La tragica morte di Federico Aldrovandi: una storia da non dimenticare (Vincenzo Giglio)

Premessa

Ci sono alcune storie che devono essere costantemente ricordate perché è essenziale nell’interesse pubblico mantenerne viva la memoria.

La storia di oggi è quella di Federico Aldrovandi, morto il 25 settembre 2005 a soli 18 anni a causa di un violentissimo pestaggio inflittogli da dipendenti della Polizia di Stato.

È una storia passata al vaglio della giustizia penale e le statuizioni del giudice di primo grado sono state confermate senza variazioni nei gradi successivi, fatta eccezione per distinguo non essenziali.

C’è dunque una narrazione giudiziaria non più discutibile.

Accanto ad essa, tuttavia, ve ne è stata un’altra, radicalmente contrapposta alla prima, asseverata da alcuni uomini e donne della Polizia di Stato, con l’ulteriore caratteristica che costoro hanno agito in gruppo e in modo coeso e condiviso.

Pongo adesso a confronto le due storie raccontate.

Mi servo a questo fine della parte conclusiva della motivazione della sentenza di primo grado il cui testo integrale è facilmente reperibile in numerosi siti web.

La sentenza

…Cause della morte e nesso causale tra la condotta degli imputati e l’evento

Possiamo in conclusione affermare la responsabilità degli imputati per avere cagionato per colpa la morte del giovane Federico Aldrovandi (…).

Le approfondite verifiche tecniche hanno consentito di appurare che la morte del ragazzo fu conseguenza della violenta colluttazione con i quattro agenti, armati di manganelli, decisi a immobilizzarlo e ad arrestarlo ad ogni costo, per fargli scontare le conseguenze di una precedente fase di conflitto, con reciproci atti di violenza, nel corso della quale venne danneggiata l’autovettura di servizio dalla pattuglia alfa2 (…).

Il nesso causale tra l’azione degli agenti (percosse, colluttazione, immobilizzazione al suolo con il peso del corpo di almeno uno degli agenti, violenta compressione della cassa toracica, per annullare ogni possibilità di movimento) e la morte è dimostrato dalle consulenze offerte dalla difesa di parte civile e dall’eminente cardiopatologo prof. T. (…).

Non vi è dubbio che l’evento debba essere oggettivamente imputato ad una condotta colposa per violazione di fondamentali regole cautelari che presiedono all’uso della forza da parte degli organi di polizia. L’intervento armato della polizia, in assenza di pericolo per beni fondamentali, in assenza di gravi comportamenti criminosi, in assenza di pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico non può in nessun caso mettere a rischio la vita e l’incolumità del cittadino, tanto più quando si tratta di persona che manifesta con tutta evidenza di trovarsi in uno stato di parziale alterazione di mente, richiedente l’immediato intervento dei sanitari e non un’immobilizzazione effettuata senza precauzioni e senza assoluta necessità, ben potendosi gli agenti limitare a controllare il soggetto, a ricercarne la collaborazione, ad attendere la riduzione dell’agitazione e, se necessario, a porre in essere una situazione nella quale l’immobilizzazione potesse avvenire in pochi secondi, senza violenza fisica e con l’assistenza di personale sanitario competente e attrezzato (…).

Sicché in sintesi può dirsi che:

a) Federico Aldrovandi non era in stato di excited delirium syndrome, essendo ciò smentito non solo dalla ricostruzione in fatto degli eventi intercorsi tra le 5,30 e le 6,10. Dal complesso degli elementi disponibili per il giudizio si desume che la condizione di eccitazione delirante non risulta da alcuna prova oggettiva, è contraddetta dalle testimonianze dei testi che l’avrebbero dovuta supportare, è fondata sulle sole dichiarazioni degli imputati, la cui falsità è stata ampiamente dimostrata, è esclusa dall’assenza dei riscontri che l’avrebbero dovuta sostenere (‘bad trip’, qualità e quantità delle sostanze stupefacenti e alcoliche rilevate in sede di analisi clinico – tossicologica);

b) Federico Aldrovandi presentava tutti i segni di un’asfissia da restrizione a carattere meccanico e posizionale e non è dato rilevare nel contesto storico-circostanziale alcun fattore causale alternativo all’asfittico – traumatico;

