civilistica, come è quello relativo all’equa riparazione, così trascurando la vera natura di tale giudizio, intimamente connessa al bene supremo della libertà personale, anche in considerazione della matrice costituzionale del diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione, affermata sia dalla Corte costituzionale che dalle Sezioni unite.

È un fuor d’opera ritenere, come ha fatto la Corte di appello, che l’istanza sia inammissibile in quanto non sarebbe stato rimosso il giudicato, quando è poi la stessa Corte distrettuale a celebrare la pubblica udienza, assecondando il dictum della Corte EDU, per sanare l’originaria violazione. Parimenti illogica è l’affermazione secondo cui il ricorrente deve dimostrare in che cosa egli sia stato pregiudicato dall’omessa trattazione in pubblica udienza.

Poiché però non può essere esperito il rimedio della revisione europea, inapplicabile al giudizio di riparazione per l’ingiusta detenzione, lo strumento utilizzabile è la pura e semplice riproposizione, a seguito del giudicato sovranazionale favorevole, della domanda di equa riparazione.

Decisione

La cassazione premette che è vero che manca, nella legislazione nazionale, una revocazione europea in materia civile, come correttamente evidenziato dalla Corte d’appello.

E, in linea più generale, occorre osservare come manchi una ipotesi di revisione europea che possa trovare applicazione in materia di ingiusta detenzione, come esattamente osservato dal giudice a quo.

E in questa sede può aggiungersi che il problema non è risolto neanche dall’introduzione dell’anzidetta norma di cui all’art. 628 bis cod. proc. pen., la quale testualmente richiede la qualità di condannato o di persona sottoposta a misura di sicurezza: dunque non vi è nessun riferimento a colui che formuli istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione.

Ancor più esulante dalla prospettiva in esame è lo strumento del ricorso straordinario per cassazione, ex art. 625 bis cod. proc. pen., previsto esclusivamente laddove la Corte di cassazione sia incorsa in un errore materiale o di fatto, da intendersi esclusivamente quale errore percettivo che sia stato causato da una svista o da un equivoco e che abbia esplicato influenza sul processo formativo della volontà, sì da condurre a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata in mancanza del predetto errore (Sez. U, n. 16103 del 27-3-2002, Rv. 221280; Sez. U, n. 37505 del 14-7-2011, Rv. 250527): quindi un’ipotesi completamente diversa da quella ravvisabile nel caso in esame.

Così come del tutto eccentrico rispetto alla problematica in disamina è lo strumento dell’incidente di esecuzione, che non costituisce, in via generale, una impugnazione straordinaria, preordinata alla risoluzione dell’efficacia del giudicato e che si inserisce in una prospettiva completamente diversa da quella dell’adeguamento alle pronunce della CEDU.

Tant’è che la Corte costituzionale, proprio ritenendo inadeguati questi strumenti, pervenne, con sentenza n. 113 del 7 aprile 2011, alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Proprio la mancanza nell’ordinamento di strumenti di adeguamento al giudicato CEDU avrebbe dovuto indurre il giudice a qua ad una soluzione completamente diversa da quella adottata.

Non è infatti giuridicamente possibile ritenere che una pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come, del resto, qualunque pronuncia giurisdizionale, sia inutiliter data.

Ancor meno è corretto ritenere che l’adeguamento alla pronuncia della CEDU possa limitarsi alla celebrazione del processo con le modalità dell’udienza pubblica anziché con il rito camerale.

A nulla vale infatti trattare un processo con il rito additato come convenzionalmente legittimo se la decisione adottata all’esito del giudizio svoltosi con il rito convenzionalmente illegittimo viene ritenuta intangibile.

Ciò equivale a elidere l’efficacia della pronuncia del giudice sovranazionale, svuotandola di qualunque rilevanza ed effettività.

Se, infatti, l’ordinamento non prevede, in materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, strumenti per rimuovere l’efficacia del giudicato e se quest’ultima preclude un nuovo esame della domanda di indennizzo, è del tutto evidente che la pronuncia della CEDU è inutiliter data.

Così opinando, si incorre però in una grave trasgressione degli obblighi assunti, in sede internazionale, dallo Stato italiano e sanciti dal citato art. 46 della Convenzione, il quale, come poc’anzi rilevato, sancisce l’obbligo degli Stati contraenti di uniformarsi alle sentenze definitive della Corte europea relativamente alle controversie in cui sono parti.

E dunque proprio la mancanza nell’ordinamento di strumenti di adeguamento al giudicato CEDU avrebbe dovuto indurre il giudice a quo a ritenere ineludibile la conclusione secondo la quale il privato, laddove la sentenza della CEDU non possa che comportare la caducazione della pronuncia del giudice italiano sfavorevole al ricorrente, emessa a conclusione di un rito convenzionalmente illegittimo, può riproporre la domanda di riparazione dell’ingiusta detenzione.

E la Corte d’appello sarà tenuta ad esaminarla senza che nessuna preclusione derivi dalla precedente pronuncia, da ritenersi ormai posta nel nulla, a seguito del giudicato CEDU.

Ciò naturalmente non equivale ad affermare un potere del giudice nazionale di disapplicare le pronunce ritenute in contrasto con le sentenze della Corte europea né ad affermare che il giudicato nazionale venga meno, in via automatica, a seguito dell’emanazione di una pronuncia di segno sfavorevole della CEDU.

Si tratta soltanto di prendere atto, da un lato, di una lacuna dell’ordinamento, correlata all’assenza, per quanto attiene alla materia della riparazione dell’ingiusta detenzione, di strumenti volti a risolvere l’efficacia di giudicato delle pronunce emesse nei confronti di chi abbia successivamente adito, con esito favorevole, la Corte europea ed abbia perciò pieno diritto ad un nuovo esame della propria domanda; e, dall’altro, dell’ineludibilità dell’obbligo di dare attuazione alle pronunce del giudice europeo.

Il bizantinismo è stato, per ora, messo all’angolo ma quanta fatica è costata al Signor B.S.A. provare ad esercitare il suo diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione subita.