Ho letto con grande piacere Situazioni soggettive, un saggio di Cristiana Valentini sulla prima monografia di Franco Cordero, intitolata appunto Le situazioni soggettive nel processo penale.
Il lavoro della Valentini, destinato a far parte del volume Corderiana. Sulle orme di un maestro del rito penale, a cura di Catalano e Ferrua, è stato pubblicato da Archivio Penale il 26 maggio 2023 all’interno del fascicolo n. 2/2023 della rivista ed è scaricabile a questo link.
La monografia che ne costituisce l’oggetto, pubblicata nel 1956 da Giappichelli, è stata ristampata dallo stesso editore nel 2022 con la prefazione di Paolo Ferrua.
Leggere il saggio equivale a viaggiare a ritroso nel tempo sulle orme di un autentico maestro del diritto per poi tornare al presente con la consapevolezza dell’attualità del suo pensiero e del bisogno di recuperarlo e lasciarsene influenzare.
Ecco quel che ho ricavato da questo viaggio, scandito in piccoli paragrafi.
Riporto in corsivo i passaggi tratti testualmente dallo scritto della Valentini e dalle opere degli Autori citati nel suo lavoro. I neretti sono miei.
La ribellione alle teorie di James Goldschmidt
Nel 1925 il giurista tedesco pubblicò a Berlino Il processo come situazione giuridica. Una critica del pensiero processuale.
Lasciamo chiarire a lui stesso, traendole dalla sua prefazione all’opera. le ragioni del suo lavoro:
“Ho sentito crescere in me le idee che stanno alla base di questo lavoro sin da quando iniziai ad occuparmi di diritto processuale, ma è stato solo lo scoppio della guerra che mi ha spinto prepotentemente a dare ad esse forma. Infatti, solo allora, per me, è stato giocoforza prendere coscienza di un fatto che non si può più sottacere: i nostri diritti, anche quelli inviolabili, altro non sono che aspettative, possibilità e oneri. Del resto, lo stesso esito della guerra sta a dimostrare come qualsiasi diritto risulti vanificato se non si sappiano sfruttare le possibilità che si presentano o non si soddisfino gli oneri a tal fine necessari. Così, impercettibilmente, la mia “critica del pensiero processuale” s’è trasformata in una critica del pensiero politico. Pur con la presenza dello stato o della Società delle Nazioni, della giurisdizione statale o di quella arbitrale, qualsivoglia diritto – e così, anche il diritto proprio di ciascun soggetto – non è che un condensato di possibilità e oneri in lotta per quello che, alla fine, s’imporrà come diritto: questo vale sia per il singolo sia per il popolo“.
Contro questa concezione si scagliò duramente due anni più tardi Piero Calamandrei:
“La impressione più viva che si ha leggendo il libro del G. è che egli guardi il processo non quale dovrebbe essere secondo il diritto processuale, ma quale esso, indipendentemente e fuori dal diritto, si riduce ad essere nella realtà pratica, in conseguenza delle manchevolezze del giudice che non sa o non vuole decidere secondo il diritto, e della maggiore o minore destrezza con cui le parti riescono a profittar delle circostanze e a sfruttare a loro vantaggio gli istituti giudiziari che per definizione dovrebbero servire soltanto alla giustizia…Orbene, questa concezione, che possiamo chiamare realistica, del processo, potrà anche in qualche caso (e nessuno lo sa meglio di chi guarda il processo con occhi di avvocato) esser la vera; ma ci domandiamo se questo modo di considerare il processo, sotto un aspetto diciamo così metagiuridico, sia quello meglio appropriato per costruire una teoria giuridica del processo“.
Quasi un quarto di secolo dopo, quando la seconda guerra mondiale e i totalitarismi che l’avevano preceduta e propiziata si erano manifestati in tutto il loro orrore, Calamandrei corresse decisamente la rotta:
“forse la perdurante vitalità della sua opera di scienziato deriva anche da una specie di presaga angoscia, che oggi, attraverso le prove di questi venti anni, ci sembra di scoprire circolante al disotto di essa e appena affiorante qua e là: quasi un ansito vissuto e sofferto, che dà a queste pagine, quantunque di contenuto rigorosamente scientifico, la gravità di un sottinteso ammonimento convalidato dall’esperienza“; e dunque, l’unico vero banco di prova è la “sentenza che dal giudice si attende“, condizione, questa, che “porta in tutti i rapporti giuridici una fondamentale incertezza, la quale ha la sua origine non solo nella libertà del potere discrezionale del giudice, ma altresì nel soggettivismo della sua concezione dei fatti e del diritto“.