c) Rispetto ad un soggetto in stato di grave alterazione psicomotoria, insorta da pochi minuti e, oltretutto, con andamento ciclico, essendosi rilevato un periodo di alcuni minuti di riduzione se non di remissione della condizione di agitazione, una colluttazione prolungata e senza le dovute cautele e una restrizione senza il sussidio medico è fattore di incremento dello stato di agitazione, di incremento della produzione di catecolamine e quindi concausa dell’eventuale decesso ascrivibile ad insufficienza cardiorespiratoria;

d) Ne segue che gli imputati dovrebbero ritenersi responsabili della morte di Aldrovandi anche se, in ipotesi, la loro ricostruzione dei fatti fosse risultata accertata;

e) La condizione di asfissia colpevolmente non rilevata, malgrado le comprovate richieste di soccorso della vittima, in ragione dell’errata valutazione delle circostanze che fece ritenere agli agenti come manifestazione di resistenza attiva all’immobilizzazione e all’ammanettamento quella che era soltanto una disperata ricerca di aria in uno stato di ipoventilazione, colposamente ignorato per la foga aggressiva e incontinente con la quale i quattro agenti affrontarono, in evidente superiorità numerica, lo scontro con un individuo disarmato e non pericoloso, contribuì a provocare la rottura dei vasi sanguigni e la formazione di un ematoma che, colpendo il fascio di His, produsse una morte improvvisa ed irreversibile prima che si potesse compiere alcun tentativo di rianimazione.

f) La condotta degli imputati nelle circostanze date fu largamente dissonante dagli standard dell’agente di polizia modello, come ricostruito sulla base di fondamentali testimonianze e dei documenti provenienti dall’interno della Polizia di Stato stessa, dalle vigenti linee guida di intervento per casi analoghi, dalle regole cautelari imposte dalla stessa organizzazione della Polizia, tra le quali primeggia l’obbligo di garantire in ogni caso l’incolumità personale del cittadino, salvo la ricorrenza di uno stato di necessità o di una legittima difesa, o, genericamente, la necessità di tutela di interessi di rango manifestamente più elevato. A questo fine gli agenti devono essere capaci di avvalersi di tecniche di immobilizzazione efficaci e innocue, la mancata applicazione delle quali, così come l’uso offensivo e nei confronti di un singolo individuo dell’arma dello sfollagente, costituiscono errore tecnico e professionale grave. In questo senso l’azione degli imputati, lungi dal costituire adempimento di fondamentali doveri d’ufficio, si caratterizza come errore professionale macroscopico, censurabile in primo luogo alla stregua delle stesse regole interne della polizia di Stato; il che esclude, nel caso in esame, la sussistenza di alcun conflitto tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali”.

…Trattamento sanzionatorio e valutazione negativa del comportamento degli imputati

Fin qui le ragioni che hanno indotto il giudice di primo grado ad affermare la responsabilità dei poliziotti tratti a giudizio con l’accusa di avere provocato colposamente la morte di Federico Aldrovandi.

La successiva parte della motivazione destinata a dar conto del trattamento sanzionatorio ci dice come lo stesso giudice abbia considerato in senso più complessivo la condotta degli imputati, non solo al momento dei fatti ma anche nelle fasi successive e nello stesso giudizio:

Sul trattamento sanzionatorio non possono non influire tutti gli elementi rilevati nella condotta degli imputati, già più volte negativamente valutati nel corso delle varie parti della precedente esposizione.

Alla gravità della colpa si associano gli aspetti negativi più propriamente processuali con l’assenza di concreti segni di pentimento e di consapevolezza degli errori commessi, tradottisi in palesi menzogne e in ostacoli frapposti all’accertamento della verità.

