Coltivazione finalizzata alla produzione di sostanze stupefacenti. Parte I (di Carlo Alberto Zaina)

L’avvocato Carlo Alberto Zaina ci ha proposto per la pubblicazione una sua articolata dispensa sulla fattispecie di coltivazione finalizzata alla produzione di sostanze stupefacenti.

Ringraziamo l’Autore e pubblichiamo volentieri il suo lavoro ritenendo che possa essere di notevole interesse per i pratici della branca penalistica.

Date le dimensioni dello scritto, la pubblicazione sarà suddivisa in parti.

Quella di oggi è l’introduzione.

Recita testualmente l’art. 26 in materia di coltivazioni e produzioni vietate:

1. Salvo quanto stabilito nel comma secondo, è vietata nel territorio dello stato la coltivazione di piante di coca di qualsiasi specie, di piante di canapa indiana, di funghi allucinogeni e delle specie di papavero (papaver somniferum) da cui si ricava oppio grezzo. in apposite sezioni delle tabelle I, II e III, di cui all’articolo 14, debbono essere indicate altre piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti e psicotrope la cui coltivazione deve essere vietata nel territorio dello stato.

2. Il ministro della sanità può autorizzare istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, alla coltivazione delle piante sopra indicate per scopi scientifici, sperimentali o didattici[1].

La citata norma, previa la deroga espressamente contenuta nel comma 2°, si pone, pertanto, come precetto propedeutico alla previsione sanzionatoria dell’art. 73 comma 1, che riguarda la coltivazione di piante dalle quali ricavare sostanze stupefacenti e, in particolar modo, la coltivazione della cannabis.

Il concetto di coltivazione è stato delineato in dottrina da AMATO, il quale lo ha posto in intima correlazione con quelle condotte successive concernenti la vera e propria produzione.

Sicché la nozione elaborata abbraccia il percorso che va dalla semina nel terreno della pianta allo sbocciare del germoglio, dovendosi escludere, pertanto, la raccolta, siccome fase autonoma, che rientra nel concetto di produzione.

Sulla medesima posizione Spitaleri[2] che pone, come limite finale, quello della maturazione completa della pianta vietata.

Più articolata appare la posizione di Mazzi[3], il quale dopo avere evidenziato l’excursus storico operato dalla giurisprudenza, in ordine alla individuazione del momento consumativo del reato di coltivazione, che ha oscillato su vari indirizzi, giungendo, addirittura, a prospettare come sinonimo di condotta coltivativa – ad avviso di chi scrive illogicamente ed ascientificamente – “…la mera detenzione di semi destinati alla semina e germogliazione…” (Cfr. Cass.  Sez. 4 15.11.2005 n. 150), introduce un ulteriore elemento di particolare importanza.

L’Autore si sofferma sul requisito dell’offensività della condotta, intesa come caratteristica di idoneità dell’azione a “...portare ad un risultato rilevante, cosa che non può avvenire se la posa o la dispersione del seme[4] avvenga su un terreno o modalità che rendano impossibile la germogliazione[5].

Sul piano fattuale quando si parla di coltivazione penalmente rilevante – utilizzando il concetto, peraltro, nei limiti già anticipati – si fa evidente riferimento a svariate forme di attività.

Vale a dire che in questo ampio alveo sono ricomprese le più disparate modalità operative e fattuali, come, ad esempio, la coltivazione in forma indoor, oppure all’aperto, od ancora direttamente in campo, piuttosto che in vaso.

Si deve rilevare che la linea della dottrina affonda le proprie radici in quell’elaborazione giurisprudenziale, la quale si rifà al principio portato dalla sentenza del 12 luglio 1994, della Sez. VI[6], che ha stabilito che l’ipotesi normativa di coltivazione va intesa in senso tecnico agrario, ai sensi degli artt. 26 e 29 D.P.R. 309/90.

Simile convincimento ha determinato un’evidente conseguenza, in quanto in antitesi alla coltivazione cd. agraria (cioè su scala apprezzabilmente ampia) la più evoluta giurisprudenza, anticipando di dieci anni l’intervento di SS.UU. ha individuato la categoria della coltivazione domestica[7].

