Non si gioca a dadi con l’ammissibilità dell’impugnazione (di Vincenzo Giglio)

La vicenda giudiziaria

Con sentenza del …, la Corte di appello dichiarava inammissibile l’appello proposto da RC avverso la sentenza del tribunale che l’aveva riconosciuto colpevole del delitto di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione delle scritture contabili, irrogandogli la pena ritenuta di giustizia ed applicando le pene accessorie fallimentari per la durata di anni dieci.

A proposito delle doglianze contenute nell’atto di appello, la Corte distrettuale osservava che, a seguito dell’intervento del legislatore sull’art. 581 cod. proc. pen., i motivi di gravame dovevano essere mirati ad illustrare le ragioni che si oppongono agli argomenti sviluppati nella sentenza impugnata, considerazioni che, invece, nel gravame proposto, erano del tutto mancate, e ciò con riferimento sia alla esatta qualificazione del fatto e alla sua sussistenza messa in discussione attraverso la verifica della correttezza della sentenza di fallimento e del presupposto dello stato di insolvenza, sia alla configurabilità della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, sia, infine, alla dosimetria della pena; e quanto ai motivi nuovi essi erano a loro volta inammissibili per non essere ancorati a quelli principali e in parte per genericità.

Motivi di ricorso

Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.

Con il primo deduce violazione di legge processuale con riferimento agli artt. 581 e 591 del codice di rito, enunciando le ragioni poste a sostegno della indicata violazione con richiami alle pronunce di legittimità che in relazione ad analoghe sentenze emesse dalla stessa Corte territoriale aveva più volte già censurato l’impostazione seguita da tale corte distrettuale.

La decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è stato definito da Cass. pen., Sez. 5^, sentenza n. 25795/2023, udienza del 17 maggio 2023.

Occorre premettere che l’ammissibilità dell’appello nel caso di specie, trattandosi di sentenza ed impugnazione successiva alla riforma di cui alla L. 103/2017 – il cui art. 1 comma 55 ha inciso anche sull’art. 581 codice di rito – deve essere valutata alla stregua della nuova formulazione dell’art. 581 codice di rito. L’art. 581 cod. proc. pen., nella formulazione determinata dall’art. l, comma 55, della legge 23 giugno 2017 n. 103 (a decorrere dal 3 agosto 2017) prevede, a pena, appunto, di inammissibilità, che, nell’atto di gravame, l’appellante indichi, con enunciazione specifica, i capi ed i punti della decisione che intende impugnare (oltre che i suoi estremi identificativi), le richieste avanzate al giudice dell’appello, ed i motivi in fatto e diritto che sostengono tali richieste.

Rimangono comunque validi i precedenti indirizzi di legittimità in tema di esatta individuazione dei presupposti dell’ammissibilità dell’appello (essendosi la nuova formulazione normativa limitata a precisare con maggior chiarezza e puntualità i termini dell’appello in punto di indicazione delle richieste (ampliando a quelle istruttorie) e di specificazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, senza apportare innovazioni incompatibili con il precedente dettato normativo e quindi con la interpretazione giurisprudenziale che di esso aveva dato la Cassazione). Soccorrono, in particolare, i dettami delle Sezioni unite che, nel parificare l’appello al ricorso per cassazione, hanno affermato che esso è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U., n. 8825/17 del 27/10/2016, Galtelli, Rv. 26882201).

Nel caso in esame innanzitutto deve rilevarsi che i giudici di merito, come correttamente prospettato in ricorso, nel motivare l’inammissibilità dell’appello si sono, in realtà, spinti un po’ oltre, procedendo ad una vera e propria confutazione degli argomenti prospettati dall’appellante che sotto certi aspetti si attaglia più a una vera e propria valutazione nel merito che a una delibazione di inammissibilità.

In tema di impugnazioni, il sindacato del giudice di appello sull’ammissibilità dei motivi proposti non può, infatti, estendersi – a differenza di quanto accade nel giudizio di legittimità e nell’appello civile – alla valutazione della manifesta infondatezza dei motivi stessi (Sez. unite, n. 8825 del 27/10/2016 – dep. 22/02/2017, Galtelli, Rv. 26882301).

Tanto premesso, il raffronto tra l’atto d’appello e la sentenza impugnata conduce con chiarezza inequivoca a escludere la sussistenza della inammissibilità dell’appello – eloquenti al riguardo sono i fondati rilievi mossi dal ricorrente che fanno emergere, da un lato, la consistenza dei motivi di appello che avevano tra l’altro a monte evidenziato la confusione in cui era incorso il giudice di primo grado rispetto alle due distinte fattispecie di bancarotta documentale previste dall’art. 216 L.F. laddove nel caso di specie era stata contestata – solo – quella a dolo specifico e non anche quella cd. generica (sicché del tutto inconferente era il riferimento alla impossibilità di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari e si trattava quindi anche di verificare se non si vertesse piuttosto nel caso della omessa tenuta delle scritture contabili riconducibile alla bancarotta semplice), e, dall’altro, le ragioni poste dalla Corte di appello a sostegno dell’inammissibilità, che si sviluppano più propriamente sul piano della manifesta infondatezza.

La sentenza merita censura anche in riferimento alla ritenuta inammissibilità della doglianza afferente alle attenuanti generiche oggetto di specifico motivo di appello in cui si evidenziavano gli elementi in base ai quali poter operare la pur discrezionale valutazione al riguardo.

Tutto ciò senza considerare la illegalità della durata delle accessorie quantificate tout court in anni dieci senza alcuna motivazione a sostegno; circostanza che avrebbe imposto alla corte territoriale di annullare quanto meno sul punto la sentenza del tribunale. Com’è noto infatti la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, L.F. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni». La sostituzione della cornice edittale, operata dalla sentenza n. 222 del 2018, ha determinato l’illegalità delle pene accessorie irrogate in base al criterio dichiarato illegittimo, indipendentemente dal fatto che quelle concretamente applicate possano rientrare o meno nel nuovo parametro, posto che il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale.

Qualche nota di commento

Questa decisione della quinta sezione penale si è opposta, e va reso merito ai giudici che l’hanno pronunciata, alla cronaca di una morte annunciata.

I giudici d’appello avevano destinato all’oblio un’impugnazione perfettamente ammissibile e, come lasciato intendere dai giudici di legittimità, fondata quantomeno in relazione ad alcune specifiche censure.

Se ci si pensa bene, rinnega se stessa e la sua funzione una Corte d’appello che rifiuta scorrettamente di giudicare un’impugnazione.

Questa volta la Corte di cassazione ha ripristinato il diritto dell’appellante ad una pronuncia sulla sua impugnazione.

Non sempre va così bene.