Riparazione dell’errore giudiziario: la pregressa istanza di patteggiamento non può essere intesa come una condotta dolosa che ha dato causa all’errore (di Vincenzo Giglio)

Cass, pen., Sez. 4^, sentenza n. 10423/2023, udienza dell’8 febbraio 2023, ha affrontato la particolare questione della spettanza della riparazione per errore giudiziario in conseguenza dell’esito di una procedura di revisione.

Vicenda giudiziaria

LGM è  stata prosciolta per insussistenza del fatto, a seguito di revisione, dalle imputazioni di cui agli art. 110 c.p., art. 2622 c.c. e D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 185 in relazione alle quali, con sentenza del 3 settembre 2013, il giudice competente le aveva applicato la pena concordata di due anni e otto mesi di reclusione oltre che una pena pecuniaria.

Di seguito a tale esito favorevole ed ai sensi dell’art. 643 cod. proc. pen., LGM ha presentato tempestivamente un’istanza per la riparazione dell’errore giudiziario subìto, chiedendo un indennizzo commisurato non soltanto alla durata dell’espiazione della pena e delle misure cautelari subite (dal 17 luglio 2013 al 27 agosto 2013 custodia cautelare in carcere; dal 28 agosto 2013 al 19 settembre 2013 arresti domiciliari; dal 19 ottobre 2018 a 7 novembre 2018 espiazione pena), ma anche alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna.

La Corte territoriale ha respinto la domanda.

I giudici d’appello hanno osservato che la sentenza di proscioglimento per insussistenza del fatto è stata pronunciata, previa revoca di una sentenza di “patteggiamento”, a seguito di un giudizio di revisione incentrato su un contrasto di giudicati, ai sensi dell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a) (tre degli originari coimputati sono stati assolti per insussistenza del fatto dalle medesime imputazioni per le quali il “patteggiamento” è avvenuto).  Hanno quindi ritenuto che LGM, avendo formulato istanza di applicazione della pena, ha dato causa alla condanna con un comportamento doloso da considerarsi impeditivo del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario.

La Corte ha ritenuto nondimeno che, riguardo alla detenzione sofferta prima della richiesta di applicazione della pena, la domanda di riparazione di errore giudiziario potesse essere “riqualificata” come domanda di riparazione per ingiusta detenzione ex art. 314 cod. proc. pen.

Ha rilevato a tal fine che, nel periodo compreso tra il 17 luglio e il 1° agosto 2013, LGM fu detenuta in forza di un’ordinanza applicativa di misura cautelare senza che emergessero dagli atti del processo suoi comportamenti dolosi o gravemente colposi che potessero aver dato causa all’applicazione della misura cautelare, il che lasciava aperta la possibilità di riconoscere uno spazio all’ingiusta detenzione.

Su queste premesse, la Corte ha liquidato un indennizzo per la custodia cautelare in carcere sofferta dal 17 luglio al 2 agosto 2013 (data di presentazione dell’istanza di applicazione della pena) e – all’esplicito scopo di conciliare “il criterio aritmetico con quello equitativo” – ha liquidato l’importo complessivo di € 16.000, commisurato n ragione di € 1.000 per ciascuno dei 16 giorni di ingiusta custodia cautelare.

Tramite i suoi difensori, LGM ha proposto ricorso per cassazione, deducendo come motivo principale l’erronea applicazione dell’art. 643 cod. proc. pen. cui hanno dato vita i giudici d’appello nella decisione impugnata allorché hanno attribuito all’istanza di patteggiamento la natura di condotta dolosa causativa dell’errore giudiziario.

Decisione della Corte di cassazione

Il collegio di legittimità ha ritenuto fondato il motivo di ricorso.

Ha ritenuto in premessa necessaria una ricognizione dei principi interpretativi messi a fuoco con riferimento alla revisione delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444 c.p.p., comma 2, espressamente prevista dall’art. 629, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dalla L. n. 134/2003.

…Adattamento del giudizio di revisione all’istituto del “patteggiamento”

Esso – ha osservato il collegio – prevede l’applicazione di una pena non preceduta dall’accertamento della responsabilità penale secondo le regole proprie del giudizio ordinario o del giudizio abbreviato. Muovendo da queste premesse, si è sostenuto che, per operare in relazione alle sentenze di patteggiamento, il rimedio straordinario della revisione deve essere adattato alle peculiarità di questo procedimento speciale ed è pertanto necessario stabilire “un rapporto diretto tra il concordato, già vagliato dal giudice, e la richiesta di revisione con il suo corredo dimostrativo” (Sez. 5^, n. 12096 del 20/01/2021, Rv. 280759).

