Il giurista che voglia comprendere l’atteggiamento del legislatore contemporaneo allorché definisce gli spazi di libertà degli esseri umani ai quali si rivolge non può prescindere da uno sguardo al passato.
È un passaggio indispensabile soprattutto ove gli interessi capire se il diritto del suo tempo si ponga in continuità o in contrapposizione con valori e principi emersi in epoche precedenti e che, illo tempore, erano sembrati così importanti da costituire un punto di non ritorno, uno spartiacque tra un prima peggiore e un dopo migliore.
Parlerò in questo post della strict construction, un canone interpretativo di origine anglosassone che in italiano potrebbe essere tradotto come interpretazione restrittiva.
Prima però devo riconoscere il mio debito: ho tratto ispirazione, informazioni e citazioni bibliografiche da un ottimo lavoro di Mario Caterini e Diana Zingales, L’interpretazione favorevole all’incolpato: spunti storici e comparati per la codificazione di una clausola generale, pubblicato di recente in Archivio Penale, 2023, n. 2, (liberamente consultabile a questo link).
Così Livingston Hall, giurista statunitense dello scorso secolo, in Strict or Liberal Construction of Penal Statutes, in Harvard Law Review, volume 48, n. 5 (Marzo 1935), pagg. 748-774, definì la genesi di quella regola: “Faced with a vast and irrational proliferation of capital offenses, judges invented strict construction to stem the march to the gallows. Sometimes aptly called the rule of lenity, strict construction was literally “in favorem vitae”- part of a “veritable conspiracy for administrative nullification” of capital penalization“.
Espressione così traducibile: “Di fronte a una vasta e irrazionale proliferazione di reati capitali, i giudici inventarono l’interpretazione restrittiva per fermare la marcia verso il patibolo. Talvolta giustamente chiamata la regola della clemenza, l’interpretazione restrittiva era letteralmente “in favorem vitae” – parte di una “vera e propria congiura per l’annullamento giurisprudenziale” della pena capitale“.
La strict construction cominciò ad essere sperimentata nel Sedicesimo secolo ai tempi di Enrico VIII come rimedio alla crescente asprezza delle pene.
Due secoli e passa dopo si era diffusa anche nelle prassi giudiziarie statunitensi con un’essenziale postilla aggiuntiva: la regola non era più intesa come uno strumento pietoso da contrapporre a un sovrano facile a far rotolare le teste dei suoi sudditi ed era divenuta al contrario un mezzo per garantire l’esatta applicazione delle decisioni del Congresso in materia criminale a fronte di norme ambigue.
Il substrato ideologico del canone interpretativo così riformulato era che le ambiguità, implicando l’assenza di una chiara volontà legislativa, dovessero sempre e soltanto essere risolte a favore di chi si difendeva da un’accusa penale.
Un esempio di applicazione concreta della strict construction di nuovo conio fu il celebre caso United States v. Wiltberger, 18 U.S. 76 (1820).
Il caso nacque dall’accusa federale nei confronti di un tale Wiltberger che era imputato di un omicidio colposo commesso nelle acque di un fiume cinese.
Il Crimes Act vigente al tempo conteneva due sezioni rilevanti per l’inquadramento giuridico della condotta: la Sezione 8 la quale contemplava vari reati tra i quali l’omicidio volontario commesso “in alto mare, o in qualsiasi fiume, porto, bacino o baia, al di fuori della giurisdizione di uno Stato in particolare” e la Sezione 12, emanata successivamente, che prevedeva invece una pena fino a tre anni per l’omicidio colposo commesso “in alto mare“.
Ecco allora delinearsi la questione giuridica: posto che la Sezione 8 sembrava equiparare i fiumi all’alto mare, poteva ritenersi che tale equiparazione producesse effetto ai fini propri della Sezione 12 e quindi il Governo americano fosse legittimato a perseguire un omicidio colposo commesso in un fiume, al quale peraltro, in quanto cinese, non si attagliava l’espressione “al di fuori della giurisdizione di uno Stato in particolare“, considerandolo come commesso in alto mare?
Il Governo sosteneva ovviamente questa tesi ma il giudice Marshall, incaricato del caso, non la condivise.
Ritenne al contrario particolarmente insidiosa un’interpretazione che pretendesse di desumere la ratio legis da argomenti estranei alla fattispecie e che tendesse a forzare il testo normativo in direzioni che il suo piano significato rendeva irragionevoli.
L’argomento giustificativo di questa costruzione concettuale era chiaro: si doveva sempre escludere che il legislatore avesse inteso incidere sulla libertà personale ove tale volontà non fosse stata espressa in termini chiari e univoci.
Il caso United States v. Wiltberger fu deciso due secoli fa.
L’ho riproposto, coerentemente alla premessa di questo breve resoconto, nel tentativo di capire se la visione che ispirò il giudice Marshall sia ancora tra noi oppure no.
Penso francamente di no: mi vengono in mente decine di fattispecie del nostro ordinamento penale inficiate da notevoli ambiguità e non me ne viene in mente quasi nessuna per la quale la prevalente giurisprudenza nostrana si sia predisposta “to stem the march to the gallows“.
Non solo non si è neanche tentato di fermare la marcia verso il patibolo ma si continuano a sperimentare nuove strade per arrivarci più comodamente e in fretta.
Mi sembra così ma è soltanto la mia opinione.
