Il vicequestore Schiavone: un poliziotto fuori dagli schemi (di Vincenzo Giglio)

Ho visto su Prime Video tutte le cinque stagioni della serie “Rocco Schiavone” tratta dai romanzi di Antonio Manzini.

Il protagonista è il vicequestore Rocco Schiavone, interpretato benissimo da Marco Giallini, un poliziotto romano spedito punitivamente ad Aosta per avere pestato a sangue uno stupratore seriale che ha dalla sua il vantaggio di essere figlio di un politico potente e vendicativo.

Attorno a Schiavone ruotano i componenti della sua piccola squadra: Pierron (intelligente, ribelle e vizioso), Rispoli (bella, tormentata, misteriosa), Casella (quieto, sensato, affidabile), D’Intino (stupido, impacciato, capace di una comicità stralunata, praticamente un clone del Catarella dei romanzi del commissario Montalbano),  Deruta (obeso e dimesso ma di animo sensibile e pittore dilettante), Scipioni (sciupafemmine recidivo e reiterato), Fumagalli (medico legale e battutista fulminante con l’abitudine di mangiare tramezzini tra un’autopsia e un’altra), Gambino (capo del gabinetto scientifico, complottista).

E poi ci sono le autorità: il questore Costa (brav’uomo ossessionato dai giornalisti) e il procuratore della Repubblica Baldi (onesto, capace, con riserve infinite di becchime che dispensa ai piccioni che si posano sul davanzale della finestra del suo ufficio).

La carrellata finisce con Lupa (la fedele cagnetta del vicequestore).

Se vogliamo capire qualcosa di più di Schiavone dobbiamo per forza partire dalle sue singolari propensioni: consumatore abituale di canne, fumatore compulsivo, affetto dalla sindrome di Tourette (espressioni capitoline come “sticazzi” e “me cojoni” e inviti universali come “vaffanculo” schizzano e rimbalzano senza sosta verso il malcapitato di turno e addirittura Schiavone tiene una lezione al suo team sul loro uso appropriato), violento e minaccioso, ladro e perfino omicida (Schiavone ammazza l’uomo che ha assassinato la sua amatissima moglie), socio e complice di tre criminali romani suoi amici dall’infanzia.

Ma poi dobbiamo aggiungere le tante qualità positive dell’eroe di Manzini: ha un suo senso della giustizia, non si inchina ai potenti anzi li detesta, possiede intuito e capacità investigative fuori del comune.

Sarebbe un mix abbastanza insolito per un uomo normale, diventa addirittura paradossale per un funzionario di polizia.

Eppure Schiavone piace, fa simpatia, non si fatica a solidarizzare con lui. Soprattutto nella tante scene in cui lo si vede a casa mentre parla con la proiezione di sua moglie Marina, l’unica donna che abbia amato e la cui perdita non riesce a sopportare e razionalizzare.

Schiavone piace, ma perché?

Cos’ha che stimola l’identificazione con lui?

Ci ho pensato un po’ per la maledetta abitudine del giurista di classificare tutto e tutto ordinare sistematicamente nel vano tentativo di tenere a bada il caos.

Alla fine mi sono convinto che contino due cose.

La prima è che Rocco Schiavone è il campione di una giustizia vera, basica, primordiale, spogliata di ogni sovrastruttura: se si convince che qualcuno è colpevole lo perseguita, lo aggredisce, lo spoglia di ogni dignità e difesa, lo disprezza apertamente, lo mastica e lo risputa (e, se ci pensiamo, è quello fa anche da omicida, ammazza chi si è preso la vita di sua moglie, non è giustizia primordiale anche questa?).

La seconda, strettamente conseguenziale alla prima, è che non è giustizia tutto ciò che ne intralcia o rallenta il cammino: se Schiavone sa, non si affida a procedure barocche, preferisce picchiare.

Questa idea di base la si trova spesso nel genere poliziesco: l’eroe solitario e ribelle che ribalta la realtà sbagliata a suon di pugni e di espedienti illeciti.

Piace anche a me, lo confesso, ma siccome sono un maledetto giurista mi piace solo nei romanzi, al cinema, in TV, magari anche a teatro.

Nella vita vera, Rocco Schiavone e tutti i suoi cloni li considero una sciagura, direi addirittura una vergogna dello Stato di diritto.