Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 23556/2023, camera di consiglio del 30 marzo 2023, ricorda l’obbligo della magistratura di sorveglianza di una valutazione individualizzata del percorso inframurario del detenuto.
La vicenda giudiziaria e i motivi di ricorso per cassazione
Il magistrato di sorveglianza ha rigettato la richiesta di permesso premio ai sensi dell’art. 30-ter, Ord. pen.,presentata da un detenuto.
La decisione negativa è stata fondata, in primo luogo, sulla natura ostativa dei reati commessi dal condannato (concorso nella commissione di tre omicidi; violazione della legge sulle armi e ricettazione delle stesse).
I reati in questione risultavano peraltro commessi in un contesto di criminalità organizzata di tipo mafiosa sicché ne è derivata l’applicazione del regime detentivo differenziato ex art. 4-bis, comma 1, Ord. pen.
Il magistrato di sorveglianza ha peraltro valorizzato in negativo l’assenza di prove circa il superamento della presunzione di pericolosità dell’istante, oltre che della carenza di una qualsivoglia revisione critica circa il suoi trascorsi delinquenziali, data la sua persistente professione di innocenza.
Ha preso infine in considerazione, ma senza attribuirle portata decisiva, la regolarità della condotta inframuraria serbata dal detenuto.
Il tribunale di sorveglianza ha rigettato il reclamo dell’interessato, condividendo le valutazioni del magistrato di sorveglianza ed osservando che la laurea conseguita dall’istante durante la detenzione, neanch’essa decisiva, gli ha comunque fruttato il beneficio della liberazione anticipata.
Il tribunale osserva conclusivamente che è giusto garantire al detenuto il diritto sia al silenzio che alla speranza ma è altrettanto giusto che sopporti le conseguenze negative se rifiuta di riconoscere la correttezza della decisione di condanna.
I motivi di ricorso per cassazione
Il difensore del detenuto ha dedotto un unico motivo, denunciano la violazione e l’erronea applicazione dell’art. 30-ter citato, in relazione all’art. 27, comma 3, Cost., nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.
Ha evidenziato che il ricorrente ha seguito un encomiabile percorso detentivo a fronte del quale il tribunale avrebbe dovuto motivare in ordine alla ritenuta inadeguatezza della personale maturazione del soggetto, rispetto alla concessione.
Ha ulteriormente messo in evidenza che il ricorrente è impegnato in varie attività, ha conseguito la laurea in giurisprudenza ed ha ricevuto un encomio per via del particolare impegno dimostrato nello svolgimento del lavoro di scrivano.
Ha infine ricordato l’assenza di informazioni inerenti alla permanenza di collegamenti del soggetto con ambienti malavitosi, oltre che relative al pericolo di ripristino di tali rapporti.
La decisione della Corte di cassazione
Il collegio ha inteso in premessa chiarire che, secondo un principio giurisprudenziale ben consolidato, il giudice di sorveglianza, al fine di verificare la concedibilità dei permessi premio ex art. 30-ter Ord. pen. a detenuti per delitti ostativi cd. di prima fascia, in carenza di una loro collaborazione con la giustizia, allorquando gli elementi acquisiti agli atti portino ad escludere tanto l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata quanto un pericolo che tali legami vengano ripristinati, è tenuto – stando alle linee interpretative dettate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019 – a compiere un esame in concreto di elementi di fatto “individualizzanti”, circa il percorso rieducativo compiuto dal detenuto. Elementi dai quali si possa desumere, quindi, non un’emenda intima, personale ed umana del vissuto delinquenziale del condannato, bensì la attuale propensione a recidere i collegamenti criminali mafiosi ed a non ripristinarli in seguito, secondo una ottica rieducativa e di recupero del soggetto, verificata grazie ad un complessivo esame della sua condotta (Sez. 5, n. 19536 del 28/02/2022, Rv. 283096 – 01).
