Vicenda giudiziaria
Con ordinanza del 21.12.2022 il tribunale, quale giudice del riesame delle misure cautelari reali, ha respinto il ricorso proposto nell’interesse di una società contro il decreto del GIP con cui era stato disposto il sequestro, a fini di confisca, del denaro rinvenuto nella disponibilità della società ricorrente (una società di avvocati) sino alla concorrenza della somma di euro 854.000 ovvero, in alternativa, sui beni mobili, immobili o crediti rinvenuti comunque nella sua disponibilità in relazione all’illecito amministrativo di cui al capo N) della incolpazione provvisoria.
La società ha fatto ricorso per cassazione.
Decisione della Corte di cassazione
Il ricorso è stato trattato dalla seconda sezione penale che lo ha definito con la sentenza n. 30272/2023, camera di consiglio del 20 giugno 2023.
L’esito è stato di infondatezza, sulla base del percorso argomentativo qui di seguito esposto.
Il tribunale ha in primo luogo ripercorso l’origine della indagine con la conclusiva ricostruzione della vicenda in termini di plurime, reiterate e seriali condotte truffaldine che sarebbero state consumate in danno degli assicurati, indotti a credere di aver diritto a risarcimenti ben inferiori al dovuto e loro legittimamente spettanti ed a sottoscrivere patti di quota-lite in favore delle società riconducibili al sodalizio criminoso.
Sulla scorta della ricostruzione dei fatti restituita dagli elementi investigativi acquisiti, il tribunale ha ravvisato il fumus dei reati di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di una serie di truffe (capi A-H della provvisoria incolpazione) oltre che all’autoriciclaggio (capo L della provvisoria incolpazione), considerando integrato un livello adeguato di gravità indiziaria in merito alla esistenza di una struttura organizzata, capeggiata e diretta da XXX come capo promotore che, con la collaborazione ed la partecipazione di altri soggetti, ed avvalendosi di società che si occupavano della gestione di sinistri stradali, ha posto in essere un meccanismo truffaldino consistente nel far sottoscrivere alle vittime di sinistri patti di quote lite eccessivamente onerosi, tacendo sulla determinazione dell’importo che il sinistrato avrebbe potuto percepire, e sull’importo da retrocedere alle società a titolo di compenso, o sulla provvigione che le società assicuratrici avrebbero liquidato alle società di così incassando gran parte degli indennizzi dovuti alle vittime.
Il tribunale ha ritenuto correttamente argomentato, nel provvedimento genetico, anche il periculum in mora, avuto riguardo al fatto che la libera disponibilità delle somme provento di reato, poteva condurre all’aggravamento delle conseguenze della stessa consentendo il definitivo incameramento del provento delittuoso da parte degli indagati.
Il GIP aveva ritenuto il fumus dell’illecito di cui al capo N) avendo la società operato per gli scopi del sodalizio (e, in particolare, in relazione al delitto di cui al capo N) in quanto, priva di un modello organizzativo idoneo, aveva gestito i sinistri ed incamerando gran parte degli indennizzi riconosciuti dalle assicurazioni.
…Ne bis in idem cautelare
Ciò premesso, in forza del divieto di “bis in idem”, operante anche in fase cautelare, il potere del PM di richiedere l’applicazione di una misura per gli stessi fatti deve ritenersi esaurito con la prima richiesta, sicché esso non può essere esercitato nuovamente, in pendenza del relativo procedimento cautelare, salvo che si fondi su elementi nuovi, riguardanti i gravi indizi di colpevolezza o le esigenze cautelari (cfr., Sez. 6 – , n. 6555 del 18/01/2023, Rv. 284267 – 01; conf., Sez. 3 – , n. 37945 del 09/06/2021, Rv. 282024 – 01, in cui la Corte ha affermato che il principio del “ne bis in idem” preclude l’emissione di un nuovo sequestro preventivo dei medesimi beni, ove lo stesso sia fondato su intercettazioni di conversazioni che, seppur non precedentemente trascritte, erano già disponibili all’atto dell’adozione del primo sequestro).
