Oggi parliamo dell’ultimo capitolo di una storia giudiziaria e disciplinare.
Riguarda due magistrati del pubblico ministero che sono stati condannati in via definita per il reato di tentata violenza privata (uno a sei mesi di reclusione e l’altro a quattro) e subito dopo sottoposti alla sanzione disciplinare della sospensione dalle funzioni (uno per due anni, l’altro per nove mesi) oltre che trasferiti di sede e destinati alla funzione di giudici civili.
L’ultima decisione che li ha riguardati è la sentenza n. 20365/2023 della quinta sezione penale della Suprema Corte, depositata un paio di settimane fa.
La condotta contestata ai due magistrati era di avere esercitato pressioni e minacce nei confronti di persone identificate come parti offese in un procedimento penale e quindi convocate per rendere sommarie informazioni testimoniali.
Durante l’audizione di costoro i due inquirenti hanno fatto più volte riferimento alla bella vista che si gode dal carcere locale e alle arance che avrebbero ricevuto gli interrogati in quanto suoi ospiti.
La Cassazione ha ritenuto che tali espedienti equivalgano alla prospettazione di un male ingiusto e siano di per se stessi idonei ad annullare o quantomeno diminuire la capacità di autodeterminazione dei soggetti passivi.
Ha considerato inoltre privi di pregio gli argomenti difensivi che tendevano a degradare la condotta contestata come una sorta di bluff tattico o stress test.
Questa è la storia nella sua consistenza fattuale e giudiziaria.
Non sappiamo quale spirito abbia animato i due pubblici ministeri e di quali convinzioni fosse il frutto.
Non sappiamo neanche se le modalità di ascolto delle persone informate messe in luce dall’inchiesta penale fossero un’abitudine costante o siano state riservate a loro in esclusiva.
Qualunque ipotesi è possibile al riguardo e sarebbero sempre e solo illazioni.
Una sola cosa si può affermare con sufficiente verosimiglianza: la stagione di Mani pulite e la formidabile tracimazione dello spirito accusatorio che ne fu una delle caratteristiche identitarie più forti sono ancora tra noi.
