La cassazione sezione 6 con la sentenza numero 15423/2023 ha stabilito che la mera spendita del titolo di avvocato da parte di chi non lo possieda, non concreta la fattispecie di esercizio abusivo della professione articolo 348 c.p.
La Suprema Corte ritiene che a tal fine – nel rispetto del principio di extrema ratio penalistica – debba piuttosto richiedersi la realizzazione di un’attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato (in tal senso, Sez. 6, n. 32952 del 25/05/2017, Rv. 270853, in una fattispecie concreta di occasionale redazione di denuncia, ancorché scritta su carta intestata).
Nel caso esaminato, tuttavia, A. non si è limitata ad usare la qualifica di avvocato, posto che dalla sentenza, come pure dai medesimi ricorsi presentati si evince che la stessa ha svolto continuativamente, per nove mesi, una consulenza a favore di T. che mirava a conseguire il risarcimento in sede giudiziaria civile.
Se è così, non erra la difesa di A. quando evidenzia come non tutte le attività stragiudiziali siano dalla legge riservate agli avvocati, assistendosi peraltro – potrebbe aggiungersi – ad una sorta di flessibilizzazione degli originari comparti delle professioni, nella specie legali, e alla nascita di figure un tempo inesistenti.
Sbaglia però quando dimentica che le attività destinate a sfociare in un contenzioso giudiziario sono riservate ai soli avvocati.
È vero, infatti, che la L. 14/01 del 2014, n. 4, art. 1, nel disciplinare la “professione non organizzata in ordini o collegi”, precisa (comma 2) che per tale “si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo”. Lo stesso comma prevede, tuttavia – immediatamente di seguito e per quanto qui rileva – l’espressa “esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 del codice civile”.
Ora, premesso che nella riserva dell’art. 2229 c.c. rientra l’attività forense, la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 2, comma 6, nel disciplinarne l’esercizio, sancisce che “fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”.
Ebbene, dalla lettura della sentenza impugnata risulta appunto come A. avesse ad esempio incardinato presso la Camera di Commercio una procedura specificamente definita di “mediazione”, per legge obbligatoriamente prodromica e dunque “connessa” all’attività giurisdizionale.
Né tale dato è stato smentito, tramite contrarie e specifiche allegazioni, dalla difesa.
Risultando dunque l’attività stragiudiziale esercitata dalla ricorrente, in difetto dell’apposito titolo abilitativo, connessa a quella giudiziaria civile ed essendosi tale esercizio prolungato per un periodo apprezzabile di tempo, deve concludersi che la Corte di appello ha ritenuto in maniera corretta e con motivazione non illogica che la condotta di A. integrasse il delitto di cui all’art. 348 c.p.
Nel caso di specie e con le precisazioni svolte, va, dunque, confermato l’insegnamento della cassazione, per cui integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.) il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani, Rv. 251819).
Tale insegnamento è stato d’altronde richiamato, in tempi più recenti e con riferimento ad una vicenda analoga a quella oggetto del presente giudizio, in Sez. 2, n. 46865 del 26/09/2019, Merenda, non mass., sentenza che, nel ribadire la ratio decidendi delle Sezioni Unite, evidenzia come le connotazioni di abitualità nello svolgimento di attività pur di per sé non esclusivamente riservate ad una professione, siano comunque suscettibili di ingenerare affidamento nei terzi, mediante l’accreditamento di un apparente legittimo patrocinio, conforme ai fini di tutela degli interessi del fruitore, presidiati dai presupposti di onorabilità, competenza ed etica professionale propri dello specifico ordinamento.
