L’avvocato che ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione o di amministratore delegato o unico di una società commerciale si trova in una situazione di incompatibilità con l’esercizio della professione forense laddove tale carica comporta effettivi poteri di gestione o di rappresentanza e non si limiti esclusivamente all’amministrazione di beni personali o familiari (art. 6 cdf in relazione alla previsione dell’art. 18 della L. n. 247/2012).
Ciò posto, la circostanza che poi di fatto, l’avvocato eserciti o meno quei poteri è deontologicamente irrilevante né attenua in alcun modo il regime di incompatibilità previsto per la professione forense.
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Corona, rel. Napoli), sentenza n. 235 del 3 dicembre 2022
Fatto
I fatti posti a base dell’incolpazione con riferimento all’assunzione della carica di amministratore delegato della società [BBB] s.r.l. risultano provati documentalmente e comunque ammessi dallo stesso incolpato.
L’avv. [RICORRENTE] è stato nominato amministratore delegato e presidente del consiglio di amministrazione della [BBB] s.r.l. rispettivamente il 28 aprile 2014 ed il 16 giugno 2014 con poteri individuali di gestione di detta società.
Solo successivamente alla segnalazione al Consiglio dell’Ordine degli avvocati e alla attivazione del procedimento disciplinare tali poteri erano stati rimossi e affidati ad un nuovo amministratore delegato: è, quindi, incontestato che il ricorrente dall’aprile 2014 all’aprile 2017 sia incorso nella situazione di incompatibilità in violazione dell’art 6 NCDF in relazione alle disposizioni dell’art. 18 L. 247/2018.
Decisione
Come correttamente rilevato nell’ambito della decisione impugnata “L’avvocato che ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione o di amministratore delegato o unico di una società commerciale si trova in una situazione di incompatibilità con l’esercizio della professione forense laddove tale carica comporta effettivi poteri di gestione o di rappresentanza e non si limiti esclusivamente all’amministrazione di beni personali o familiari.” (CNF n. 178 del 25.10.2021, in senso conforme, CNF n. 172 del 25.11.2014).
Fermo il chiaro tenore della normativa e delle pronunce richiamate, pare che le argomentazioni del ricorrente secondo cui l’incompatibilità con l’esercizio dell’attività forense ricorrerebbe non tanto nella circostanza di ricoprire un incarico gestorio di società, quanto nell’esercitare concretamente i poteri gestori attribuitigli, siano infondate.
Al riguardo si osserva che sotto il profilo ontologico l’art. 18 LF prescrive un precetto assoluto: l’avvocato non può ricoprire un incarico gestorio operativo all’interno di una società di capitali.
Se la norma dovesse essere ponderata solo ex post come 8 pretenderebbe il ricorrente, ossia a mezzo di una verifica circa l’esercizio concreto o meno dei poteri, essa di fatto perderebbe la propria funzione precettiva.
Tale interpretazione proposta dal ricorrente pare, dunque fuorviante. Si consideri anche che l’amministratore di una società di capitali è tenuto a gestire l’ente secondo diligenza, di talché neppure sarebbe – di regola – immaginabile un amministratore che non operi affatto, ed un simile comportamento sarebbe censurabile in termini omissivi.
Alla luce di quanto osservato non pare discutibile l’infondatezza delle difese del ricorrente.
A ragione del lungo arco di tempo (tre anni) che ha visto il ricorrente esercitare la professione in una situazione di incompatibilità in spregio alle previsioni dell’ordinamento forense, la dedotta assenza di volontarietà e la dedotta buona fede non pare valgano a consentire all’avvocato di ignorare, sottraendosi dalla responsabilità disciplinare, il contenuto delle norme costituenti il proprio ordinamento professionale ed il codice deontologico.
Deve concludersi che con riferimento alla violazione di cui all’art. 6 del NCDF in relazione alla previsione dell’art. 18 della L. n. 247/2012 il Collegio ha correttamente applicato i principi deontologici assunti come violati nel caso di specie offrendo una motivazione corretta.
A fronte delle osservazioni sopra svolte pare che debba trovare conferma anche la riconosciuta violazione dell’art. 9 NCDF.
La giurisprudenza è costante nell’affermare che “L’avvocato è tenuto a svolgere la propria attività con lealtà e correttezza, e tale obbligo è previsto non solo nei confronti della parte assistita, ma anche e soprattutto verso l’ordinamento generale dello Stato e particolare della professione, verso la società ed i terzi in genere” (CNF n. 20 del 23.4.2019).
E ancora che “L’avvocato è tenuto ad improntare la propria condotta professionale a lealtà e correttezza, evitando comportamenti che compromettano gravemente l’immagine che la classe forense deve mantenere nei confronti della collettività al fine di assicurare responsabilmente la funzione sociale che l’ordinamento le attribuisce”. (CNF n. 86 del 6.6.2013)
La complessiva normativa richiamata è volta ad assicurare l’immagine dell’avvocatura, recedendo ogni possibile legame con l’attività gestoria e commerciale.