…Il richiamo della giurisprudenza costituzionale
Ancora, il collegio ha richiamato il dispositivo della citata sentenza n. 253 del giudice delle leggi con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti ed ha dichiarato, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
È chiaro quindi per i giudici di legittimità che, nella visione della Consulta, la situazione del detenuto per reati di cui all’art. 4-bis comma 1, Ord. pen., che non abbia intrapreso un percorso di collaborazione, è oggetto – in tema di fruizione del permesso premio – di una presunzione relativa di perdurante pericolosità, atta a cagionare un aggravio in termini di distribuzione degli oneri dimostrativi, secondo il normale meccanismo delle presunzioni semplici (che sono quindi passibili di superamento, in forza dell’acquisizione di prova contraria). L’accoglimento della domanda deve sottostare, pertanto, alla avvenuta acquisizione di elementi capaci di escludere tanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, quanto il pericolo che questi legami possano essere riannodati.
…I profili di prova
La giurisprudenza di legittimità (v. Sez. 1^, n. 5553 del 28.1.2020, rv 279783), ha già precisato trattarsi di profili di prova fra loro ben differenziati.
Sul primo versante si colloca la tradizionale prova circa il venir meno di contatti perduranti (un eventuale collegamento integrerebbe, al contrario, la concreta condizione ostativa) tra il detenuto e il contesto associativo di provenienza.
Ulteriore aspetto della suddetta prova è quello attinente alla esigenza di prova negativa in ordine al pericolo della ripresa dei collegamenti, che potrebbe risultare favorito dalla concessione del permesso.
La giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, 14/07/2021, n. 33743 del 14/07/2021, Rv. 281764 – in materia di possibilità di concedere permessi premio a soggetto condannato per delitti ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen.) ha precisato l’illegittimità della decisione del giudice di sorveglianza, che dichiari l’inammissibilità della relativa richiesta, per difetto di specifica allegazione di elementi di prova, evocativi della sussistenza dei requisiti in forza dei quali – all’indomani della succitata sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019 – può essere accordato il beneficio (vale a dire, l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino), essendo a tal fine sufficiente l’allegazione di elementi fattuali che, anche solo in chiave logica, siano idonei a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità sancita dalla legge.
In tale contesto si innesta il nuovo testo dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen., come modificato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 e dal d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199, secondo il quale: «1-bis. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter, ai detenuti e agli internati per delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 416-ter del codice penale, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, per i delitti di cui all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e per i delitti di cui all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefìci, il giudice accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa».
…Inadeguatezza della valutazione compiuta dal tribunale di sorveglianza
Pare al collegio che la decisione adottata dal tribunale di sorveglianza non faccia buon governo di tali principi e che il relativo provvedimento non sia adeguatamente motivato, in ordine agli aspetti di maggior rilievo della vicenda.
…Peso decisivo attribuito alla mancata ammissione di colpevolezza
Il tribunale valorizza infatti – in via prevalente, se non esclusiva – la mancata assunzione di responsabilità, da parte del relativamente ai gravissimi fatti commessi.
Questi, ad onta della definitività della condanna a suo carico per fatti particolarmente efferati, oltre che pacificamente maturati in contesto di criminalità organizzata, continua imperterrito, infatti, a trincerarsi dietro l’usbergo di una ostinata negazione degli addebiti.
Osserva allora il tribunale come tale condotta, intrinsecamente del tutto legittima, comporti anche il totale rigetto – da parte del ricorrente – dell’onere probatorio inerente sia alla fattuale recisione dei contatti con gli ambienti malavitosi di provenienza, sia alla prognosi circa il pericolo di nuova ripresa di tali collegamenti, correlati alla eventuale concessione del permesso ed al consequenziale riavvicinamento personale e familiare.
La mancata allegazione o deduzione – ma anche la carenza di qualsivoglia prova logica – in ordine alla elisione di contatti del genere, oltre che al pericolo di nuova tessitura delle precedenti trame criminali, ha condotto il tribunale a reputare il non meritevole dell’auspicato permesso.
Trattasi di argomentazioni che, come sopra detto, rappresentano in sostanza l’architrave del provvedimento impugnato, che però manca di confrontarsi con le ulteriori deduzioni difensive, attinenti alla condotta tenuta dal soggetto durante il periodo di detenzione.
…Inadeguata valutazione della condotta inframuraria
Fondamentale, in ordine al presente thema decidendum, è infatti l’aspetto – impropriamente svilito, con motivazione che appare non coerente, né esaustiva – attinente all’avere il condannato tenuto costantemente una commendevole condotta inframuraria.
Sul punto specifico, nell’impugnato provvedimento ci si limita ad affermare la insussistenza di uno stretto parallelismo fra la tenuta di una regolare condotta in ambiente carcerario ed il positivo cambiamento personale.
