Avvocato, le sconfitte insegnano più delle vittorie (di Riccardo Radi)

Parole di un avvocato che ha conosciuto il saliscendi della professione.

Avvocato: “non ti esaltare per le vittorie e non ti avvilire per le sconfitte” diceva Genuzio Bentini avvocato di altri tempi che ha lasciato il segno nella sua esistenza.

All’indomani di una sconfitta, sii più rispettoso del solito col giudice che ti ha dato torto, e più cordiale con  il collega che te l’ha fatta… Non vorrai mica essere l’avvocato che ha sempre ragione? L’avvocato delle  cause vinte?

Tieni a mente, giovane Collega, che l’avvocato che rifiuta una causa per la tema di perderla è  un disertore della buona battaglia. Eppoi, una delle due, o neutralità o manicomio.

Non ti esaltare per le  vittorie e non ti avvilire per le sconfitte, se no, dovendo per forza perdere più che vincere, sarai la  malinconia in persona e a zonzo per i tribunali”.

Nato a Forlì il 27 giugno 1874 e morto a Lodi il 15 agosto 1943, Genuzio Bentini fu uno dei principali avvocati del suo tempo.

Unitamente alla carriera forense, fu un importante esponente del socialismo romagnolo, venendo anche eletto alla Camera dei Deputati nel 1904 per il Partito Socialista.

Con l’avvento al potere del fascismo, fu costretto a trasferirsi da Bologna a Milano. Più volte minacciato, si astenne dall’attività politica dedicandosi alla professione di penalista.

Famoso per la sua strepitosa eloquenza (Alfredo De Marsico definiva le sue arringhe “opere d’arte”, con le quali “esprime tutto, senza dir tutto”), le sue difese erano sempre dense di umanità. Le sue arringhe avanti le Corti di Assise erano lineari, ordinate, e sempre organiche, con un disegno strategico e senza mai digressioni.

Genuzio Bentini è stato uno dei primi avvocati a rompere con gli schemi retorici nello stile dell’oratoria forense. 

L’avvocato romagnolo già nel 1927 aveva testimoniato questo  mutamento nello stile dell’oratoria forense: 

L’eloquenza, la parola che dice un uomo per conto di un altro, il mandato di un  interesse, di una ragione, di un sentimento, pesano oramai come un indugio o un  perditempo. Si vuole che la parola corra dietro ai fatti, per la via più corta.

Avvocato,  la prego!…dice il Presidente.

Di che cosa? Di essere chiaro, esatto, riguardoso? No,  di essere breve.

La parola ha da avere il singhiozzo della fretta, il palpito nervoso  dell’affaccendamento che tutti afferra e travolge.

Preparatevi a fare un esordio o una  perorazione dinanzi al tribunale di una grande città.

Voi leggerete negli occhi dei  giudici un supplice grido: Deh! Non lo fate! E l’eloquenza ripiega l’ala e si trascina.  Perché è una forma d’arte, che ha bisogno del suo tempo per la elaborazione e la  estrinsecazione, che ha le sue leggi e i suoi precetti, le sue foggie e i suoi modelli.  Più della sintesi non può dare ai tempi e alla loro costrizione, perché oltre la sintesi  c’è il balbettamento” .

Bentini era dotato anche di una straordinaria preparazione giuridica, intesa non come fine a se stessa ma al servizio della difesa dell’assistito. Celebre un episodio avvenuto avanti la Corte di Assise di Ravenna.

Il difensore intervenuto prima di lui aveva citato a memoria uno scritto di Vincenzo Manzini, e prendendo la parola Bentini (con un certo sarcasmo) replicò: “Manzini, Manzini, Manzini! E avanti con Manzini, e dagli con Manzini! Io non posso mettere piede in un’aula senza udire il suo nome. Ma sì, è un bravo uomo, un grande uomo ma, per carità, non ne fate la “scatola Cirio” della dottrina e della giurisprudenza!”.

Alla grande preparazione giuridica coniugava una grande empatia e carica umana.

Genuzio Bentini sosteneva che “una causa può difendersi per mille punti ma è un punto che vive e che pulsa. È quello che bisogna sviluppare e dilatare. Chi cerca la vita corre al cuore”.

Come detto, egli assunse la difesa in innumerevoli processi penali di particolare interesse. Viene qui ricordato il processo per l’omicidio di Battista Emaldi (sindaco di Fusignano, assassinato per mano di due squadristi nel 1923), ove Bentini difese la famiglia Emaldi, costituita parte civile. Si riporta la prima parte della sua arringa conclusiva:

Signori, io parlo in nome di un uomo che è stato ucciso barbaramente, senza colpa, a 44 anni, parlo in nome di una vedova e di orfani che precipitarono in un attimo dalla gioia nella sventura e dalla agiatezza nel bisogno di tutto, del pane, dell’amore e nel consiglio. Ne rappresento, sì o no, del danno e del dolore, in questa causa? Ebbene, in nome del danno e del dolore avrei ragione di chiedervi un verdetto di esemplare condanna; ma io ascolto in quest’ora più la voce della giustizia che le voci che sanno di pianto o di rampogna. Io vi chiedo più di quello che darei io, se fossi al vostro posto”. *

*Laura Orlandini, Battista Emaldi: l’assassinio di un sindaco, ed. La Mandragora 2019.