La camera di consiglio: l’irresistibile curiosità di chi attende fuori (di Riccardo Radi)

Dalla tutela del segreto del procedimento formativo della deliberazione collegiale in camera di consiglio alla magrissima figura rimediata mediante un indebito scampanellio davanti ad un costernato Prof. Franco Coppi.

Inutile negarlo: ad ogni avvocato piacerebbe ascoltare cosa si dicono i giudici in camera di consiglio.

Almeno una volta, una sola volta, poter origliare al di là della porta per comprendere come arriveranno alla decisione.

La camera di consiglio è il luogo adibito al confronto fra i giudici per addivenire alle decisioni, una sorta di confessionale dove nulla può e deve essere divulgato.

Il segreto è così impenetrabile che gli stessi giudici che hanno concorso alla decisione non possono essere chiamati a testimoniare su quanto accaduto nel confessionale della camera di consiglio, ricordiamo un processo che ha fatto epoca e che si era basato anche e non solo sulle testimonianze di alcuni giudici componenti di un collegio della Suprema Corte.

Sul punto la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che: “Il giudice penale che abbia concorso, in camera di consiglio, alla deliberazione collegiale non può essere richiesto – trattandosi di attività coperta da segreto di ufficio – di deporre come testimone in merito al relativo procedimento di formazione (e, se richiesto, ha l’obbligo di astenersi), limitatamente alle opinioni e ai voti espressi dai singoli componenti del collegio, salvo il sindacato del giudice che procede circa l’effettiva pertinenza della domanda formulata alle circostanze coperte da segreto. Ne consegue che la testimonianza eventualmente resa, poiché acquisita in violazione di un divieto stabilito dalla legge, è inutilizzabile. (Fattispecie relativa a imputazione di concorso cd. “esterno” in associazione di tipo mafioso)”.

Sez. U, Sentenza n. 22327 del 30/10/2002 Ud.  (dep. 21/05/2003) Rv. 224182 – 01

Quindi segretezza e collegialità, quest’ultima assume importanza, secondo alcuni come baluardo di democrazia – risiede, citando Carnelutti, in ciò che se tutti possono errare, l’errore di tutti è meno probabile dell’errore del singolo.

Lo scambio di idee, corale, vivace, spesso veemente, che caratterizza il procedimento camerale, favorisce l’imparzialità del giudice prevista dall’art. 111, co. 2, della Costituzione.

Tornando alla necessità della segretezza della camera di consiglio, di cui all’art. 125, co. 4, c.p.p.

La norma è posta a presidio dell’indipendenza del giudice quale organo, nonché della serenità dello stesso quale persona fisica deputata alla decisione.

Quindi gli stessi giudici non possono essere chiamati a testimoniare su quanto è accaduto all’interno della camera di consiglio.

A riguardo è molto interessante leggere il percorso argomentativo della Suprema Corte che ha svolto le seguenti considerazioni:


a) l’art. 125 del nuovo codice di procedura penale, sotto la rubrica concernente “le forme del provvedimento del giudice”, dispone, per quanto qui rileva, che “il giudice delibera in camera di consiglio senza la presenza dell’ausiliario designato ad assisterlo” ed aggiunge, poi, che “la deliberazione è segreta”.

La disposizione riproduce, sostanzialmente, quella già contenuta nel codice di rito civile, secondo il quale “la decisione è deliberata in segreto nella camera di consiglio” (art. 276, 1 comma) e nel codice di procedura penale anteriormente vigente, secondo cui”la decisione è sempre segreta” (art. 473, 5 comma).

La legge processuale penale dichiara dunque “segreto” il procedimento formativo, in camera di consiglio, delle deliberazioni adottate nelle forme della sentenza, dell’ordinanza, del decreto.

E ciò si giustifica – unanimemente – in funzione della salvaguardia della libertà, della serenità, dell’autonomia e dell’indipendenza dei singoli giudici chiamati a comporre l’organo collegiale, che si sentirebbero altrimenti meno liberi e garantiti nell’esercizio della loro delicata funzione, per la preoccupazione di essere imposti individualmente a condizionamenti e censure da parte dell’opinione pubblica e degli interessati, se non addirittura alle ritorsioni di questi ultimi.