Un passaggio particolarmente illuminante della sentenza citata in nota recita  testualmente “...L’espressione “coltivazione” presente in tali articoli evoca chiaramente un’attività tecnico-agraria o imprenditoriale poiché si parla, ai fini dell’autorizzazione, di superficie di terreni, particelle catastali, locali destinati all’ammasso e si prevede che la coltivazione e la raccolta possano essere controllate periodicamente dalla Guardia di Finanza e dal personale del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste anche in relazione alla ubicazione ed estensione del terreno coltivato e alla natura e alla durata del ciclo agrario . Ciò può solo significare che la legge, è cioè il D.P.R 309/90, letto nel suo insieme, quando parla di “coltivazione”, ha per oggetto di riferimento un’attività in larga scala o quantomeno apprezzabile, destinata ex se all’utilizzo e alla circolazione presso terzi e non si riferisce invece a modesti quantitativi di piante messe a dimora in modo rudimentale in vasi e terrazzi”.

La cd. coltivazione domestica, che verrà sdoganata definitivamente da SSUU 12348/20, dopo un oblio di oltre 12 anni (e tanti troppi processi), in concreto, si risolve nella messa a dimora di un numero limitato a poche piante, svolta in modo rudimentale e sommario, con l’unico fine che è quello di ricavare sostanza destinata all’uso personale dello stesso coltivatore (che, quindi, è in pari tempo un consumatore).

Questa dicotomia tra le condotte e, in particolar modo il riconoscimento ontologico-giuridico della esistenza della categoria della coltivazione domestica, intesa quale possibile scriminante rispetto alla previsione della violazione dell’art. 73, ha trovato, dopo un iter assai travagliato negli anni, una complessiva e chiara legittimazione, in deroga al divieto generale, con la sentenza di SSUU n. 12348/2020[8].

La possibile non sanzionabilità dell’attività coltivativa, in pendenza di specifiche situazioni e precisi requisiti[9], produce, in favore dell’indagato/imputato, i medesimi favorevoli effetti penali previsti per l’ipotesi di detenzione per uso personale.

La detenzione (assieme all’importazione ed all’esportazione) è condotta notoriamente depenalizzata, che viene punita solo con sanzioni amministrative.

La dicotomia tra le due tipologie di coltivazione derivò, in principio, da un’applicazione estensiva dell’esito del referendum del 18 aprile 1993[10] che – modificando l’art. 75 D.P.R. 309/90 – abrogò il più generale divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti ed il concetto di “dose superiore a quella media giornaliera“, quale spartiacque fra l’illecito penale e l’illecito amministrativo e si è venuta – progressivamente – ad affermare sino al culmine della già citata pronunzia delle SSUU n. 12348/2020.

In tale ottica, l’attività di coltivazione, se pure non ricompresa fra quelle espressamente indicate nell’art. 75 del D.P.R.309/90 – e sempre che non sia fornita dall’accusa prova dell’effettiva offensività della condotta in questione – dovrebbe ricadere in tale ambito punitivo, rimanendo estranea ad interventi penali.

Attese tali premesse, appare evidente la ragionevolezza sul piano giuridico della tesi che mira ad escludere la punibilità del concetto di coltivazione “domestica”[11], intesa come condotta attuata in modo rudimentale e quantitativamente modesto, secondo canoni delineatisi nel tempo, nel novero sanzionatorio previsto dall’art. 73 d.p.r. 309/1990.

L’omologazione fra la coltivazione domestica e quella più strettamente agricola, infatti, appare in palese contrasto con la volontà del legislatore di sanzionare penalmente la condotta di coltivazione in quanto sintomatica di una pericolosità presunta in ragione dell’idoneità della stessa ad attentare al bene della salute dei singoli arricchendo la provvista esistente di sostanza stupefacente.

La coltivazione domestica di piantine – in numero limitato e secondo i canoni che si sono venuti a codificare giurisprudenzialmente – da cui ottenere stupefacente per uso personale, ad avviso dell’orientamento decisorio che si espone, permette a colui che la pratichi di rimanere al di fuori del mercato della droga, senza perciò stesso incrementare il quantitativo di sostanza reperibile sul mercato.