Il che è come dire – osserva la Valentini – che “la dura materialità di quei vent’anni trascorsi tra uno scritto e l’altro aveva insegnato a Calamandrei che un diritto esiste solo se ed in quanto il Giudice dichiari che quel diritto esiste“.
Cordero – ricorda ancora la Valentini – “respinge la costruzione di Goldschmidt esattamente come aveva fatto il giovane Calamandrei” e dà vita alla sua monografia allo scopo di “costruire un ordine concettuale che tenesse conto della magmatica realtà implicita nel processo visto come situazione giuridica, cercando di domarla e di cancellare così il timore che tutti i diritti «anche quelli inviolabili, altro non [divengano] che aspettative, possibilità e oneri»“.
I doveri
Per Cordero – constata la Valentini – “nel processo gli unici titolari di posizioni di dovere sono gli organi pubblici e quando si giunga all’ulteriore conclusione dell’autore secondo cui «per quanto specificamente riguarda il processo penale, appare difficile individuare un solo comportamento, normativamente ipotizzato, del giudice o del pubblico ministero, che non assurga ad oggetto di una situazione di dovere»“… “si comprende bene come porre sotto la luce dei riflettori anzitutto la figura del dovere significa porre in essere una fondamentale actio finium regundorum dei rapporti tra autorità e individuo nel processo penale. Cordero ci pone, insomma, come prima cosa dinanzi ad un autentico rovesciamento di prospettiva rispetto alla visione tradizionale che ammantava (e ammanta) gli organi pubblici nell’aura suggestiva del “potere”, tanto suggestiva da coprire quasi e rendere rarefatta l’idea che dietro il potere abitassero anche precisi doveri“.
Ed ancora: “il fenomeno del dovere dev’essere ravvisato in questo nucleo essenziale: «un certo soggetto “deve” comportarsi in un dato modo, predeterminato dal modello contenuto nella parte descrittiva della regola, per meritare una valutazione positiva della sua condotta»; “in questa prospettiva esula completamente dalla sfera definitoria del concetto di dovere il suo essere accompagnato da una sanzione, di qualsivoglia genere“; “Cordero boccia come una «trasposizione in termini di psicologia», le teorie sanzionatorie, evidenziando gli estremi cui esse conducono: «l’adozione della premessa su cui si regge la concezione sanzionatoria del diritto conduce ad esempio a ritenere che determinati precetti costituzionali si esauriscano in una semplice promessa solenne». La c.d. necessità di una reazione dell’ordinamento è insomma una superfetazione che conduce a conclusioni inammissibili“.
Ed infine: “Chiaro no, dove conduce il pensiero di Cordero nello specifico contesto del sistema penale? Sfoltito di ogni accessorio superfluo –in particolare, la c.d. reazione dell’ordinamento rispetto al comportamento difforme dal modello- la posizione di dovere si staglia nettissima nella costellazione delle situazioni soggettive: dovere significa valutazione positiva della condotta conforme al modello e valutazione negativa della condotta difforme; il giudice che non si astiene dal condannare per il fatto non contestato, che condanna l’imputato per un fatto non previsto come reato, il pubblico ministero che non ottemperi al suo dovere istruttorio o che non eserciti l’azione penale nei casi dovuti, violano tutti precisi doveri stagliati dalla legge processuale, seppure, per avventura, non esistesse sanzione alcuna per le loro condotte. Un richiamo fortissimo, anzitutto etico, alla sostanza doverosa che connota le fattispecie di condotta degli organi pubblici nel procedimento penale“.
