Bancarotta per distrazione: gli indirizzi interpretativi della Cassazione (di Vincenzo Giglio)

Cass. pen. Sez. 5^, sentenza n. 18043/2023, udienza dell’11 gennaio 2023, contiene un’utile riassunzione degli indirizzi interpretativi riguardo a varie questioni proprie del delitto di bancarotta per distrazione.

Rilievo dell’epoca del depauperamento

Essa è rilevante solo nel caso in cui la condotta dell’agente presenti elementi non univoci di qualificazione giuridica in termini di distrazione, ma non certo quando il depauperamento consegua ad una deliberata condotta di sottrazione, priva di un’alternativa ipotesi qualificatoria (Sez. 5^, n. 45230 del 16/09/2021, Rv. 282284 ).

In effetti “la casistica giurisprudenziale consegna, non sporadicamente, casi in cui la fattispecie concreta dà conto, in termini di immediata evidenza dimostrativa (e al di fuori di qualsiasi logica presuntiva), della “fraudolenza” del fatto di bancarotta patrimoniale e, dunque, non solo dell’elemento materiale, ma anche del dolo del reato in esame: ciò in ragione dei più vari fattori, quali, ad esempio, il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell’impresa poi fallita ovvero in una fase di già conclamata decozione della stessa” (Sez. 5^, n. 38396 del 23/6/2017, Rv. 270763)

Dolo dell’extraneus nella bancarotta documentale

Quando si discute di concorso in bancarotta fraudolenta documentale, il dolo dell’extraneus nel reato proprio dell’amministratore consiste nella volontarietà della propria condotta di sostegno a quella dell’intraneus,con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni del creditore, non essendo, invece, richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società (Sez. 5^, n. 1706 del 12/11/2013, dep. 2014, Rv. 258950 ), che può rilevare sul piano probatorio quale indice significativo della rappresentazione della pericolosità della condotta per gli interessi dei creditori (Sez. 5^, n. 4710 del 14/10/2019, dep. 2020, Rv. 27815602; conf. Sez. 5^, n. 38731 del 17/5/2021, Rv. 271123).

Inoltre, per consolidato orientamento interpretativo, “i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualunque tempo essi siano stati commessi, e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Tutte le ipotesi alternative previste dalla norma si realizzano mediante condotte che determinano una diminuzione del patrimonio, diminuzione pregiudizievole per i creditori: per nessuna di queste ipotesi la legge richiede un nesso causale o psichico tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, sicché né la previsione dell’insolvenza come effetto necessario, possibile o probabile, dell’atto dispositivo, né la percezione della sua preesistenza nel momento del compimento dell’atto, possono essere condizioni essenziali ai fini dell’antigiuridicità penale della condotta. E del resto, quando il legislatore ha ritenuto necessaria l’esistenza di un tal nesso lo ha previsto espressamente nell’ambito della legge fallimentare, all’art. 223, distinguendo le condotte previste dall’art. 216 (legge fall., art. 223, comma 1) da quelle specificamente volte a cagionare il dissesto economico della società (legge fall., art. 223, comma 2), per modo che solo in tali ultime fattispecie delittuose è previsto un nesso causale o psichico tra condotta ed evento» (Sez. 5^, n. 44933 del 26/9/2011, Rv. 251214; Sez. 5^, n. 3229 del 14/12/2012, dep. 2013, Rv. 253932).

Bancarotta per distrazione: specificità

Oggetto del reato, in tale fattispecie, non è la consapevolezza del dissesto o la sua prevedibilità in concreto, quanto la rappresentazione del pericolo che la condotta costituisce per la conservazione della garanzia patrimoniale e per la conseguente tutela degli interessi creditori (Sez. U. n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266805; Sez. 5^, n. 54291 del 17/5/2017, Rv. 271837; Sez. 5^, n. 13910 dell’8/2/2017, Rv. 269388).

La norma incriminatrice punisce, in analogia alla disciplina dei reati che offendono comunque il patrimonio, il fatto della sottrazione, che costituisce, ontologicamente, il proprium di ogni distrazione; sottrazione che si perfeziona nel momento del distacco dei beni dal patrimonio societario anche se il reato viene a esistere giuridicamente con la dichiarazione di fallimento.

Coerentemente con la natura di reato di pericolo della bancarotta patrimoniale, non si richiede lo specifico intento di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevolezza della mera possibilità di danno potenzialmente derivante alle ragioni creditorie, e, infatti, si è ripetutamente affermato che il dolo può essere diretto, ma anche indiretto o eventuale, quando il soggetto agisca anche a costo, a rischio, di subire una perdita altamente probabile se non certa (Sez. 5^, n. 42568 del 19/6/2018, Rv. 273825; Sez. 5^, n. 14783 del 9/3/2018, Rv. 272614; Sez. 5^, n. 51715 del 5/11/2014, Rv. 261739; Sez. 5^, n. 10941 del 20/12/1996, Rv. 206542).

L’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale afferma che la natura giuridica del delitto in parola è quella di reato di pericolo per la cui integrazione è sufficiente il dolo generico prescindendosi dal riferimento al nesso causale tra la condotta dell’agente e il fallimento. Ciò ancor più ove la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo generico sia agevolmente desumibile da evidenti “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta, alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria della azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale. La verifica di tali indici è considerata necessaria a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo della integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa ( Sez. 5^, n. 38396 del 23/6/2017, Rv. 270763).