Queste considerazioni appaiono necessarie, sia dal punto di vista giurisprudenziale, che da quello dottrinale, per affrontare quella che risulta vera e propria “questione coltivazione” che si riferisce in modo specifico all’attività di coltura della canapa e della cannabis.

Nell’ultimo decennio, infatti, il tema del diritto degli stupefacenti è stato significativamente connotato – se non addirittura monopolizzato – da un vivacissimo dibattito, soprattutto in sede giurisdizionale, che ha evidenziato la contrapposizione del fronte proibizionista a quello antiproibizionista.

Il tema della rilevanza penale della condotta coltivativa ha significativamente monopolizzato i procedimenti penali in tema di stupefacenti.

Nel contesto di questo acceso confronto, che ha visto protagonisti – in special modo – i giudici di merito, la Corte di Cassazione si è segnalata per l’assunzione di posizioni assai caute (talora astratte), fatte di minime incoraggianti aperture (V. da ultimo SSUU 12348/20 che ha ridefinito i requisiti della non punibilità della condotta), cui sovente, però, sono succeduti arresti che di fatto hanno azzerato ogni ipotetico progresso sul cammino di una ragionevole equiparazione della condotta coltivativa alla condotta detentiva finalizzata al consumo personale.

Dunque, ad una energica spinta innovativa della base giurisdizionale, di carattere ermeneutico, concretatasi in numerose pronunzie assolutorie, si è venuta ad opporre una complessa visione del problema, da parte dei giudici di merito, i quali hanno per lo più cercato di evidenziare elementi negativi e, soprattutto, l’offensività (o presunta tale) della condotta coltivativa, sulla scia della nota sentenza delle SSUU 28 aprile – 10 luglio 2008 n. 28605.

Il reale significato di questa pronunzia, anche a causa della sua complessa e non sempre chiara struttura contenutistica, non è stato colto appieno da coloro – e sono tanti – che l’hanno sottoposta a disamina.

Si è, così, hanno preferito porre l’accento sui profili di totale chiusura (e di illiceità penale) espressi dalla Corte nei confronti della coltivazione, piuttosto che soffermarsi su aspetti, che, invece, anticipavano l’introduzione del criterio dell’offensività, quale paradigma decisorio in questa tipologia di procedimenti.

Ciò nonostante, medio tempore, non sono affatto mancati approdi del giudice di legittimità, che hanno costituito un progressivo iter di tangibile valorizzazione di nuovi paradigmi interpretativi in punto di fatto, in senso favorevole alla coltivazione.

Questi approdi appaiono indubitabilmente propedeutici alla importante decisione delle SSUU sopra richiamata.

In questo senso, come si vedrà, le più significative decisioni appaiono quelle rispettivamente di Sez. VI n. 33835/14, di Sez. III n. 43986/15 e di Sez. IV n. 9156/15, le quali hanno permettere di porre sotto la luce della generale attenzione il citato tema dell’offensività, recependo, come si vedrà orientamenti significativamente maturati nell’ambito della giurisprudenza di merito.

In funzione del giudizio concernente tale condizione, queste decisioni hanno individuato nuovi parametri per valutare – caso per caso – la sussistenza di tale forma qualificata di antigiuridicità.

La resistenza ad aperture giurisprudenziali è, peraltro, rimasta viva, nel corso del questo difficile e tormentato percorso esegetico, tanto che, negli anni, sono intervenute pronunzie ingiustificatamente ondivaghe e sorprendentemente contraddittorie.

L’indirizzo che ha propugnato la decisività della condizione di “…conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente” è stato rivisto dalla giurisprudenza di rito.

Infatti la stessa Sez. VI, con la sent. n. 40030, dopo neppure cinque mesi dalla decisione di cui alla nota 1, all’udienza del 26-09-2016, ha valorizzato, invece, proprio il dato quantitativo, affermando che “Non commette infatti reato chi coltiva una pianta di canapa indiana sul terrazzo: ai fini della punibilità penale è infatti necessaria una produzione potenzialmente idonea a incrementare il mercato”.

Ma anche la dottrina ha negato il fondamento di tale posizione.