Il tribunale di sorveglianza non ha dato conto, però, di aver effettuato un concreto bilanciamento fra gli elementi connotanti la caratura criminale dei fatti commessi ed il percorso rieducativo portato avanti.
Una comparazione che, invece, è specificamente chiamato a compiere il giudice di sorveglianza. La funzione della magistratura di sorveglianza, in caso contrario, risulterebbe svilita alla semplice opera di constatazione, in ordine alla oggettiva gravità dei delitti perpetrati dal condannato. Tale impostazione, dunque, vanificherebbe qualsivoglia aspirazione al recupero personale riconoscibile in capo al detenuto, laddove tale aspirazione non fosse correlata alla collaborazione dichiarativa con le istituzioni.
…Mancata valorizzazione del principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena
Siffatta lettura delle norme si porrebbe, peraltro, in aperto conflitto con gli scopi rieducativi, ai quali è indirizzato ogni genere di sanzione conforme ai principi costituzionali.
Il provvedimento impugnato si dilunga nell’imprimere uno stigma alla scelta di non collaborazione ed alla gravità dei delitti commessi; finisce però – nonostante dia atto di un percorso intramurario ineccepibile del condannato, immune da rilievi e improntato alla partecipazione al trattamento, alla formazione didattica ed alla disponibilità all’attività lavorativa – per orientare la decisione negativa sul binario della valutazione, soggettivistica e morale, di inidoneità di tali aspetti positivi della personalità del ricorrente, rispetto all’entità del vissuto delinquenziale.
Se tale fosse la ratio della norma, risulterebbe impossibile assicurare un percorso rieducativo efficace, mediante l’adozione dei benefici carcerari: la gravità dei reati commessi, infatti, finirebbe per inibire in radice la praticabilità di un bilanciamento in senso favorevole tra le sopra dette opposte esigenze di difesa sociale e di rieducazione. E ciò, nonostante si sia dato atto, nel caso di specie, del percorso rieducativo molto positivo compiuto dal condannato.
Lo stesso epilogo dell’ordinanza impugnata è plasticamente evocativo della erronea visuale, entro cui si è posto il tribunale. Scrivono i giudici di sorveglianza, infatti, che il soggetto “sembra vivere in una sorta di realtà parallela, a tratti favolistica”, che “invoca il suo diritto al silenzio e alla speranza” e che, essendogli tali diritti garantiti, egli deve però “anche assumersi le conseguenze dell’esercizio di tali diritti”. Ma tali considerazioni presentano scarsa rilevanza, sotto il profilo decisionale, rispetto all’esigenza, già ripetutamente indicata dalla giurisprudenza di legittimità, di acquisire e valutare ogni dato che si presenti specifico e concreto e che possa rivelarsi di univoca significazione, nel senso dell’essersi il soggetto definitivamente incamminato verso un percorso di recupero.
In questa prospettiva, pare incongruo procedere ad un sostanziale svilimento dei pur enucleati indici positivi (in primis, il commendevole percorso di studio in ambiente detentivo), attribuendo sostanzialmente importanza al solo vissuto criminale.
…Valutazioni conclusive
Per concludere, il collegio è ben conscio dell’esistenza di una sottilissima linea di demarcazione che – in presenza di condannati per reati gravissimi – divide le valutazioni attinenti alla pericolosità sociale da quelle caratterizzate dalla mera condanna morale per i gravi fatti posti in essere.
Deve essere sempre immanente al giudizio demandato al giudice di sorveglianza, però, la necessità di effettuare una completa valutazione degli elementi di fatto “individualizzanti”, che connotano il percorso carcerario del soggetto, onde verificare compiutamente se essi assumano – o meno – una univoca significazione di segno favorevole.
Valutazione in senso positivo che non necessariamente deve coincidere con il rinvenimento di una intima e personalissima emenda da parte del condannato, dovendosi riscontrare, invece, la propensione di questi a recidere i collegamenti criminali e a non riannodarli, in una ottica dinamica di rieducazione, parametrata all’insieme complessivo degli elementi emersi e condotta attraverso un esame – ad ampio raggio – dei comportamenti serbati (si vedano anche i principi di diritto espressi da Sez. 5, n. 19536 del 28/02/2022, Rv. 283096).