Ciò non di meno, la trasposizione, in ambito cautelare, degli effetti propri del giudicato formatosi sulle decisioni definitive, non può essere effettuata in termini assoluti, essa incontra dei limiti dovuti alle funzioni ed alle peculiarità delle misure cautelari. In particolare, l’efficacia delle misure cautelari è intimamente connessa alla sussistenza ed alla permanenza delle condizioni di applicabilità, mentre il concetto di giudicato attiene a situazioni che hanno assunto il crisma della immutabilità e definitività. Con riguardo agli effetti delle pronunce in materia cautelare, quindi, più che di “giudicato” si dovrebbe parlare di una preclusione endoprocessuale, che impedisce la reiterazione di provvedimenti aventi lo stesso oggetto, ed è sotto questo angolo visuale che il fenomeno assume una portata più ristretta, in quanto involge solo le questioni, esplicitamente o implicitamente, trattate e non anche quelle deducibili (e non dedotte). Soprattutto, va ribadito che la preclusione opera allo stato degli atti, nel senso che dipende dal permanere della situazione di fatto presente al momento della decisione poiché la preclusione endoprocessuale è finalizzata ad evitare ulteriori interventi giudiziari, in assenza di una modifica della situazione di riferimento, rendendo inammissibili istanze fondate su motivi che hanno già formato oggetto di apposita valutazione (cfr., Sez. 2, n. 51199 del 01/10/2019, Rv. 278228; Sez. 2, n. 49188 del 09/09/2015, Rv. 265555; Sez. 5, n. 1241 del 02/10/2014, Rv. 261724).
Nel caso in esame la difesa ritiene che le ragioni dedotte nella richiesta di sequestro preventivo avanzata dal PM ed accolta dal GIP con il provvedimento del 18.11.2022, fossero state già compiutamente vagliate nel primo provvedimento reiettivo del sequestro reso in data 15.6.2022: tale rilievo è, tuttavia, infondato.
Come osservato dal tribunale, in quel provvedimento, il GIP aveva espresso dubbi in ordine alla destinazione del surplus risarcitorio alle vittime dei sinistri sicché, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la consulenza medico legale disposta dal PM, che ha certificato l’effettività e l’entità delle lesioni patite dalle vittime e la congruità dei compensi a loro dovuti, ha significativamente innovato il quadro indiziario posto a sostegno del fumus commissi delicti arrecando un quid novi che ha giustificato non solo l’adozione del provvedimento ablativo, ma anche l’emissione del provvedimento del riesame che lo ha confermato non ravvisando violazione del giudicato cautelare.
…Elementi nuovi capaci di superare l’effetto preclusivo del giudicato cautelare
Deve ribadirsi, infatti, che in tema di impugnazioni cautelari, può costituire “elemento nuovo”, idoneo a superare l’effetto preclusivo derivante dal cd. giudicato cautelare, formatasi sulle questioni esplicitamente o implicitamente già dedotte, la consulenza tecnica che riesamini dal punto di vista tecnico-scientifico il tema generale di accertamento già valutato da una pregressa ordinanza cautelare di rigetto, non impugnata, al fine di superare i dubbi e le incertezze della precedente analisi (cfr., Sez. 5, n. 17971 del 07/02/2020, Rv. 279411; Sez. 4, n. 25104 del 03/06/2021, Rv. 281493).
Nel caso in esame, la consulenza tecnica svolta dal PM è stata effettuata proprio per superare il dubbio su cui si era arrestata l’ordinanza di rigetto del GIP datata 15.6.2022 (quella emessa a seguito della prima richiesta cautelare), e cioè per valutare sia che gli infortuni si fossero effettivamente realizzati, sia la sussistenza di una sproporzione sul quantum risarcitorio erogato e, invece, dovuto D’altra parte, il quid novi necessario per avanzare nuovamente la richiesta di emissione della misura cautelare reale, non è tipizzato e nemmeno è imposto che la nuova richiesta sia fondata, in toto, su qualcosa di diverso dalla precedente essendo sufficiente, per evitare la preclusione processuale che il quadro indiziario non sia rimasto immutato. Né, a ben guardare, può rilevare il fatto che la consulenza fosse stata affidata su episodi e fatti oggetto di capi di incolpazione diversi da quello che ha portato alla adozione del provvedimento nei confronti della società odierna ricorrente: è sufficiente rilevare che la società è chiamata a rispondere dell’illecito di cui al capo N) con riguardo al delitto di cui al capo M) ascritto ai soggetti apicali dell’ente, ovvero del delitto di associazione a delinquere finalizzato, per l’appunto, proprio alla commissione di truffe attraverso lo schema operativo descritto in precedenza e reso possibile, quanto all’ente, dalla assenza di idonei modelli organizzativi.