LA ROSA ha sostenuto che “la soluzione che limita lo spazio di una declaratoria di concreta inoffensività del fatto ai soli casi in cui la coltivazione non sia in grado di produrre una quantità di sostanza dotata di efficacia drogante presuppone una persistente identificazione del bene giuridico tutelato dall’art. 73, Dpr. n. 309/1990 con la salute individuale (e non già con la salute pubblica, come invece sostenuto nella sentenza in commento).” ed ha precisato che si tratta di “tesi, però, smentita dalla scelta del legislatore – in linea col principio di autodeterminazione e con una visione anti-paternalistica dell’intervento punitivo – di escludere la rilevanza penale del consumo personale”.

Appare, pertanto, evidente come, in realtà, il tema fondamentale attorno al quale si è sviluppato il dibattito giurisprudenziale è quello dell’offensività della condotta intesa, come affermato da Cass. Sez. VI, 17-02-2016, n. 8058 (rv. 266168), come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.

La Corte ha dimostrato di aderire a quell’orientamento che ha propugnato, ai fini di affermare la rilevanza penale della coltivazione, la insufficienza dell’accertamento della conformità delle piante al tipo botanico vietato, ed ha, invece, prescritto la necessità di accertare l’offensività in concreto[12] della condotta nei termini sopra descritti.

Per converso si è ritenuto configurabile una situazione di inoffensività “in concreto” in presenza di una condotta minimale.

In questo senso, il parametro valutativo non si è incentrato esclusivamente su specifici canoni ponderali[13], così insignificanti da rendere effettivamente irrisorio l’aumento di disponibilità della droga prodotta, senza rischi di ulteriore diffusione di essa.

È stata, invece, valorizzata l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, paradigma divenuto utile per verificare se dalla coltivazione derivi un raccolto potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.

Si tratta di criteri – uniti a quello della destinazione della sostanza ottenuta al fabbisogno personale del coltivatore/consumatore – che sono stati, poi ripresi ed affermati da SSUU nella sentenza 12348/20.

Dalle premesse appena declinate è seguito il principio che incomba, così, sul giudice l’onere di verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

Addirittura la Corte di Appello di Roma Sez. III, 22-09-2016, si spinge ancor più avanti, ravvisando comunanza di identità tra la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, (nell’ipotesi non sia riconducibile alla nozione di coltivazione in senso tecnico-agrario, ovvero imprenditoriale), e la nozione della detenzione, con la naturale conseguenza che occorre verificare se, nel caso concreto, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale di quanto coltivato.,

Quella espressa dalla Corte territoriale rimane una posizione estrema ed isolata, ma costituisce apparenza significativa del dubbio avvertito in relazione al fondamento del possibile parallelismo fra coltivazione domestica e detenzione.

Si tratta di un indirizzo che, come detto estremamente minoritario, è stato totalmente smentito da SSUU 12348/20 (che ha ripreso l’insegnamento di cui alla sent. 28605/2008) “...stante la autonomia concettuale tra la coltivazione non autorizzata e la mera detenzione (contrariamente a quanto, invece, era stato argomentato dalla giurisprudenza di legittimità che aveva avallato tale tesi), che non può quindi in alcun modo consentire la parificazione tra tali condotte ontologicamente distinte tra loro[14].

In ogni caso a fronte dell’indirizzo che pone al centro della questione il tema dell’offensività della coltivazione, si è imposto il problema della tipicità della condotta in questione.

L’offensività (nullum poena sine iniuria) presuppone la circostanza che il reato leda, oppure metta in pericolo un bene che abbia rilevanza giuridica e che, pertanto, sia tutelato dalla norma penale.

Come detto in nota 13, per il principio dell’offensività vige una duplice accezione in astratto e in concreto.

Da un lato, così, l’astrattezza postula e contempla la previsione normativa di reati che concernano beni giuridici, i quali sul piano teorico risultino suscettibili di offesa.

Si tratta, quindi, di un naturale antecedente giuridico rispetto all’evento od alla condotta materiale, fondato sull’esistenza della specifica norma penale incriminatrice.

Dall’altro, invece, si tratta di dare, di conseguenza, attuazione al principio astratto.

Il profilo della concretezza si viene a riferire al momento applicativo del principio astratto, che compete al giudice, il quale deve operare un giudizio in ordine all’effettiva idoneità della condotta materiale a ledere o minacciare il bene tutelato.