Non esiste un diritto di chiedere al quale non corrisponda un dovere di rispondere con una decisione motivata
“Si legga cosa scrive Cordero, partendo dalla critica all’idea che esistano nel processo «atti neutri, che si fondano su un diritto di chiedere, ma non di ottenere», come le conclusioni delle parti. Questi presunti atti neutri –obietta Cordero- sono in realtà veri e propri poteri delle parti, provvisti dell’effetto peculiare di costruire i confini del dovere decisorio e motivazionale del giudice, dimodoché «la decisione, si modelli secondo lo schema logico prospettato dalle parti o ne diverga, deve in ogni caso contenere una presa di posizione dialetticamente plausibile nei confronti del petitum proposto, delle ragioni addotte ovvero dei mezzi di prova di cui si chiede l’assunzione». Le conclusioni, insomma, «segnano un preciso termine di paragone all’attività decisoria giudiziale». In poche righe, Cordero anticipa qui temi archetipici del fair trial, ma soprattutto –come si accennava- sottolinea plasticamente lo stretto legame che intercorre tra i poteri processuali delle parti e i doveri decisori del giudice, per cui Cordero traccia anche un’etichetta appropriata, quella del «dovere di prendere in considerazione l’attività assertiva delle parti», che sorge e si commisura alla forma concretamente assunta dall’esercizio di questi peculiari poteri delle parti medesime“.
Attualità del pensiero di Cordero
…Gli inesausti balletti interpretativi della giurisprudenza
“Quel potentissimo richiamo all’idea che per il giudice e per il pubblico ministero i doveri siano regole di condotta comunque ineludibili, mantiene una sua inesausta attualità; anzi, appare particolarmente proficua in questi torbidi tempi presenti. La frase per cui «il dovere del giudice di applicare correttamente le norme di diritto sostanziale è tale anche se il comportamento divergente dall’ipotesi normativa non funziona da presupposto di conseguenze sanzionatorie ed anche se è a priori esclusa la possibilità di un’impugnazione della pronunzia, come ad esempio avviene per le decisioni di cassazione», è illuminante nella sua drastica semplicità e scaraventa il processo al di fuori degli inesausti balletti interpretativi con cui la giurisprudenza troppo spesso affligge gli utenti“.
…e le tante colpe del legislatore contemporaneo
“La realtà, però –lo si notava già all’inizio di questo scritto- preme alle porte del pensiero corderiano e l’intrusione del “pensiero politico” nella dogmatica scorre sottile, ma limpida, anche attraverso la prima opera, sicché è ben leggibile il filo diretto che collega quella originaria messe di pensieri ai pensieri espressi, ad esempio, nella suggestiva “Guida alla procedura penale” di trent’anni dopo, datata 1986. Si pensi a quando, proprio in quest’ultimo volume, Cordero indulge ad una valutazione della qualità media della giurisprudenza su temi di procedura penale, pungendo elegantemente chi opera permettendo che «nella scala tecnica del discorso giurisprudenziale», la procedura sia collocata all’ultimo posto, perché «il tasso di fallibilità vi tocca soglie allarmanti», e poi precisa: «stiamo parlando della cassazione: ad esempio cavilla in claris, noncurante dei canoni elementari, confonde ‘facoltativo’ e ‘discrezionale’, postulando giudici sovrani»; o a quando censura il legislatore dell’ultimo Codice Rocco, reo di aver abdicato a favore di chi la legge dovrebbe limitarsi ad applicarla, concedendo una «discrezionalità dai canoni vaghi», in base alla quale «sulle stesse prove l’imputato va all’ergastolo o esce quasi indenne». Ecco, le parole di Cordero potrebbero adoperarsi tal quali con riferimento al sistema penale odierno; la pulizia concettuale e linguistica che emergeva potente dalla costruzione delle “Situazioni soggettive” era ignorata nei tardi anni ’80, da parte del legislatore come da tanti prodotti giurisprudenziali, e la sua costruzione concettuale continua ad essere ignorata in questi anni di interregno del Codice Vassalli, che ci stanno traghettando verso un tipo di processo con fattezze impossibili da prevedere. Diremmo, anzi, che l’opera congiunta del legislatore e di molteplici pronunzie giurisprudenziali sta plasmando un tipo di sistema processuale al cui interno le figure dei