Storie di Calabria: la “strega”, il giovane avvocato e l’ultimo processo per maleficium nel Regno delle Due Sicilie (di Vincenzo Giglio)

Introduzione

Sono calabrese e non ho bisogno che mi si dica quanto è bella la mia terra, lo so da me.

Non serve neanche che spieghi questa bellezza, si spiega da sola a chiunque sia disposto a guardare con occhi limpidi i suoi mille volti.

E tuttavia la Calabria è per lo più percepita come una terra di spaventosa arretratezza, lontana anni luce dal resto d’Italia, dominata dalla ‘ndrangheta, in mano a classi dirigenti indecenti, priva di qualsiasi sussulto civile, abitata da gente che spicca solo per la pesantezza dell’accento, l’incomprensibilità del suo dialetto e l’abuso di peperoncino piccante.

Si dovrebbe parlare a lungo di ognuna di queste percezioni, non certo per sostituirle con l’idea di un Eden inesistente ma per rimuovere l’intollerabile semplificazione di cui sono frutto e fare emergere la complessità della questione calabrese e la presenza di luci accanto alle ombre.

Vorrei contribuire con un frammento a questo tentativo di revisione e lo faccio raccontando una storia vera di 250 anni fa.

Non dimentico che Terzultima Fermata è un blog di diritto penale e spero che, giunti alla fine del racconto, risulti evidente la sua pertinenza a tale ambito.

La storia

La prima dei due personaggi essenziali in questa storia è Cecilia Faragò.

Nacque a Zagarise (CZ) nel 1712. Vent’anni dopo andò in sposa a Lorenzo Gareri, un agiato possidente terriero, e andarono a vivere a Soveria Simeri, un altro piccolo centro del catanzarese.

Ebbero due figli.

Il marito della Faragò, per sfortuna sua e della moglie, era di salute malferma e ossessionato dal timore di mancare l’appuntamento col paradiso. Dispose quindi che tutto il suo patrimonio andasse alla Chiesa.

Dopo la sua scomparsa, i due chierici che lo avevano convinto a quel gesto propiziatorio passarono all’incasso ma i loro piani furono ostacolati dalla vedova che, ridotta in miseria, denunciò pubblicamente che si erano approfittati della fragilità e della impressionabilità del defunto marito per ottenere il lascito.

La resistenza della Faragò indispettì non poco i due preti e li indusse ad una reazione spregiudicata.

All’inizio del 1769 era morto il canonico Antonio Ferraiolo ed era rimasta ignota la causa del decesso.

I due convinsero quindi la madre di costui a denunciare la Faragò per stregoneria e ad accusarla di avere provocato la morte del figlio sottoponendolo a malefici: gli avrebbe dapprima scagliato addosso una polvere magica e poi lo avrebbe ammaliato con lo sguardo e con movimenti delle labbra fino a portarlo rapidamente alla morte.

Occorrevano dei riscontri e furono trovati anche quelli: un medico locale sottopose ad autopsia la salma del canonico e concluse che il decesso era avvenuto per causa inspiegabile; la Faragò fu incarcerata e, profittando della sua forzata assenza, la sua abitazione fu perquisita e saltarono fuori unguenti, minerali e ossa che furono poi repertati come prove decisive di esercizio della stregoneria.

Sennonché, la corte di Catanzaro dinanzi alla quale fu presentato il caso non si fece distrarre da quel maldestro apparato scenico e dichiarò non luogo a procedere nei confronti dell’imputata.

La madre della presunta vittima non desistette e appellò la decisione sfavorevole dinanzi alla Gran Corte della Vicaria di Napoli.

Entrò così in scena l’avvocato Giuseppe Raffaelli, il secondo protagonista della storia.

Era giovanissimo, appena 20 anni, e ovviamente alle prime armi.

Nessuno sano di mente avrebbe affidato una difesa così importante a un novellino.

Eppure la Faragò lo fece e fu ampiamente ripagata.

Raffaelli strutturò una discussione di straordinaria efficacia, affidandosi non a frasi roboanti ma a solide conoscenze storiche, filosofiche, mediche e scientifiche che fecero breccia nel collegio dei giudici d’appello.

Richiamò le evidenze storiche, a partire dalla cultura greca, per dimostrare il fallimento costante delle tesi che accreditavano l’esistenza della stregoneria.

Dimostrò che il canonico Ferraiolo era morto non per sortilegi misteriosi ma a causa dell’incompetenza dei medici che l’avevano curato i quali non avevano riconosciuto la sua patologia e gli avevano somministrato farmaci che anziché guarirlo ne avevano accelerato il decesso.

Evidenziò una ad una le manipolazioni che avevano inficiato il cosiddetto compendio probatorio.

Finì come doveva finire: l’appello fu respinto e Cecilia Faragò fu assolta.

Non solo: tali furono il clamore suscitato dal processo e l’evidenza delle manovre illecite del clero catanzarese da indurre Ferdinando IV di Borbone, sovrano del Regno di Napoli, a decretare l’abolizione del reato di stregoneria.

La storia non sarebbe completa senza un cenno finale alla sorte dei due protagonisti.

Cecilia Faragò, pur scagionata nel modo più completo, non riuscì a rientrare in possesso dei beni del marito e morì in miseria.

Giuseppe Raffaeli divenne un luminare dell’avvocatura e della magistratura.

Sia pure con alterne fortune, derivate dalla sua adesione al fallito progetto della Repubblica napoletana che lo costrinse all’esilio in Francia e poi a Torino e Milano, ebbe un cursus honorum di pregio straordinario e si iscrisse a buon diritto tra gli esponenti più in vista dell’Illuminismo italiano.

Note conclusive

La Calabria è stata anche questo.

La terra che, in un periodo di oscurantismo, in luoghi periferici e dominati da un clero gretto e avido, è stata rappresentata da una donna che ha combattuto l’ingiustizia, da un avvocato alle prime armi ma brillante e coraggioso, da giudici che hanno saputo scorgere e proclamare la verità senza soggiacere alle pressioni dei potenti del loro tempo.

Una bella storia e vale la pena ricordarla.