Lettera al Signor Giudice di Gaetano Pecorella (di Vincenzo Giglio)

Dopo la lettera aperta inviata al Pubblico ministero e diffusa da DisCrimen (a questo link per più precisi riferimenti allo scritto e per il nostro commento), Gaetano Pecorella ha pensato di scrivere anche al Signor Giudice, questa volta su Questione Giustizia (a questo link).

Esordisce immaginandolo tornato a casa e finalmente circondato dalla quiete domestica dopo avere inflitto una condanna.

Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo ed ecco che, nella rappresentazione di Pecorella, il Signor Giudice è assalito dal dubbio, quello più classico e letterario che si associa abitualmente a chi giudica e che più facilmente evolve in tormento: e se avessi condannato un innocente?

Pecorella è un eccellente avvocato oltre che un fine giurista e queste due qualità gli consentono, addirittura gli impongono, di rendere ancora più strutturata la sua ideazione: quello del Signor Giudice non è più un dubbio/tormento semplice, come sarebbe per l’uomo comune, niente affatto; è invece il dubbio strutturato proprio del professionista del diritto che abbraccia e comprende il requisito della ragionevolezza e richiede quindi un’analisi di ciò che è ragionevole e ciò che non lo è; l’ovvia evoluzione successiva del rovello è l’identificazione del confine tra dubbio e certezza, tra dubbio e verità.

Eppure, anche un’immaginazione così colta e consapevole come quella di Pecorella deve fare i conti con la realtà.

Ecco allora che il dubbio ed il tormento tornano al mittente della lettera: può essere che il Signor Giudice si sia annoiato ad ascoltarlo mentre adempiva al suo ministero difensivo, che non sia neanche preoccupato di nascondere la noncuranza per le sue argomentazioni, che addirittura abbia fatto intendere di avere deciso prima e a prescindere da qualunque cosa potesse fare o dire il difensore?

La lettera finisce con una richiesta accorata: “Non mi deluda, signor giudice, con una sentenza dove non c’è traccia delle mie parole, della mia fatica; mi faccia sperare che la sera, nella tranquillità della sua vita privata si ponga la domanda: “E se avessi sbagliato?”. Così come il difensore non può non chiedersi: “Potevo fare di più? Potevo fare meglio? Con ossequio“.

Dà da pensare questa lettera.

Dipende probabilmente dalla sua asimmetria temporale, sospesa com’è tra le tre dimensioni con cui ognuno di noi è abituato a misurarsi (passato, presente e futuro) ed una quarta (quella dei desideri e degli universi paralleli) che altrettanto abitualmente scartiamo per il suo difetto di realtà ma che ci è comunque impossibile eliminare.

È profondamente immersa nel presente l’idea del Signor Giudice che, tornato a casa dopo l’udienza, pensa ad una condanna. È significativo questo pensiero di Pecorella che associa il giudice ad una condanna. Avrebbe potuto pensarlo in ciabatte e pigiama mentre rivive un’assoluzione eppure proprio non gli è venuto in mente. Vorrà pur dire qualcosa.

Appartengono al passato il dubbio e ancora di più la ragionevolezza applicata al dubbio. Norme, decisioni giudiziarie, dibattiti accademici, fenomenologia massmediatica, uso delle piattaforme social: ognuno di questi ambiti dimostra l’inarrestabile irrilevanza contemporanea del dubbio e la sua collocazione forzata tra le categorie di un tempo ormai passato. Lo stesso può dirsi per la ragionevolezza e, prima ancora, per la razionalità: appaiono sempre più segni di stagioni umane ormai consegnate alla storia.

Il futuro è nel timore: quello di rimanere delusi una volta di più, di dover constatare che, se oggi si sta così, domani potrebbe essere ancora peggio, con più noncuranza, più noia, più indifferenza.

La quarta dimensione, quella irreale, è nella speranza: che i semi dell’umanesimo e dell’illuminismo siano ancora tra noi, che gli uomini possano essere dei piuttosto che lupi verso i loro simili. Solo una speranza, appunto, e per giunta assai flebile, ma altro non c’è.

P.S: attendiamo adesso la terza lettera, quella al Signor Avvocato, e non vediamo l’ora di leggerla.