La cassazione sezione 4 con la sentenza numero 5594/2023 ha stabilito che in tema di circostanze attenuanti generiche, mentre non possono essere valutate, come elemento ostativo al riconoscimento delle stesse, le scelte dell’imputato strettamente connesse all’esercizio delle proprie attività difensive, può, per converso, essere verificata l’incidenza dei suoi comportamenti, eventualmente anche di natura processuale, estranei a tale ambito.
La cassazione premette che in tema di concessione attenuanti generiche c’è una variegata giurisprudenza.
In base ad un primo indirizzo, il comportamento processuale dell’imputato può rilevare ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
In proposito, infatti, si è affermato che la condotta processuale dell’imputato che, contro ogni evidenza della sussistenza del reato, protesti la propria estraneità ai fatti, costituisce di per sé idonea motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche in quanto, seppure l’esercizio del diritto di difesa rende, per scelta del legislatore, non penalmente perseguibili le dichiarazioni false rese a propria difesa dall’imputato, ciò non equivale a rendere quel tipo di dichiarazioni irrilevanti per la valutazione giudiziale del comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo, agli effetti e nei limiti di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 20115 del 04/04/2018, Rv. 272747; in applicazione di tale principio la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva negato le attenuanti generiche in un caso in cui, in sede di convalida dell’arresto in flagranza per detenzione di stupefacenti a fini di spaccio, l’imputato aveva negato la propria responsabilità, nonostante il diretto monitoraggio, da parte della polizia giudiziaria, della cessione di parte della sostanza e il rinvenimento della residua parte occultata all’interno del giubbotto).
Più in generale si è osservato che l’atteggiamento “non collaborativo” dell’imputato può giustificare il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Leo, Rv. 270339; in motivazione, la cassazione ha osservato che se l’esercizio del diritto di difesa rende, per scelta del legislatore, non penalmente perseguibili dichiarazione false rese a propria difesa dall’imputato, ciò non equivale affatto a rendere quel tipo di dichiarazioni irrilevanti per la valutazione giudiziale del comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo, agli effetti e nei limiti di cui all’art. 133 cod. pen.).
Si è ritenuto altresì che il silenzio dell’imputato può essere valutato – sul piano del comportamento processuale – ai fini del riconoscimento delle attenuanti di cui all’art. 62 bis cod. pen.: infatti, l’ordinamento penale, nel garantire all’imputato il diritto al silenzio ed alla menzogna che non sconfini nella calunnia, nonché alla reticenza sul proprio operato, attribuisce al giudice la facoltà di valutare il comportamento da questi tenuto durante lo svolgimento del processo, sicché è legittimo il diniego delle attenuanti predette ovvero della declaratoria di prevalenza delle medesime motivato sulla negativa personalità dell’imputato stesso o sulla capacità a delinquere desunta dal descritto comportamento processuale (Sez. 2, n. 2889 del 27/02/1997, Rv. 207560).
Un altro orientamento propende per l’esclusione di ogni rilevanza delle condotte dell’imputato integranti vere e proprie strategie difensive.
Al riguardo si è evidenziato che, in tema di circostanze attenuanti generiche, se la confessione dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può essere valutata come elemento favorevole ai fini della concessione del beneficio, di contro la protesta d’innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l’autorità giudiziaria, pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l’efficacia delle prove di reità (Sez. 5, n. 32422 del 24/09/2020, Rv. 279778).
In un’ottica ancor più garantistica si è sottolineato che l’esercizio di facoltà processuali dell’imputato non può essere valutato come parametro ai sensi dell’art. 133 cod. pen. per negare le circostanze attenuanti generiche (Sez. 3, n. 3396 del 23/11/2016, dep. 2017, Rv. 268927.
In applicazione del principio la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il diniego da parte del giudice di merito delle circostanze attenuanti generiche in ragione del comportamento processuale dell’imputato, che aveva presentato opposizione assolutamente immotivata al decreto penale di condanna.
Quanto al diritto al silenzio, d’altronde, l’ordinamento deve garantire la possibilità di praticare la linea difensiva ritenuta più idonea, con il solo limite rappresentato dai delitti di calunnia e di autocalunnia.
Esso, peraltro, costituisce il segnale indiretto della scelta effettuata a monte dal sistema di ripudiare ogni forma di contrattazione e di scambio tra le parti o tra il Giudice e l’imputato.
Dal panorama giurisprudenziale, pertanto, emerge un quadro interpretativo variegato, che risente inevitabilmente della diversità delle fattispecie concrete sottoposte all’esame dell’organo giudicante e della difficoltà di tipizzare la casistica delle situazioni meritevoli di riconoscimento dell’attenuante in questione.
In sintesi, tenuto conto dell’evoluzione interpretativa nel senso di riconoscimento della più ampia libertà di scelta dell’imputato sulla linea difensiva da adottare, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il Giudice non può attribuire rilievo alle scelte dell’imputato strettamente connesse all’esercizio delle facoltà difensive.
Il giudice al contrario, ha il potere di verificare l’incidenza di tutti i suoi comportamenti – eventualmente anche di natura processuale – estranei a tale ambito. Ciò posto sui principi operanti in materia, nella fattispecie, la Corte di appello non ha concesso le circostanze attenuanti generiche, rilevando che il P. non aveva chiesto di essere interrogato, non aveva partecipato al processo, non aveva reso spontanee dichiarazioni, aveva attuato una condotta dilatoria e, alcuni mesi dopo la vicenda in esame, aveva nuovamente guidato un’auto sotto l’effetto di un eccessivo quantitativo di alcool.
Ebbene, alla luce della giurisprudenza sopra riportata, la valutazione del contegno nell’ambito del presente procedimento effettivamente integra una non consentita critica alle strategie processuali del P.
Deve ritenersi, tuttavia, logica ed immune da censure la residua argomentazione, inerente alla rilevanza pregiudizievole per l’imputato dell’analoga condotta illecita successivamente perpetrata.
In proposito, infatti, è consolidato l’orientamento di questa Corte, secondo cui, ai sensi dell’art. 133, comma secondo, nn. 1) e 3), cod. pen., il giudice, in relazione alla concessione o al diniego delle circostanze attenuanti generiche come – in caso affermativo – alla misura della riduzione di pena, deve tenere conto anche della condotta serbata dall’imputato successivamente alla commissione del reato e nel corso del processo, in quanto rivelatrice della sua personalità e, quindi, della sua capacità a delinquere (Sez. 3, n. 27964 del 19/03/2019, Rv. 276354, inerente a fattispecie in cui la Suprema Corte ha annullato con rinvio la decisione del giudice di merito che aveva negato la concessione delle attenuanti generiche all’imputato, nonostante questi avesse proceduto, ai fini risarcitori, alla vendita di un immobile di sua proprietà ed avesse proficuamente svolto attività di volontariato a servizio di anziani; Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, Rv. 275509, sia pur riguardante la sola ipotesi di condotta positiva; Sez. 6, n. 17240 del 16/10/1989, Rv. 182794).