Sotto il profilo oggettivo deve considerarsi la gravità obbiettiva dell’episodio per essere la vittima un giovane diciottenne, incensurato che non aveva creato nessuna situazione di obbiettivo allarme sociale, se non, forse, avere affrontato gli agenti nel corso della prima colluttazione in modo non ortodosso e ribelle. La sproporzione tra la presumibile condotta della vittima e quella degli imputati colora in modo negativo il fatto. Ma anche se il ragazzo fosse stato effettivamente molto agitato, la mancanza di senso della funzione sociale della polizia, l’inaffidabilità degli imputati, la loro oggettiva “pericolosità” per la manifesta inadeguatezza nell’autodisciplinarsi nell’esercizio delle delicatissime funzioni e nell’autocontrollo nell’uso dello straordinario potere di esercizio autorizzato della forza, giocano nel senso di attribuire al fatto un’obbiettiva elevata gravità, inevitabilmente confermato non solo dal decesso della vittima ma anche dalle innumerevoli lesioni provocate, nel dolore e nelle sofferenze arrecate alla vittima con la condizione di asfissia nella quale venne posta e l’incapacità di rendersi conto dello stato del soggetto e dell’invocazione di aiuto e soccorso. Quest’insieme di circostanza connotano come assai grave il fatto dal punto di vista oggettivo. Aggiungasi l’impiego assolutamente fuori di luogo e sproporzionato di strumenti assai lesivi e dolorosi come gli sfollagente, ogni colpo dei quali è idoneo a produrre ematomi e ferite, usati con cinica indifferenza e colpevole imprudenza, sul presupposto del tutto erroneo che avendo la vittima manifestato energica attività di resistenza, fosse legittima una ritorsione violenta, incongrua, non necessaria per gli scopi prefissi.

Più in generale dal punto di vista soggettivo la personalità degli imputati appare negativamente connotata dalle specifiche modalità soggettive della condotta, caratterizzata da profili di violenza gratuita e dalla noncuranza per gli effetti di essa, da una violazione clamorosa di una molteplicità di norme cautelari.

A tali elementi oggettivi si associano non solo le bugie e le falsità ma anche la spregiudicata strumentalizzazione dell’ambigua posizione iniziale di unici testimoni dei fatti, accreditati pregiudizialmente di attendibilità, che permise agli imputati di fornire una versione a loro favorevole e quindi di concordare una versione difensiva postuma di comodo, approfittando della conoscenza degli atti processuali e degli esiti di un’indagine effettuata nell’immediatezza, non orientata specificamente alla ricerca di elementi di responsabilità.

Ambiguità, reticenze e menzogne che non depongono in favore degli imputati che hanno concordemente agito nel senso di coprire le proprie responsabilità anche a costo di descrivere uno stato della vittima a tinte fosche ed eccessive, dimostratesi poi false”.

Commento conclusivo

Tutto ciò che conta è adesso esposto e si offre alla valutazione di ognuno.

Da un lato la versione dei poliziotti chiamati a rispondere della morte di Federico Aldrovandi: si trovarono a fronteggiare un individuo pericoloso e temibile, ne furono aggrediti, furono costretti all’uso della forza, in quell’esatto grado con cui la usarono, non fecero che obbedire alle regole dettate dai manuali operativi, non ebbero altro scopo che proteggere la comunità dai rischi cui poteva esporla un energumeno tossico e infuriato.

Dall’altro la verità dichiarata dai giudici: gli accusati agirono non come tutori dell’ordine ma come persone infuriate per l’asserita ma indimostrata reattività di Aldrovandi, si vendicarono al pari di bulli di strada, lo pestarono brutalmente al punto di rompergli addosso due manganelli, lo ridussero a una totale immobilità, gli inflissero lesioni innumerevoli, gli provocarono un’asfissia, rimasero indifferenti alla sua agonia, ostacolarono e depistarono le indagini, mentirono ripetutamente, non mostrarono mai, in nessuna occasione, alcun segno di pentimento e autocritica, nessuno di loro ebbe dubbi e ripensamenti mentre si consumavano i fatti, nessuno di loro tentò di fermare gli altri o di richiamarli alla ragione.

Aldrovandi non aveva colpa se non quella di avere assunto sostanze stupefacenti e di trovarsi ancora esposto ai loro effetti.

Era quindi, a tutti gli effetti, un innocente.

Alcuni rappresentanti dello Stato, per ragioni che, quand’anche comprese non aggiungono nulla alla storia, ignorarono quella condizione di innocenza e le sostituirono artificialmente la colpa.