…Profitto dell’ente nel reato associativo
Siffatto rilievo consente, allora, di vagliare il secondo motivo di ricorso che è, del pari, infondato: il tribunale ha ritenuto condivisibile la tesi, già affermata dal GIP e, osserva il collegio, assolutamente conforme alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui i vantaggi patrimoniali del reato associativo sono autonomi da quelli derivanti dai reati-fine la cui esecuzione è avvantaggiata proprio dalla esistenza di una stabile organizzazione con estensione della confiscabilità a tutti i vantaggi derivanti dalla creazione del sodalizio nella cui prospettiva esso è stato creato.
In via generale, infatti, va ribadito che, in tema di responsabilità da reato degli enti, il profitto del reato di associazione per delinquere commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente stesso ai sensi dell’art. 24-ter, comma 2, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, confiscabile anche per equivalente ex art. 19, è costituito dal complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui effettiva realizzazione è agevolata dall’organizzazione criminale (cfr., Sez. 3 – , n. 8785 del 29/11/2019, Rv. 278256 – 02, in cui la Corte ha inteso precisare che, a prescindere dal fatto che i reati-fine producano di per sé vantaggi, ai fini della determinazione del profitto del reato associativo, occorre riferirsi al reato nel suo “complesso”, concentrandosi sull’associazione, la quale manifesta una capacità produttiva di profitto che oltrepassa quella del singolo reato-fine, con accresciuta potenzialità di vantaggio).
È altresì consolidato il principio secondo cui il profitto del reato di associazione a delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. non consiste nel mero fatto di associarsi al fine della commissione di più delitti, di per sé improduttivo di ricchezze illecite, ma è il frutto della sommatoria dei profitti generati dai singoli reati (cfr., Sez. 6 – , n. 29960 del 06/07/2022, Piscitelli, Rv. 283881 – 02; Sez. 2, n. 6507 del 20/01/2015, Rv. 262782 – 01, secondo cui il delitto di associazione per delinquere può essere considerato in sé idoneo a generare profitto illecito – come tale suscettibile di confisca in via del tutto autonoma da quello conseguito dai reati-fine perpetrati in esecuzione del programma criminoso – con riferimento alle utilità percepite dagli associati per il contributo da essi prestato per assicurare il regolare funzionamento del sodalizio ritenendo immune da censure la decisione impugnata che aveva confermato il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme erogate alla società di persona indagata di partecipazione ad un’associazione per delinquere transazionale finalizzata alla consumazione di reati fiscali e di riciclaggio, per importi ulteriori e non coincidenti con quelli riferibili ai reati fiscali posti in essere; conf., ancora, Sez. 3, n. 44912 del 07/04/2016, Rv. 268772 – 01). Ebbene, posto che, nel caso di specie, l’importo attinto dal sequestro ha avuto ad oggetto somme distinte ed autonome rispetto a quelle conseguite dai singoli associati, la questione posta dalla difesa è quella della sua confiscabilità in quanto “profitto” del reato trattandosi, in particolare, degli emolumenti pacificamente spettanti all’ente a titolo di onorari e spese per la “gestione” delle pratiche assicurative, indipendentemente dai patti di quota lite e dalla presunta condotta truffaldina posta in essere in danno degli associati quanto alla entità dei risarcimenti a costoro spettanti. In altri termini, la difesa – evocando la categoria dei “reati – in contratto”, assume che l’importo di cui si discute in questa sede, anche seguendo la impostazione della pubblica accusa in merito alla distrazione di gran parte dei risarcimenti destinati ai singoli assicurati, sarebbe stato comunque dovuto dalle compagnie assicurative e rappresenterebbe, in definitiva, una parte “lecita” del sinallagma contrattuale insuscettibile di essere qualificata in termini di profitto confiscabile.
