Principi e forme: sono davvero incompatibili? (Vincenzo Giglio)

Parigi, 21 gennaio 1793, ore 10:22: il cittadino Luigi Capeto, già sovrano di Francia col nome di Luigi XVI, viene ghigliottinato in Place de la Révolution, in esecuzione della sentenza di condanna a morte emessa nei suoi confronti dalla Convenzione Nazionale, l’organo eletto per formare la Costituzione della Repubblica nata dalla rivoluzione.

Nei mesi precedenti erano stati stilati vari rapporti d’accusa nei confronti del re e sulla base di questi si svolse il dibattito sulla sua sorte.

Fu probabilmente decisivo ai fini del verdetto finale il discorso tenuto da Maximilien de Robespierre, avvocato, accademico, e tra i massimi esponenti del movimento rivoluzionario.

È rimarchevole che nella sua visione la stessa idea del processo fosse sbagliata: “Non si deve fare nessun processo. Luigi non è imputato, voi non siete giudici. Voi non siete e non potete essere altro che uomini di Stato e rappresentanti della Nazione. Non dovete emanare alcuna sentenza pro o contro un uomo: da voi si attende soltanto un provvedimento di salute pubblica, un atto di carattere provvidenziale in favore della Nazione“.

Quanto alla sanzione, la convinzione di Robespierre non avrebbe potuto essere più netta: “Io pronuncio con dolore questa verità. Il cittadino Luigi Capeto deve morire perché la Patria viva“.

C’è infine un passaggio rivelatore nelle argomentazioni di Robespierre: “Invochiamo le forme perché non abbiamo principi; ci vantiamo della nostra delicatezza perché manchiamo di energia; mettiamo in mostra una falsa umanità perché non sappiamo rispettare il popolo; siamo teneri con gli oppressori perché non abbiamo cuore per gli oppressi. Il processo a Luigi XVI! Ma cos’é questo processo, se non la chiamata in appello dell’insurrezione davanti a un tribunale o ad una assemblea qualunque? Quando un re è stato annientato dal popolo, chi ha il diritto di risuscitarlo per farne un nuovo pretesto di torbidi e di ribellione? Quali altri effetti può produrre questo sistema? Aprendo una arena ai campioni di Luigi XVI, voi vivificate tutte le contese del dispotismo contro la libertà, voi consacrate il diritto di bestemmiare contro la repubblica e contro il popolo, poiché il diritto di difendere l’antico despota implica il diritto di dire tutto quanto sostiene la sua causa“.

Quello che seguì è storia.

Qui interessa quella singola espressione evidenziata in neretto: “Invochiamo le forme perché non abbiamo principi“.

È chiarissimo il sostrato ideologico di cui è il frutto: la rivoluzione repubblicana è il bene, la monarchia è il male; questa ha oppresso il popolo, quella lo ha difeso e tutelato; a una lotta così titanica si addicono non le schermaglie procedurali e la punta del fioretto ma le decisioni rapide e risolute e la ghigliottina.

Ma è davvero così?

È vero che chi ha principi non ha bisogno di forme?

O si deve piuttosto credere che sia vero il contrario, che fare a meno delle forme significa non avere principi oppure averne uno solo, cioè la volontà di affermare visioni personali senza impacci e contraddittori?

Chi guarda al diritto e alla sua declinazione contemporanea non fatica a trovare esempi attuali della tesi robespierriana.

Teorie derivate da visioni (talvolta ossessioni) personalistiche o oligarchiche elevate al rango di accuse formali, proposte allo sfinimento nelle sedi giudiziarie e ancor di più all’opinione pubblica perché se ne appropri e le trasformi in sentire comune, riproposte anche dopo la loro sconfessione che viene rappresentata non come fallimento ma come reazione conservativa di chi non vuole il bene del popolo.

Prassi interpretative che contrastano e bypassano esplicitamente istituti garantistici in nome del principio di conservazione di ciò che è stato compiuto e delle conoscenze già acquisite, sul presupposto che la verità (quale poi?) ben giustifica qualche sacrificio lungo il percorso per raggiungerla.

Criteri valutativi altrettanto esplicitamente ispirati da pre-comprensioni (id est, ciò che l’interprete ritiene di aver compreso della realtà che lo circonda) e da scopi metagiuridici (la giurisprudenza di lotta).

Possibile allora, anzi probabile, che lo spirito di Robespierre continui ad infiammare molti animi anche nel presente.

Eppure, quello che non era vero ai tempi della rivoluzione continua a non essere vero adesso: perché, come i diritti non valgono nulla se non se ne consente l’esercizio, così i principi non valgono nulla se affermati imponendo il sacrificio dei presidi formali senza i quali nulla è giusto.