Diedero poi seguito all’artificio iniziale e trattarono la vittima come ritenevano che andasse trattato un colpevole, punendolo, infierendo prima sul suo corpo e poi, a morte avvenuta, sulla sua anima, continuando a negargli l’innocenza che non avevano saputo scorgere, attribuendogli caratteristiche che ne alteravano la reale identità.

La colpa degli uni venne trasferita all’altro, secondo un meccanismo psicologico tutt’altro che nuovo nella storia umana: siamo violenti ma siete voi che ci costringete ad esserlo.

Basterebbe e avanzerebbe ma la vicenda non finisce qui.

Al processo per la morte di Aldrovandi se ne è affiancato un altro che ha esplorato il comportamento di altri poliziotti le cui funzioni operative all’epoca dei fatti si incrociarono con quelle dei colleghi condannati per l’omicidio colposo.

Anzitutto MP, ispettore della Polizia di Stato in servizio a Ferrara, accusato e condannato in via definitiva per non avere inserito nel fascicolo del PM il registro delle telefonate arrivate al 113 in occasione del controllo, del pestaggio e della morte di Aldrovandi.

Poi MB, addetto alla centrale operativa e accusato di avere interrotto a richiesta di un collega la registrazione in cui questi, la mattina del 25 settembre 2005, gli spiegava cosa era successo in occasione del contatto con la vittima.

Condannato nella fase di merito, MB ha poi ottenuto l’annullamento senza rinvio della sentenza essendo maturato nelle more il termine prescrizionale.

MP e MB non avevano partecipato ai fatti principali, non si erano macchiati le mani del sangue del ragazzo ma, secondo quando ritenuto nel giudizio di merito, non fecero quel che potevano e dovevano fare per evitare quell’artificio di cui ho detto.

Si schierarono ma non dalla parte dell’innocente.

Lo stesso, più di recente, è avvenuto in una sede ben diversa.

L’occasione è il congresso del SAP (Sindacato autonomo di Polizia) del 2014.

I quattro poliziotti sono stati invitati (una di essi non compare tuttavia) e la loro presenza provoca un’ovazione da parte degli astanti che si alzano in piedi e tributano cinque minuti di applausi ai loro colleghi.

Lo stesso era successo al congresso del 2013.

Merita poi una speciale segnalazione la campagna “#Vialamenzogna” che il segretario nazionale del SAP lancia proprio a Ferrara sul presupposto che vi era stato “accanimento contro gli operatori delle forze di polizia” e che aveva operato “una pelosa macchina del fango che mistifica la realtà dei fatti trasformando, spesso, i violenti in eroi e i poliziotti in delinquenti”.

Dal canto suo, il Capo della Polizia di Stato, in sede disciplinare, ha ritenuto sufficiente irrogare alle quattro vittime di questa “macchina del fango” la sanzione della sospensione dal servizio per sei mesi cui è seguita la riammissione in servizio con l’unico accorgimento di assegnarli a funzioni che non comportano alcun rapporto col pubblico.

Chiudo questo paragrafo con un’ultima osservazione.

Nella titolazione mediatica standard di alcuni gesti violenti purtroppo ricorrenti non si lesinano parole come branco o banda o sistema criminale.

Così avviene per gli stupri collettivi o per le gesta di gruppi di ladri o rapinatori (più facilmente se si tratta di immigrati) o per le attività riconducibili ad organizzazioni mafiose o per contesti ambientali in cui sono diffuse pratiche corruttive.

In questo caso no.

Nessun accostamento tra il comportamento dei poliziotti e quello di un branco di feroci predatori.

Pochi intravedono un sistema di solidarietà castale negli applausi sgangherati del sindacato e nell’indulgenza dell’organo disciplinare.

Pochi si chiedono perché non abbia funzionato non solo l’operato della squadra volante ma anche il controllo che altre unità avrebbero dovuto esercitare su quell’operato.

Mi vedo costretto a concludere che in questo caso l’inesistente colpa privata è stata seguita dalla sanzione massima, la perdita della vita, mentre la reale colpa pubblica non ha intaccato il futuro e lo status di coloro che se ne sono macchiati.

Una pagina bruttissima della storia del nostro Paese ed ecco perché deve essere ricordata, perché non accada mai più che un ragazzo con la vita davanti muoia per le botte di chi dovrebbe proteggere i cittadini.