Storia della colonna infame: l’odio e i giudizi sommari ai tempi della peste (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Nel Castello Sforzesco di Milano, seguendo il percorso fino alla Corte ducale e arrivati al Portico dell’elefante, ci si imbatte in una grande lastra marmorea che porta un’iscrizione in latino.

Sul retro c’è la traduzione in italiano:

Qui dove si apre questo largo, sorgeva un tempo la bottega del barbiere Gian Giacomo Mora che, ordita con il commissario della sanità Guglielmo Piazza e con altri una cospirazione, mentre un’atroce pestilenza infuriava, cospargendo diversi lochi di letali unguenti molti condusse ad un’orrenda morte.

Giudicati entrambi traditori della patria, il Senato decretò che dall’alto di un carro prima fossero morsi con metalli roventi, mutilati della mano destra, spezzate l’ossa degli arti, intrecciati alla ruota, dopo sei ore sgozzati, bruciati e poi, perché di cotanto scellerati uomini nulla avanzasse, confiscati i beni, le ceneri disperse nel canale.

Parimenti diede ordine che ad imperituro ricordo la fabbrica ove il misfatto fu tramato fosse rasa al suolo né mai più ricostruita; sulle macerie eretta una colonna da chiamare infame.

Lungi dunque da qui, alla larga, probi cittadini, che un esecrando suolo non abbia a contaminarvi!

Addì I agosto 1630“.

È uno dei due resoconti, quello falso (nella motivazione), della notissima storia, questa invece vera, della colonna infame che Alessandro Manzoni, proprio con questo titolo, volle aggiungere come appendice ai Promessi Sposi.

Sul finire del 1629, nello stesso periodo in cui era ambientato il romanzo principale, a Milano ci furono i primi casi di contagio da peste.

Sei mesi più tardi, la mattina del 21 giugno 1630, quando ormai la pestilenza era diffusa, una donna notò un uomo che camminava rasente i muri, coperto da una cappa nera, col cappello calcato sulla fronte e tenendo in mano una carta sulla quale scriveva.

La donna notò inoltre che l’uomo sembrava toccare i muri lungo i quali passava.

Una scena simile fu notata da un’altra donna che viveva nello stesso quartiere.

Si consideri adesso che assieme alla peste si era diffusa la diceria che i nemici del Ducato di Milano avessero affidato a loro emissari (gli untori) il compito di ungere porte e muri della città con unguenti venefici per diffondere la peste.

L’episodio fu segnalato alle autorità e le due testimoni furono chiamate a deporre dal Capitano di giustizia.

L’uomo misterioso fu identificato in Guglielmo Piazza che aveva la carica di Commissario alla sanità.

Fu interrogato e negò qualsiasi responsabilità. Spiegò che camminava tenendosi vicino ai muri per la semplice ragione che pioveva e voleva ripararsi dall’acqua. Disse che, in quanto commissario alla sanità, era suo compito verificare le condizioni igieniche del quartiere e stava annotando su una carta le case abbandonate a causa della peste.

Le sue dichiarazioni non convinsero l’inquirente che cominciò a usare la maniere forti: Piazza fu torturato per tre giorni ma continuò a dire le stesse cose.

Gli fu proposta l’impunità se avesse rivelato chi erano i suoi complici. Sfinito dal dolore, Piazza fece il nome di Giangiacomo Mora, barbiere e cerusico. Le guardie si recarono allora nella sua bottega e vi trovarono gli unguenti che preparava per dare un po’ di sollievo agli ammalati di peste e un recipiente contenente liscivia, un miscuglio impiegato come detergente per i panni, e tracce di sangue, verosimilmente lasciate da panni di persone curate.

Inutile dire che anche Mora fu arrestato e torturato e, come il suo compagno di sventura, confessò di essere un untore pur di far cessare i tormenti.

Dopo un giudizio a dir poco sommario e fondato su mere dicerie non supportate da alcun riscontro concreto Piazza e Mora vennero condannati a morte dal Senato. La sentenza fu eseguita mediante sgozzamento ma prima ci fu il tempo di torturare e seviziare ancora i due sventurati, così come fedelmente e macabramente descritto nella lastra di cui è parlato all’inizio.

Quasi 150 anni dopo – era il 1778 – la colonna infame eretta accanto alla bottega del barbiere fu smontata e distrutta.

Si era in pieno Illuminismo e un anno prima Pietro Verri aveva scritto Osservazioni sulla tortura, incentrato proprio sul processo farsa a Piazza e Mora.

Nel decennio precedente era stato pubblicato il celeberrimo Dei delitti e delle pene ad opera di Cesare Beccaria, nonno materno del Manzoni. Anche quest’opera elevò la storia della colonna infame a simbolo della giustizia fondata su pregiudizi piuttosto che sulla ragione.

Coevo al trattato di Beccaria fu il Trattato sulla tolleranza, scritto da Voltaire, incentrato su una vicenda giudiziaria assai simile a quella toccata in sorte a Piazza e Mora, che aveva avuto come vittima un tale Jean Calas messo a morte ingiustamente dal Parlement (un organo cittadino con funzioni giudiziarie) di Tolosa con l’accusa di avere assassinato il figlio.

Così Voltaire descrisse la metodologia valutativa della prova testimoniale in uso a Tolosa:

Il parlamento di Tolosa segue una pratica molto curiosa nelle prove testimoniali. Altrove si ammettono mezze prove, che in fondo non sono che dubbi, perché si sa che sono mezze verità. Ma a Tolosa si ammettono i quarti e gli ottavi di prova. Si può considerare, per esempio, un sentito dire come un quarto di prova, un altro sentito dire più vago come un ottavo; di modo che otto dicerie, che non sono che un’eco di una diceria mal fondata, possono diventare una prova completa ed è all’incirca su questo principio che Jean Calas fu condannato alla ruota”.

Ci vollero personaggi di questa levatura e lo spirito che seppero infondere nel loro tempo per chiamare orrore quello che uomini fecero ad altri uomini in nome di una giustizia accecata dall’odio, dal fanatismo, dall’incapacità di comprendere l’ignoto.

Oggi a Milano una traversa di Corso di Porta Ticinese è intitolata a Giangiacomo Mora.

Un riconoscimento postumo della sua innocenza, una condanna postuma della bruta violenza usata dai suoi inquisitori e giudici.

Ieri è stato il quarantennale dall’arresto in piena notte di Enzo Tortora.

La sua storia è troppo nota per doverla ricordare qui.

Crediamo sia ora che anche a lui siano dedicate strade e piazze.

Ha subito anch’egli da onesto l’oltraggio di una giustizia cieca, arrogante, autoreferenziale e ci sono voluti un giudice di appello per assolverlo e un passaggio in Cassazione per rendere definitiva l’assoluzione.

Che adesso gli si dia merito di avere resistito a quell’oltraggio con la schiena dritta e senza smarrire se stesso.

E, se possibile, che si facciano sentire tutti gli illuministi contemporanei perché simili brutture non abbiano a ripetersi.