“Avvocato, non rischio nulla, me lo ha detto ChatGPT” (di Riccardo Radi)

Come ognuno sa, la vita dell’avvocato è una successione di anni vissuti pericolosamente.

Se è un penalista, peggio si sente, non essendo, questi, anni in cui, diciamo così, la voce della difesa è venerata e vezzeggiata.

Tra le tante sfide giornaliere ce ne è una che spicca per insidiosità ed effetti letali.

Si manifesta attraverso due particolari esemplari umani, il cliente che va via (ed è un colpo al cuore, soprattutto se pagante) o, peggio ancora, il cliente che dà segni di stanchezza e lancia segnali di un possibile abbandono (ed è una lancia che trafigge il costato, soprattutto se deve ancora pagare).

Perché una cosa è chiara: l’avvocato penalista campa per poter pronunciare in un’aula giudiziaria (con la giusta gravità e un compiacimento appena accennato e la gravità è più grave e il compiacimento è più compiaciuto se il cliente è l’ENI) le fatidiche parole “il mio assistito” o per scriverle in un’istanza; se le pronuncia o le scrive vuol dire che l’avvocato c’è, che tra le tre opzioni della triade pirandelliana il “nessuno” non lo riguarda e può liberamente spaziare tra uno e centomila.

Ma il cliente è mobile qual piuma al vento e la sua mobilità può dipendere da una miriade di fattori.

Basta che abbia una figlia iscritta a giurisprudenza (anche il primo anno, anche se ancora alle prese con istituzioni di diritto romano) o un cugino navigato per via di vari precedenti penali (“Stamme a sentì, non ce provà mai a fà l’abbreviato, rischi de pigliarlo in quel posto”) o un bottegaio che ha seguito tutte le puntate di “Un giorno in pretura” (“O so io, o so, er piattino che te preparano appena metti piede in quelle stanze”).

Questo fino a ieri.

Oggi, a quei rischi, tutti letali, si è aggiunta la famigerata ChatGPT.

E passo a spiegarmi.

Qualche sera fa stavo raccogliendo le ultime carte sulla scrivania  quando ha squillato il telefono.

Ero tentato di non rispondere dopo una giornata faticosa tra udienze e stesura degli atti ma il senso del dovere ha prevalso: “Pronto chi parla? “.

Dall’altra parte della linea una voce allegra mi annuncia con molta enfasi “Avvocato sono G… mi sento molto più tranquillo per il mio processo della prossima settimana, perché non rischio nulla o meglio rischio molto poco, me lo ha detto ChatGPT”.

Rimango silente un paio di secondi, dopo aver elaborato il sotto testo non detto “Caro avvocato la ChatGPT ti ha sostituito”, e rispondo “Molto bene sono contento di sentirla più serena, allora in udienza potrà mandare la ChatGPT”.

Questa volta in silenzio rimane l’interlocutore che, dopo aver tossito, esclama ” Ma che dice avvocato, chi mai potrà sostituire la sua professionalità e il suo intuito, dicevo tanto per dire”.

Non è vero, non mi è capitato, non ancora, ma potrebbe succedere.

Siamo passati dall’amico dell’amico mi ha detto alla ChatGPT ha detto.

L’uso superficiale dell’intelligenza artificiale e quell’idea distorta che possa sostituire l’uomo in tutto per tutto riuscirà a fare breccia anche nella nostra professione?

Una ultima considerazione a proposito dell’uso della ChatGPT nella stesura di atti legali o pareri giuridici. Da quanto leggo sono tanti che si servono dell’intelligenza artificiale per agevolarsi il lavoro di redazione di atti. Nulla da dire in proposito ma riflettiamo sulle modalità dell’utilizzo perché leggendo il nostro codice deontologico  intravedo dei profili di responsabilità professionale qualora l’uso sia generalizzato e senza le dovute verifiche e approfondimenti che solo l’esperienza accumulata dall’uomo può apportare.