Sebbene non indicato direttamente nel dettato costituzionale quale garanzia del principio di indipendenza dei giudici, sancito dagli articoli 101 e 104 Cost. (C. Cost., 19 gennaio 1989, n. 1), il segreto della camera di consiglio corrisponde tuttavia ad una ben precisa scelta legislativa, mantenuta costante – come si è visto – nel tempo.

Ne è sintomatica riprova l’ampia tutela che l’assiste, tanto che è ritenuta condotta rilevante penalmente, ex art. 685 c.p., la divulgazione dell’unanimità della decisione penale, pur senza l’indicazione nominativa dei partecipanti (Cass. Sez. I, 10 gennaio 2001, LIGNOLA), e costituente illecito disciplinare quella del magistrato che esterni non essere stata unanime la decisione (Cass. SS.UU. Civili, 5 febbraio 1999, n. 23).

E la tutela è ritenuta così prevalente dal legislatore d’aver suggerito che anche nell’ipotesi nelle quali si vuol far risultare il dissenso espresso in ordine alla decisione che potrebbe essere causa di responsabilità, la legge (art. 195 comma 5 c.p.p.) impone l’osservanza di particolari accorgimenti atti a mantenere il segreto.
b) È certo che il segreto della camera di consiglio è una particolare specie di segreto di ufficio.
Anche ad esso deve pertanto ritenersi applicabile la regola contenuta nell’art. 201 c.p.p., in tema di testimonianza, secondo cui “salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti”.


Diversamente, nel codice di rito previgente, i soggetti tenuti al segreto di ufficio (come quelli tenuti al segreto professionale) erano titolari di una semplice facoltà di astensione, mentre veniva statuito in capo al giudice il divieto di obbligare il teste a deporre (art. 351 c.p.p. 1930).

Ne conseguiva che i fatti coperti dal segreto di ufficio potevano anche costituire oggetto di testimonianza, purché i soggetti legittimati ad astenersi non fossero costretti dal giudice a deporre.

Questa disciplina è stata mantenuta, nel nuovo codice per il segreto professionale (art. 200 c.p.p.), ma non – come si è visto – per il segreto di ufficio.

Pertanto, e sempre che non si tratti di casi in cui la denuncia sia obbligatoria (artt. 361362 cod. pen.), permane il precetto che il soggetto tenuto al segreto di ufficio non ha facoltà di deporre e non può esservi obbligato dal giudice; salvo – ovviamente – l’ordine di deporre da questo impartito in ipotesi di accertata infondatezza della dichiarazione di opposizione del segreto (art. 200, comma 2, richiamato espressamente dal secondo comma dell’art. 201).

c) Novità registrabile rispetto alla disciplina del vecchio codice è la scomparsa, dal testo della norma, della previsione di una sanzione di nullità della testimonianza, quale conseguenza della violazione dell’obbligo di astensione.

La corte ritiene che la testimonianza che il soggetto obbligato ad astenersi in ragione dell’esistenza di un segreto di ufficio renda spontaneamente o a seguito di rimozione del segreto senza il rispetto delle cadenze procedurali previste dall’art. 201 comma 1 citato, nasce sicuramente invalida, ex art. 191 c.p.p., con rilevabilità anche di ufficio in ogni stato e grado del processo.

Ma è inutilizzabile, ai sensi della stessa norma indicata, anche quella resa da chi parla e depone senza esservi coatto.

Su questa ultima ipotesi, si rileva il contrario avviso da parte di un settore della dottrina, che però non può essere condiviso.

Si afferma che chi parla essendo obbligato a tacere commette un reato ma la testimonianza vale: lo stesso atto cadrebbe sotto due valutazioni normative, penalistica e processuale, sicché, essendo indipendenti le relative norme, l’atto costituirebbe prova valida, sebbene delittuosa.

Va invece ritenuto che il precetto normativo di cui all’art. 201 è modellato nella forma di uno specifico divieto e, dunque, attesa la genericità e onnicomprensività della formulazione del comma 1 dell’art. 191 c.p.p. (che fa riferimento ai “divieti stabiliti dalla legge”, anche, quindi, sostanziale), la prova – anche nell’ipotesi considerata – oltre che illecita è anche invalida.

d) Conclusivamente, la Corte ritiene di dover affermare il seguente principio di diritto: “Il giudice penale non può essere richiesto ed ha l’obbligo di astenersi dal deporre come testimone in merito al procedimento formativo della deliberazione collegiale, segreta, in camera di consiglio, limitatamente alle opinioni ed ai voti espressi dai singoli componenti del collegio, fermo restando il sindacato giurisdizionale sulla fondatezza della dichiarazione di astensione.

