Al tribunale di Roma è in scena una singolar tenzone tra un giudice di una sezione penale ed un avvocato che ha depositato per via telematica un atto di impugnazione.
Il tribunale di Roma ha ritenuto di dover emettere una ordinanza di inammissibilità ai sensi dell’articolo 591 cpp per “difetto di sottoscrizione digitale” (ne abbiamo già scritto a questo link).
Ora c’è un seguito.
Il collega ha depositato numerose istanze (allegate in fondo al post) per dimostrare di aver sottoscritto digitalmente l’atto (con richiesta al giudice di confrontarsi con il tecnico informatico della sua sezione) ed il giudice ha confermato l’ordinanza di inammissibilità (allegata anch’essa) addentrandosi in sottili affermazioni tra “trasmissioni nell’estensione smime.p7m” e la “differenza dal formato p7s”.
Non entriamo nel merito perché non si parla di diritto ma di informatica ed è questo il punto paradossale della vicenda.
Si legge di indirizzi pec, file denominati “smime.p7s”, inclusioni di firma digitale, certificato che è solo l’impronta, formato “p7s”, files CADES e PADES, Digital Signature Field, indicazioni ricevute da tecnici informatici ecc ecc.
Ci chiediamo, retoricamente, dove sia finito il diritto e cosa siamo diventati.
Noi di Terzultima Fermata ci limitiamo ad aggiungere che la previsione della sanzione dell’inammissibilità per criticità tecniche appare abnormemente sproporzionata per eccesso, non tiene conto delle difficoltà comportate dalla transizione digitale (ancora oggi ben lontana da un’efficiente messa a sistema per cause imputabili alle istituzioni competenti ben più che agli utenti) e, ciò che più conta, fa pagare in modo drammatico alla parte privata il prezzo di un errore ad essa non imputabile.
Ci pare che sia un’ulteriore tappa di una deriva che, dietro la facciata efficientistica, maschera la voglia di soluzioni sbrigative a questioni complesse e nelle quali comunque vengono in rilievo i beni più preziosi degli esseri umani coinvolti nei procedimenti penali.
Davvero un brutto spettacolo.