poteri e dei doveri sono sempre più confuse tanto nel linguaggio quanto nella concettualizzazione sottostante. La mano e l’intento del legislatore in questo senso sono evidentissime: tanto la Riforma Orlando, del 2017, quanto e ancor più la Riforma Cartabia oggi, mostrano segni limpidi dell’intento legislativo di iscrivere in capo alle parti poteri che non sono realmente tali, secondo la pulita logica corderiana, in quanto ineffettivi, incapaci d’incidere sulla vicenda processuale; al contempo cedendo spazi sempre più ampi di discrezionalità al potere giurisdizionale, tramite prodotti legislativi dove la fattispecie è costruita su termini di relazione privi del necessario riferimento, «narrative che possono essere completate solo dall’invenzione del lettore, al quale il testo normativo non fornisce sufficienti elementi per una interpretazione sicura»; fattispecie che costituiscono – come è stato elegantemente detto- una chiave di vetro, che non serve allo scopo per cui in teoria dovrebbe essere forgiata, perchè va in frantumi al primo tentativo d’uso. Si tratta di un fenomeno evidentemente noto e ben studiato per le fattispecie sostanziali, ma anche per quelle processuali; una deriva inarrestabile verso tecniche di normazione che paiono apparentemente inconsapevoli delle regole che presiedono al drafting, apparentemente ignare di decenni di ammonimenti dottrinali; indimenticabili, del resto, le pagine scritte sul punto da Ferrajoli, con riferimento ad entrambe le tipologie di fattispecie. Facciamo un ragionamento, allora, e chiediamoci: supponendo ragionevolmente che il legislatore non possa essere davvero ignaro delle suddette regole, perché si prosegue ormai da anni sulla strada letteralmente autodistruttiva della costruzione di disposti comunque rarefatti a livello denotativo e sempre meno adatti a costituire fattispecie di doveri vincolati? Si tratta -lo ammetto- di un interrogativo che ha in verità un carattere propriamente sociologico, se è vero che questa scienza ha come proprio obiettivo originario quello della comprensione di fenomeni sociali di carattere enigmatico. Il che’ non rende affatto l’interrogativo medesimo meno importante per il giurista, quanto meno laddove esso intenda (anche) proporsi in funzione proattiva. Interrogativo tanto più logico, poi, laddove si consideri giustappunto la natura autodistruttiva di queste scelte del legislatore, perché –come attesta una messe di studi ormai sterminata- essa porta con sé a diminuire in termini drastici la sfera d’azione del potere legislativo, sempre più spesso ceduta al potere giurisdizionale, in dimensioni tali da rendere ormai fattualmente alterato l’equilibrio tra poteri dello Stato.
Quella del legislatore è poi, diremmo visivamente, una scelta assolutamente consapevole, un’opzione drastica a favore del modello ben descritto da Cordero, col noto rovesciamento della formula kelseniana che si risolve nella “indeterminatezza intenzionale della fattispecie”. E non solo: a questo fenomeno, che conduce il legislatore ad affidarsi in misura crescente al potere discrezionale degli organi applicatori del diritto, evitando le fattispecie vincolate e prediligendo quelle intenzionalmente indeterminate, fa da controcanto la scelta di un linguaggio sempre ambiguo o plurivoco, così sommando all’indeterminatezza tipica (strutturale) dovuta alla scelta di affidare al giudice il completamento della fattispecie, l’indeterminatezza (ermeneutica) tipica dei termini vaghi; sommando, insomma, indeterminatezza ad indeterminatezza, in un vero e proprio crescendo di fuga dalla (stretta?) legalità, di cui, in ultima analisi, lo stesso potere giudiziario finisce per dolersi, per l’ormai drastico snaturamento della propria funzione cui è comunque costretto.
Per finire
Cristiana Valentini chiude così il suo bel lavoro: “Il Cordero delle “Situazioni soggettive” è attualissimo, se ci pensiamo bene“.
Penso che abbia ragione da vendere.
Su quasi tutto, non tutto: mi viene difficile pensare a un ordine giudiziario dolente per lo sterminato potere lasciatogli da un legislatore che abdica alla sua funzione; penso piuttosto che non solo si sia assuefatto a questo straripamento senza limiti ma lo consideri ormai connaturale a se stesso ed alla sua ragion d’essere.
