Il 25 luglio 2023 la rivista Questione Giustizia, all’interno della sezione “Controvento”, ha pubblicato un articolo del direttore Nello Rossi, dal titolo Il caso Delmastro e il ruolo del pubblico ministero: le lezioni “americane” del governo (lo si può leggere a questo link).
È una riflessione colta e ben scritta, come d’abitudine per l’Autore.
La sua opinione è chiarissima: le critiche di fonte governativa all’imputazione coatta ordinata dal giudice a fronte della richiesta di archiviazione proposta dal PM nel procedimento in cui è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio il sottosegretario Andrea Delmastro delle Vedove sono non solo sgrammaticate giuridicamente ma anche i germi di un programma volto a sottrarre il PM al controllo giudiziale.
Riporto integralmente la parte conclusiva del lavoro di Rossi:
” Di fronte ad una tale prospettiva anche i più appassionati sostenitori dell’indipendenza del pubblico ministero – tra cui certamente si annovera chi scrive – sarebbero costretti ad invocare forme di controllo e di responsabilità in grado di scongiurare l’autoreferenzialità e l’irresponsabilità di un tale ufficio.
Se, dunque, come sembra probabile, le dichiarazioni del Ministro e della Presidente del Consiglio sono voci dal sen fuggite che esprimono desideri e progetti per il futuro della giurisdizione penale, cittadini ed operatori della giustizia dovranno essere particolarmente attenti nel prevedere e valutare i punti di approdo finali degli intendimenti riformatori del governo e della sua maggioranza.
La posta in gioco è troppo alta per rimanere irretiti nel gioco delle ambiguità e degli inganni che da troppo tempo caratterizzano il confronto e le iniziative legislative sul versante della giustizia penale.
Da un lato i magistrati del pubblico ministero dovrebbero essere i primi a rifiutare il dono avvelenato della sottrazione della loro “inazione” al controllo del giudice, che rappresenterebbe solo il preludio dell’assoggettamento a controlli di natura politica.
Dall’altro lato gli avvocati, da anni impegnati nella campagna per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, dovrebbero interrogarsi seriamente sui pericoli di stravolgimento delle loro proposte che mirano a differenziare le carriere in un quadro di salvaguardia del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di indipendenza del pubblico ministero dal potere politico.
Dal canto loro i cittadini dovranno valutare se è davvero desiderabile un pubblico ministero come quello evocato nella polemica sul caso Delmastro: monopolista incontrollato dell’azione penale, sottratto al controllo del giudice nel caso di inerzia e quindi dotato del potere di cestinare liberamente le notizie di reato.
Un organo pubblico così potente da non poter essere incarnato da funzionari non chiamati a rispendere dello loro scelte discrezionali e inevitabilmente destinati perciò ad essere inseriti in un circuito di responsabilità politica attraverso la dipendenza dal Ministro della giustizia o l’elezione dei vertici degli uffici di Procura“.
Dico subito di essere totalmente d’accordo con l’Autore e non ritengo di aggiungere altro a ciò che egli ha detto così bene.
La sua riflessione sarebbe stata tuttavia assai più apprezzabile, a mio modo di vedere, se avesse preso in considerazione un altro caso di monopolio incontrollato, cioè quello dell’azione disciplinare nei confronti dei componenti dell’ordine giudiziario.
È un monopolio su base legale – sia chiaro – e già solo per questo si differenzia da quello attinente all’azione penale che, almeno allo stato, è solo vagheggiato da esponenti dell’Esecutivo.
Nondimeno, la riflessione di Rossi è lato sensu politica e non è allora inappropriato provare ad estenderla a temi analoghi.
Come è noto, l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti di appartenenti alla magistratura spetta disgiuntamente a due autorità pubbliche: il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione e il ministro della Giustizia.
Il potere istruttorio spetta invece in via esclusiva al primo il quale ha peraltro la facoltà di disporre l’archiviazione del procedimento con l’unico obbligo di trasmettere al Guardasigilli il relativo decreto e con la possibilità per quest’ultimo, rarissimamente utilizzata, di formulare un capo di incolpazione e chiedere la fissazione di un’udienza dinanzi la Sezione disciplinare del CSM.
Il PG, in base alla normativa vigente, può disporre l’archiviazione tutte le volte che il fatto abbia scarsa rilevanza o sia stato segnalato in una denuncia non circostanziata o sia privo di rilievo disciplinare.