Questa dicotomia è stata evidenziata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 360/1995), che, chiamata a pronunciarsi sulla illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del TU in materia di stupefacenti per violazione degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, ebbe a ritenere la questione infondata.

La Consulta rilevò che l’incriminazione della condotta di coltivazione rispettava il principio di offensività, in primis, attesa la previsione espressa di una norma contenente un precetto ed una corrispondente sanzione (c.d. offensività in astratto).

Per il perfezionamento del concetto nella sua interezza, quindi, attraverso l’attuazione della c.d. offensività in concreto[15], il giudice delle leggi riconobbe la necessità che il giudice accertasse che la singola condotta concretamente posta in essere risultasse realmente idonea a minacciare i beni giuridici presidiati dalla norma incriminatrice.

La tipicità, a propria volta, consiste nella sussumibilità della fattispecie concreta in quella astrattamente prevista dalla norma.

Nella specie, requisiti per sostenere la tipicità della condotta coltivativa si desumono dalla conformità del tipo botanico della coltura rispetto a quello legislativamente vietato, nonché alla capacità delle piante, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a compiuta germinazione ed a produrre sostanza stupefacente.

La tipicità, dunque, integra un profilo del tutto distinto e per nulla confondibile con l’offensività – specie dell’antigiuridicità -, ma rimane categoria decisiva ai fini della valutazione globale di illiceità penale della coltivazione.

Si deve, peraltro, osservare che la nozione di tipicità assolve esclusivamente alla funzione di catalogare la pianta coltivata nel contesto di quelle per le quali è necessario essere muniti di un’autorizzazione ex art. 17 e 26 Dpr 309/90.

Si tratta di un carattere concernente la pianta oggetto dell’azione che evidentemente – a cascata – riverbera effetti sulla natura della condotta coltivativa, ma che non può, ex se, risultare risolutivo, privando di valore altri differenti elementi.

Una volta incentrati i due capisaldi ermeneutici, emergono ulteriori spunti utili a delineare nella sua completezza il giudizio.

Si deve premettere, per meglio comprendere, come questi diversi paradigmi valutativi abbiano avuto ingresso nel procedimento ermeneutico definito dalla giurisprudenza, che l’apporto delle numerose decisioni dei giudici di merito sia stato fondamentale.

Si può seriamente sostenere che la base giurisprudenziale ha certamente influito positivamente sugli approdi della Corte di rito, anche formalmente una simile ammissione sarà estremamente difficile da rinvenire pubblicamente.


[1]La norma si pone in intima correlazione sia con l’art. 27 dpr 309/90- che prevede le modalità di rilascio dell’autorizzazione – sia con i limiti sanciti dalla normativa UE.

[2]La disciplina dei reati in materia di Stupefacenti, pg. 50, Maggioli, 2021

[3]Diritto degli stupefacenti, pg. 110 e segg. Pacini Giuridica, 2022

[4]La detenzione di semi in sé non concreta l’ipotesi di coltivazione. Nello specifico la detenzione di 763 semi di cannabis indica con percentuale di germinazione pari al 52% senza tuttavia piantarli; perché, infatti, possa parlarsi di coltivazione punibile ex art. 73 è necessario che sia iniziato il relativo procedimento naturale, e cioè almeno che i semi siano stati piantati, non essendo sufficiente il mero possesso dei semi medesimi, neppure sotto il profilo del tentativo punibile, non essendo desumibile con certezza l’effettiva destinazione degli stessi (Cfr. G.U.P. Tribunale di Sanremo, 23 Gennaio 2001 n. 44/01 ).

[5]Idem pg. 111

[6] Foro Italiano, novembre 1995, II 633

[7]Sull’antitesi fra coltivazione domestica e coltivazione agraria, di significativa rilevanza appare la sentenza del GUP di Cremona, (dott. G. Salvini) 10.10.2013.

[8]Cass. pen. Sez. Unite, 16/04/2020, n. 12348 C.G.

        Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numera di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.