…I reati in contratto
La categoria dei reati “in contratto” è il frutto di una elaborazione giurisprudenziale maturata proprio in ambito di cautela reale dove, come nel caso di specie, può venire in rilievo la identificazione del “profitto” e, di conseguenza, dell’importo effettivamente suscettibile di essere attinto dalla misura cautelare finalizzata alla confisca: si è segnalato, infatti, che nei contratti ad esecuzione istantanea, il reato di truffa è integrato dagli artifici e raggiri che siano posti in essere al momento della trattativa e della conclusione del negozio giuridico, traendo in inganno il soggetto passivo, indotto a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe prestato, mentre, nel caso di contratto stipulato senza alcun artificio o raggiro, l’attività decettiva commessa successivamente alla stipula e durante l’esecuzione – situazione propria di reato “in contratto” – è penalmente irrilevante, a meno che non determini, da parte della vittima, un’ulteriore attività giuridica che non sarebbe stata compiuta senza quella condotta decettiva (cfr., Sez. 2, n. 29853 del 23/06/2016, Rv. 268073 – 01; conf., tra le non massimate, Sez. 2, n. 26190 del 26.5.2023; Sez. 2, n. 15929 del 25.3.2022).
Tanto premesso, il tribunale ha disatteso l’impostazione della difesa che, a suo avviso, sconta una lettura atomistica e parcellizzata della vicenda che pretende di distinguere tra proventi leciti e l’attività illecita globalmente intesa tenendo presente che i profitti ottenuti, ancorché leciti, risultavano in realtà integralmente direzionati allo scopo di alimentare l’attività illecita, dovendosi in ciò stesso individuare la relazione causale tra le condotte penalmente rilevanti addebitate e la contestata percezione, anche a beneficio della società, delle somme oggetto di sequestro.
In definitiva, in coerenza con la prospettazione accusatoria, e con motivazione che, anche alla luce dei limiti propri della sindacabilità dei provvedimenti cautelari reali, non può certamente ritenersi assente o meramente di stile, il tribunale ha sostenuto che gli introiti acquisiti dalle società, a titolo di compensi, sono confiscabili in quanto gli stessi enti erano stati costituiti – dagli associati a delinquere – come strumentali ad incamerare i profitti della gestione delle pratiche assicurative alla cui gestione si erano avvicendate “… al solo fine di parcellizzare i profitti illeciti conseguiti e, al contempo, dissimulare, tramite una veste formale, la reale natura delle condotte truffaldine”. Il richiamo alla categoria dei reati “in contratto”, alla stregua della impostazione condivisa dal tribunale, è stata ritenuto perciò impraticabile in quanto l’intera attività del sodalizio – con l’ausilio operativo delle società – era stata finalizzata a confezionare degli accordi, con i soggetti destinatari di indennizzi assicurativi, geneticamente illeciti perché sin dall’origine tendenti a nascondere la realtà degli importi effettivamente a costoro dovuti inducendoli a sottoscrivere patti di quota lite e, poi, a retrocedere gran parte di quanto loro accreditato, utilizzando, a tal fine, gli “schermi” societari. In tal modo, non è dato distinguere, nelle singole negoziazioni, e – comunque, in ambito cautelare ed allo stato degli atti – una parte “lecita” rispetto all’ammontare dei profitti “illeciti” essi soli suscettibili di essere attinti dalla misura ablatoria.
Per tali ragioni, come già si è detto, il ricorso è stato rigettato.
Qualche osservazione
Il collegio di legittimità, richiamando adesivamente plurime decisioni precedenti, assume come fatto scontato che “il profitto del reato di associazione a delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. non consiste nel mero fatto di associarsi al fine della commissione di più delitti, di per sé improduttivo di ricchezze illecite, ma è il frutto della sommatoria dei profitti generati dai singoli reati“.
Non si concede tuttavia alcuna riflessione sul vulnus che tale indirizzo crea al principio di tassatività dal momento che equivale a creare un grimaldello capace di condurre nell’ambito applicativo del decreto 231 praticamente ogni fattispecie delittuosa, a prescindere dalla sua appartenenza al genus dei reati – presupposto specificamente indicati dal legislatore.
Né si sofferma sul rischio che la possibilità di servirsi dell’armamentario 231 per il contrasto ai delitti associativi genera in termini di forzature nei manifesti d’accusa, nel senso che gli uffici inquirenti sarebbero stimolati a contestare fattispecie associative laddove i fatti accertati dovrebbero essere più correttamente inquadrati come concorso di persone nel reato.