Si è considerato, inoltre, che la revisione non può trasformarsi da mezzo di impugnazione straordinario, apprestato dal legislatore per porre rimedio all’errore giudiziario, in uno strumento a disposizione del patteggiante “per revocare in dubbio una decisione da lui stesso richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità” (Sez. 6^, n. 31374 del 24/05/2011, Rv. 250684), posto che si versa in una fase che non si è svolta nelle forme ordinarie proprio in ragione della richiesta dell’interessato.

Si colloca in questa cornice il consolidato orientamento secondo il quale la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti è suscettibile di revisione ai sensi dell’art. 630,comma 1, lett. c), cod. proc. pen., soltanto se le nuove prove dimostrano “che l’interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 cod. proc. pen., sì come applicabile nel patteggiamento” (tra le altre, Sez. 6^, n. 5238 del 29/01/2018, Rv. 272129).

Nella medesima prospettiva ci si è mossi con riferimento a richieste di revisione di sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti formulate ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. a). Si è ritenuto, infatti, che “la richiesta di revisione di una sentenza di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente” sia ammissibile, ma sia comunque necessario “che l’inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione” (Sez. 5^, n. 10405 del 13/01/2015, Rv. 262731; Sez. 6^, n. 34927 del 17/04/2018, Rv. 273749).

Nell’affermare questi principi, si è sottolineato che, mentre ai fini dell’applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., la valutazione dei materiali di indagine avviene “sulla base degli atti” ed è volta ad escludere la sussistenza di una causa di proscioglimento a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., nel dibattimento (o nel giudizio abbreviato), la cognizione del giudice è completa e diretta alla valutazione di ogni aspetto della re iudicanda. Si è giunti così alla conclusione che, quando il contrasto tra giudicati riguarda sentenze emesse all’esito di giudizio ordinario (o di giudizio abbreviato) e sentenze di patteggiamento, la domanda di revisione non può in nessun caso avere a fondamento “i giudizi formulati intorno alla capacità dimostrativa delle prove o, peggio ancora, intorno all’interpretazione delle norme” (Sez. 5^, n. 10405 del 13/01/2015, Rv. 262731).

Si è conseguentemente affermato che, quando la revisione ha ad oggetto una sentenza di patteggiamento, devono valere i principi generali che regolano l’interpretazione dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., come delineati da una giurisprudenza di legittimità che non registra voci contrarie (tra le tante, Sez. 6^, n. 16477 del 15/02/2022, Rv. 283317). Si è sostenuto, quindi, che anche in questo caso come negli altri – ma a maggior ragione in questo caso – l’inconciliabilità tra sentenze irrevocabili che giustifica la revisione, non deve essere intesa in termini di mero contrasto di principio tra le decisioni, bensì con riferimento ad un’oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui esse si fondano (Sez. 5^, n. 10405 del 13/01/2015, e Sez. 6^, n. 34927 del 17/04/2018, già citate).

…Verifica dell’eventuale concorso dell’imputato alla causazione dell’errore giudiziario

Per verificare se un imputato, prosciolto all’esito del giudizio di revisione dopo aver chiesto il patteggiamento, abbia dato causa all’errore giudiziario, occorre muoversi all’interno delle coordinate ermeneutiche sopra illustrate. Ne consegue che la causa dell’errore giudiziario accertato con la revisione di una sentenza di patteggiamento, non può essere rappresentata, come sostenuto nell’ordinanza impugnata, dalla richiesta di applicazione della pena, ma deve essere individuata esaminando le ragioni per cui la revisione è stata disposta.

A tal fine, nei casi di revisione disposta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., si dovranno indagare le concrete ragioni per le quali il fatto dimostrativo della causa di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., ritenuto esistente nel giudizio di revisione non è emerso nel giudizio concluso con l’applicazione della pena. Si dovrà valutare, quindi, se la “nuova prova” sia sopravvenuta alla sentenza di patteggiamento o sia stata scoperta successivamente ad essa, ovvero, pur preesistente, non sia stata acquisita o esaminata in quel giudizio e ci si dovrà chiedere se questa evenienza sia stata determinata dal comportamento doloso o colposo dell’interessato (sul concetto di “prova nuova”: Sez. 5^, n. 8997 del 15/02/2022, Rv. 282824 e sentenze ivi citate).