La violazione del suddetto obbligo comporta l’inutilizzabilità della relativa testimonianza.”

e) Ne sortisce che le deposizioni testimoniali dei giudici penali della Cassazione, assunte nel presente procedimento, nelle parti afferenti le opinioni e i voti espressi nel segreto della camera di consiglio, non dovevano entrare nello specchio della decisione.

Quindi massima tutela per il giudice e per la segretezza del procedimento formativo della deliberazione collegiale in camera di consiglio.

Rimane da chiedersi: ma in caso di violazione del segreto della camera di consiglio la decisione è inficiata?

Sul punto abbiamo effettuato una ricerca ed abbiamo trovato un principio conforme che ritiene che: “La violazione del segreto della camera di consiglio conseguente alla partecipazione ad essa di persone illegittimamente ammesse ad assistervi costituisce vizio che, pur rilevante agli effetti della responsabilità personale del magistrato ai sensi dell’art. 124 cod. proc. pen., non è specificamente sanzionato da nullità e quindi, in forza del principio di tassatività di cui all’art. 177 stesso codice, non influisce sulla validità della pronuncia giudiziale, né può essere ricondotto a una questione di capacità del giudice, sotto il profilo del dubbio sulla sua indipendenza, in quanto non esiste nell’ordinamento un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e segretezza. (Fattispecie relativa alla partecipazione alla camera di consiglio dei giudici popolari supplenti di corte d’assise)”.

Sez. 1, Sentenza n. 8737 del 13/12/2002 Ud.  (dep. 21/02/2003) Rv. 223695 – 01

Ed ancora: “L’inosservanza dell’art. 125, comma 4, cod. proc. pen., secondo il quale il giudice decide in camera di consiglio senza la presenza dell’ausiliario designato ad assisterlo e delle parti e la sua deliberazione è segreta, è sfornita di sanzione processuale; conseguentemente, la decisione del giudice collegiale deliberata all’esterno della camera di consiglio (nella specie, nell’aula di udienza) è valida, salva l’applicabilità di eventuali sanzioni disciplinari, dal momento che, a norma dell’art. 124 stesso codice, i magistrati sono tenuti ad osservare le norme del codice anche quando la loro inosservanza non importa nullità o altra sanzione processuale”.

Sez. 1, Sentenza n. 39928 del 22/10/2002 Cc.  (dep. 26/11/2002) Rv. 222719 – 01

Concludiamo l’esposizione con due digressioni, una letteraria e l’altra personale.

Per la prima consigliamo la lettura del testo la “Camera di consiglio” scritta dal magistrato veneziano Giancarlo Bagarotto, una piece teatrale coinvolgente ove i tre giudici nel ritirarsi nella camera di consiglio dialogano tra di loro.

Un piccolo estratto per i lettori di Terzultima Fermata:

Presidente: “Certo; e la decisione richiede del tempo. Bisogna farlo passare”.

Giudice: (con ironia). “In modo che la nostra decisione non sembri precostituita”.

Presidente: “Proprio per questo non ho fatto anticipazioni prima di ritirarci.

Il collegio deciderà qui e adesso se sia necessario proseguire la camera di consiglio….

Nella camera di consiglio per una decisione che sembrava semplice si tramuterà in un crescendo di meschine ansie, opportunismi, paure e sospetti, i tre sacerdoti della legge partoriranno la sentenza: vera e propria parodia della giustizia e ci sarà la sorpresa del drammatico finale che non sveliamo.

Dalla letteratura alle figure poco lusinghiere del sottoscritto.

Ieri pomeriggio al tribunale di Roma sono entrato in una camera di consiglio insieme ad un collega, perché dovevamo trovare l’interruttore per accendere le luci dell’aula per un convegno pomeridiano e non abbiamo resistito alla tentazione … uscendo abbiamo suonato insistentemente la campanella che richiama l’attenzione per l’uscita della corte … e usciti dalla camera di consiglio ci siamo trovati di fronte Lui … il Professore Avvocato Franco Coppi che, con un impercettibile e compassionevole movimento degli occhi,  ci ha ricordato che siamo rimasti dei bambinoni, della serie … “So ragazzi”.