È quindi interprete e arbitro assoluto di ognuno di parametri, che certo non brillano per capacità descrittiva, e può ritenerli esistenti anche senza disporre alcun accertamento.
Si attribuisce in tal modo ad un organo di parte, non partecipe della giurisdizione propriamente intesa, il duplice potere di qualificare fatti e situazioni, di trarne un esito che impedisce la verifica nella sede giurisdizionale propria e, per di più, precludendo a chiunque di conoscere il contenuto del decreto di archiviazione ad eccezione del ministro della Giustizia per le sue competenze istituzionali.
Certo, come si diceva quest’ultimo ha il diritto di essere informato di ogni archiviazione e, volendo, può chiedere e ottenere la trasmissione degli atti e formulare egli stesso un’incolpazione ai fini della fissazione dell’udienza o anche esercitare autonomamente l’azione disciplinare. Ma si tratta di contrappesi non particolarmente significativi non solo in via di fatto ma anche alla luce del monopolio detenuto dal PG riguardo agli accertamenti istruttori.
Davvero singolare è poi l’inconoscibilità per il pubblico del decreto di archiviazione.
Nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, il PG pro-tempore ha difeso questa regolamentazione con queste argomentazioni: “l’archiviazione, come nel rito penale, implica il non esercizio dell’azione ma, diversamente da quella penale, non richiede l’intervento del giudice, in considerazione degli interessi in gioco, che hanno suggerito l’unico correttivo di un’eventuale differente determinazione del Ministro della Giustizia, cui va comunicato il decreto di archiviazione, che certo non dà luogo ad un controllo in senso tecnico. Nondimeno, si tratta di modalità che garantisce la conoscenza dell’azione dell’Ufficio della Procura generale da parte di una diversa Istituzione. Risulta dunque in tal modo realizzato un ragionevole bilanciamento di tutti i valori in gioco, anche tenendo conto dell’incidenza, sia pure indiretta, della competenza disciplinare sulla funzione giurisdizionale, di rilevanza costituzionale“.
E quindi, in sintesi: un potere monopolistico, incontrollato e incontrollabile, da esercitare o non esercitare nei confronti degli appartenenti allo stesso ordine del PG.
In cosa si siano tradotte queste caratteristiche lo abbiamo evidenziato più volte nei nostri post.
Mi limito quindi a ricordare due casi tra gli altri:
“Nel comportamento del magistrato (con funzioni di P.M.) che telefona ad una collega P.M. in servizio presso una diversa Procura, chiedendole di parlare e che, poi, si reca nell’ufficio della stessa esponendole i fatti oggetto di una denuncia sporta dalla compagna relativa a vicenda in cui era coinvolto il padre della stessa (dichiarato fallito dal Tribunale di riferimento di detta Procura), non si ravvisano gli elementi di illeciti disciplinari, tenuto conto dell’esposizione del convincimento «in termini del tutto “asettici”», tali da renderla indistinguibile da una richiesta di analogo contenuto che, di regola, può essere sottoposta un qualsiasi interessato al magistrato” (RG 1086/2016).
“Qualora un magistrato, nel corso di una telefonata (intercettata) con un indagato (non dall’Ufficio requirente della sede in cui egli prestava servizio, peraltro quale magistrato giudicante) pronunci invettive scomposte nei confronti degli inquirenti e della polizia giudiziaria (genericamente indicati), tale condotta è deontologicamente censurabile, ma non integra l’illecito dell’art. 2, comma 1, lettera d), d.lgs. n. 109 del 2006. La manifestazione del pensiero di un magistrato, anche quando abbia ad oggetto opinioni relative al comportamento dei soggetti operante in un dato ufficio e non si espliciti attraverso riferimenti individualizzanti (così da integrare il reato dell’art. 595 c.p., se ne sussistano gli ulteriori elementi costitutivi), non integra detto illecito disciplinare” (RG 191/2017).
Mi chiedo in conclusione: ci sono monopoli buoni e monopoli cattivi?
E mi chiedo ancora: com’è che nessun PG ha mai rifiutato il dono avvelenato del monopolio “incontrollato” dell’azione disciplinare, magari rilasciando un’intervista per spiegare il rifiuto ?
Come ha scritto George Orwell “Per vedere cosà c’è sotto il proprio naso occorre un grande sforzo“.