Nei casi – come quello in esame – in cui la revisione sia stata disposta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., sarà necessario comprendere in che modo si sia formato il materiale di indagine che ha determinato la ricostruzione del fatto storico emersa nella sentenza di patteggiamento e quali circostanze concrete abbiano portato altra sentenza definitiva al diverso (e inconciliabile) accertamento dei fatti. Si dovrà valutare, quindi, se tale diversa ricostruzione del fatto storico sia stata determinata dal comportamento dell’imputato prosciolto a seguito di revisione e se tale comportamento sia connotato da dolo o colpa grave.

Tra i comportamenti da considerare a tal fine non c’è la richiesta di patteggiamento che, insieme al consenso del pubblico ministero, è il presupposto perché sia pronunciata una sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., ma non è la causa dell’errore giudiziario. Un errore che, diversamente da quanto afferma la Corte di appello, non sta nella sentenza di applicazione della pena, bensì nelle ragioni che ne hanno determinato la revisione.

Si deve ricordare, peraltro, che, mentre l’art. 314 cod. proc. pen. considera ostativo all’equo indennizzo l’aver dato causa o concorso a dar causa, per dolo o colpa grave, all’ingiusta privazione della libertà personale, l’art. 643 stabilisce che il diritto alla riparazione debba essere negato soltanto a chi ha “dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario”; esclude, dunque, la rilevanza ostativa di condotte concausali, ancorché caratterizzate da dolo o colpa grave (in tal senso: Sez. 3^, n. 25653 del 11/05/2022, Rv. 283621).

In altri termini, ed esemplificando per maggiore chiarezza, nei casi in cui il proscioglimento a seguito di revisione segua alla revoca di una sentenza di patteggiamento, per valutare se sussista il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario, sarà necessario chiedersi, con valutazione “ex post” (come è normale che avvenga trattandosi di verificare l’esistenza del nesso causale) se la mancata acquisizione (o la mancata scoperta) di prove dimostrative di una causa di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., qualificate come “nuove” ai sensi dell’art. 630 comma 1, lett. c), sia stata causata dal comportamento dell’imputato. Quando – come nel caso in esame – la revisione sia stata disposta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), sarà necessario valutare se sia stato l’imputato, con la propria condotta, a far sì che a fondamento della sentenza di patteggiamento siano stati stabiliti fatti risultati inconciliabili con quelli stabiliti in altra sentenza penale irrevocabile.

Sarà poi necessario chiedersi – questa volta con giudizio “ex ante”, tenendo conto delle conoscenze del soggetto agente e delle peculiarità del caso concreto – se questo comportamento causale sia stato addirittura doloso o gravemente colposo, perché tale da determinare, per grave imprudenza negligenza o imperizia, l’apparenza di un determinato fatto storico.

Potrebbero essere oggetto di scrutinio in questa prospettiva anche condotte tenute nel corso del procedimento: ad esempio, il comportamento dell’imputato che abbia determinato, con le proprie dichiarazioni, la rappresentazione del fatto storico ritenuto nella sentenza di patteggiamento, oppure (nel caso di revisione disposta ex art. 630, comma 1, lett. c) condotte caratterizzate da incuria, indifferenza o da grave imprudenza, fermo restando che, per espressa previsione di legge, l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’art. 64, comma 3, lett. b. cod. proc. pen.), non incide sul diritto alla riparazione e non può assumere esclusivo rilievo al fine di ritenere sussistente una colpa grave ostativa al riconoscimento dell’indennizzo (Sez. 4^, n. 8615 del 08/02/2022, Rv. 283017).

A differenza di quanto sostenuto nell’ordinanza impugnata, però, tra queste condotte non può esservi la richiesta di applicazione della pena che concorre alla pronuncia della sentenza di patteggiamento ed è concausa della sentenza, ma non causa dell’errore.

…Esito

La conclusione, inevitabile alla luce del percorso argomentativo seguito dal collegio, è stata l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.