        FONTI  Quotidiano Giuridico, 2020, Dir. Pen. e Processo, 2020, 6, 741, Giur. It., 2020, 10, 2242 nota di NOTARO, Dir. Pen. e Processo, 2020, 11, 1446 nota di ARGIRO’, Studium juris, 2020, 7-8, 902 nota di BOLZONARO

[9]Cass. Sez. Unite Sent., 16/04/2020, n. 12348 (rv. 278624-01)

        Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all’uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto.

        La sentenza stessa rileva l’importanza per sostenere che la coltivazione sia finalizzata all’uso personale del coltivatore anche dei parametri della quantità, delle tecniche di coltura e dell’assenza di elementi concreti di segno diverso, risulti finalizzata all’uso personale del coltivatore.

        FONTI          Foro It., 2020, 10, 2, 607

[10] Significativa, infatti è la pronuncia del G.U.P. di Venezia dell’8.5.1998, che individuò la citata dicotomia, sancendo che l’attività di coltivazione di sostanze stupefacenti, penalmente rilevante, va intesa in senso tecnico agrario ai sensi degli artt. 26 e 29 del D.P.R. 309/90, e che, pertanto, la coltivazione domestica, che si risolve nella messa a dimora di poche piante per uso personale, integra una ipotesi di detenzione per uso personale, come tale depenalizzata e colpita solo con sanzioni amministrative. (Cfr.  F. BERTOCCO, nota a sent. G.I.P. Tribunale di Venezia – Sent. 8.5.1998, in http://www.toolsantipro.it).

Conforme successivamente Tribunale di Cagliari, sent. 29 Gennaio 2004, che sottolineò come il concetto di coltivazione “domestica”, ossia il fenomeno della messa a dimora di una o più piante idonee a produrre quantitativi di sostanza stupefacente pienamente compatibili con una destinazione a consumo personale, esula del tutto dalla nozione tecnico-agraria di coltivazione, che presuppone una serie di attività quali preparazione del terreno, semina, governo delle piante, raccolta, etc., avuto   presente dal legislatore penale.

[11] Concetto propugnato in epoca ante SSUU 265/2008 da illuminati giudici di merito. Vedi, in primis, Tribunale di Livorno, 1 Giugno 2001, Campo e altri1, che afferma come in materia di stupefacenti è possibile includere nell’ampio concetto di detenzione anche l’attività di coltivazione “domestica” di un numero esiguo di piante, sempre che essa sia volta  inequivocabilmente a ricavare stupefacente in quantitativi compatibili con l’uso personale, in quanto non assimilabile alla coltivazione in senso tecnico disciplinata dagli art. 26 e 27 d.P.R. n. 309 del 1990 e sanzionata dall’art. 73 dello stesso decreto.

Ed ancora, di tutto rilievo risulta la conclusione cui perviene il Tribunale di Roma, 13 Febbraio 2001, De Luca2 che ribadisce come l’attività di coltivazione “domestica” e rudimentale di stupefacenti, che risulti finalizzata all’uso personale, siccome caratterizzata dalla coltivazione privata di modeste o minime quantità di stupefacenti, è estranea alla nozione di coltivazione tecnicamente definita dagli art. 26-28 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione alla quale è prevista la sanzione penale di cui all’art. 73 dello stesso d.P.R.

Per tale attività di coltivazione domestica il Tribunale ritiene che è possibile includere la condotta, in via estensiva, nell’ampio concetto di “detenzione” di cui all’art. 75 d.P.R. n. 309/90, discendendone la punibilità solo a titolo di illecito amministrativo in tutti i casi in cui non vi sia la prova della destinazione a terzi della droga.

[12] Offensività che deve essere valutata sulla base di un duplice parametro quello astratto e quello concreto.

[13]Non è, così, sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante,

[14]Nadile in Questione Giustizia Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete

[15]Sul punto appare particolarmente interessante GUP Ravenna 24.10.2014 n. 517/2014.

        “…Non diversa sorte assolutoria segue il reato di coltivazione di piante di sostanza stupefacente, seppure con la diversa formula “perché il fatto non sussiste” non essendo emersa una prova certa dell’offensività della condotta, poiché qualora l’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta. L’indispensabile connotazione di offensività in generale della fattispecie penale implica di riflesso la necessità che anche in concreta la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo. nella singola condotta de/l’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato Impossibile (art. 49 c.p.) …”.