Volontà finalizzata al dissesto

La volontà protesa al dissesto necessaria per la integrazione del dolo della fattispecie deve essere intesa non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Sez. 5^, n. 23091 del 29/3/2012, Rv. 252804; conf. Sez. 5^, n. 42257 del 6/5/2014, Rv. 260356; Sez. 5^, n. 35093 del 4/6/2014 Rv. 261446).

Nella bancarotta fraudolenta commessa mediante falsità in bilancio o in altre comunicazioni sociali non si richiede, infatti, il dolo di danno, limitandosi l’art 2621 cod. civ. ad usare l’avverbio ‘fraudolentemente’, il quale nella comune accezione e nel linguaggio giuridico significa proposito di frode, e cioè, al tempo stesso, volontà di trarre in inganno (animus decipiendi) e intenzione di conseguire attraverso l’inganno un vantaggio (animus fruendi aliqua re), e non anche di recare ad altri un danno (animus nocendi); sicché, l’agente può essere animato dal proposito di frode senza volere il danno di alcuno, anzi auspicando che esso non si verifichi (Sez. 5^, n. 8045 del 14/4/1980, Rv. 145734).

È sufficiente, pertanto, l’accertamento della volontà dei singoli atti di sottrazione, di occultamento o di dissimulazione, e quindi che l’agente sia animato dal proposito di frode, senza che possa assumere rilievo, al fine di attenuare o giustificare le indicate operazioni, l’eventuale intento di salvaguardare l’avviamento economico e la capacità occupazionale, trasferendo beni e risorse verso altre società, ritenute maggiormente operative. La salvaguardia delle risorse sociali va, infatti, attuata all’interno del soggetto proprietario, nell’interesse dei creditori e dei terzi che hanno fatto affidamento sul patrimonio e sulla capacità operativa della singola società e non già del (Sez. 5^, n. 13169 del 26/1/2001, Rv. 218390). Ciò che rileva è la previsione del danno come correlato al profitto, e che tale previsione non abbia distolto l’agente.

Bancarotta “riparata”: condizioni per il riconoscimento e onere dimostrativo

La bancarotta cosiddetta “riparata” determina l’insussistenza dell’elemento materiale del reato e si configura allorché la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori (Sez. 5^, n. 57759 del 24/11/2017, Rv. 27192201; Sez. 5^, n. 3622 del 19/12/2006, Rv. 236051; Sez. 5^, n. 8402 del 3/2/2011, Rv. 249721).

È pertanto al permanere o meno di tale pregiudizio, costituente per questo come per altri aspetti l’offesa tipica dei reati di bancarotta, che deve essere riferita la valutazione sulla sussistenza di un’azione restitutoria idonea a rimuovere gli effetti distrattivi della precedente condotta; non tralasciando di considerare la natura di reati di pericolo che connota i delitti in esame, e che attribuisce valenza lesiva anche alla mera potenzialità di un danno per le ragioni dei creditori (Sez. 5^, n. 28514 del 23/4/2013 Rv. 255576; conf. Sez. 5^, n. 12897 del 6/10/1999, Rv. 214860; Sez. 5^, n. 11633 dell’8/2/2012, Rv, 252307; Sez. 5^, n. 3229 del 14/12/2012, Rv. 253932).

Ricade, dunque, sull’amministratore, che si è reso responsabile di atti di distrazione, e sul quale grava una posizione di garanzia rispetto al patrimonio sociale, l’onere di provare l’esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi precedentemente perpetrati (Sez. 5^, n. 57759 del 24/11/2017, Rv. 271922).

Pene accessorie per i delitti previsti dall’art. 216 L.F.: criteri di determinazione della durata dopo la sentenza n. 222/2018 della Corte costituzionale

Non è esatto affermare che, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale, i giudici di merito non possano parametrare le pene accessorie ex art. 216, ultimo comma, L.F., alla pena principale come effetto penale della pronuncia di condanna impugnata (art. 20 cod. pen).

Infatti con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui dispone: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa“, anziché “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa la inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni“.

Nella necessità di dovere individuare un criterio al quale il giudice deve attenersi nella rideterminazione della durata della pena accessoria, non più fissa (dieci ), ma indicata solo nel massimo, le Sezioni unite (sentenza n. 28910/2019, Suraci, Rv. 276286), intervenute successivamente alla predetta declaratoria di incostituzionalità, hanno affermato che le pene accessorie previste dall’art. 216 L. F., nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen.

Le Sezioni unite hanno considerato che la piena realizzazione dello specifico finalismo preventivo, al quale sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale: “Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’art. 133 cod. pen., e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione“.

Ciò che si richiede, oggi, è che la durata delle pene accessorie sia determinata in concreto dal giudice sulla base dei criteri di cui agli artt. 132 e 133, cod. pen., da parametrarsi, con specifica e adeguata motivazione, alla funzione preventiva ed interdittiva delle stesse (Sez. 5^, n. 36256 del 22/10/2020, Rv. 280488).

Con l’ulteriore precisazione che, ove la durata sia determinata in misura superiore alla media edittale, è necessaria una specifica motivazione in ordine ai criteri soggettivi e oggettivi di cui all’art. 133, cod. pen., tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena, ancor più ove sussista divaricazione nel trattamento sanzionatorio complessivo tra pena principale, irrogata nel minimo, e pene accessorie fissate nel massimo (Sez. 5^, n. 11329 del 9/12/2019, dep. 2020, Rv. 278788; conf. Sez. 5^, n. 1947 del 3/11/2020, dep. 2021, Rv. 280668).