Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 9181/2023 (udienza del 16 dicembre 2022), chiarisce i contorni dell’aggravante del metodo mafioso (art. 416-bis.1 cod. pen.).
Osserva il collegio che la circostanza è integrata allorché il delitto sia stato commesso “avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis” cod. pen. e, dunque, avvalendosi “della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva“.
Essa ricorre quando l’agente, non importa se partecipe o meno a sodalizio mafioso, commetta un delitto con metodo mafioso, attuando, cioè, una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica – vuoi nei confronti di soggetti determinati vuoi verso una collettività – evocando la sussistenza e presenza di una associazione di stampo mafioso.
Viene quindi in rilievo la condotta criminosa, che, per le modalità che la distinguono, sia già di per sé tale da evocare l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso.
La circostanza aggravante in parola non richiede un nesso teleologico con la realizzazione del programma criminoso del sodalizio, come invece nella fattispecie, sempre prevista dalla medesima disposizione, dell’agevolazione mafiosa.
La decisione in esame non si discosta dalle coordinate già tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, come si desume dalle pronunce riportate qui di seguito.
Per Cass. pen., Sez. 6^, sentenza n. 28112/2020, la circostanza aggravante del cosiddetto metodo mafioso è configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga ad un sodalizio del genere anzidetto. I caratteri mafiosi del metodo utilizzato per commettere un delitto non possono essere desunti dalla mera reazione delle vittime alla condotta tenuta dall’imputato, ma devono concretizzarsi in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata (nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che i giudici del merito non si fossero conformati ai parametri ermeneutici sopra esposti, avendo evinto la sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso dal richiamo fatto dall’imputato alla sua posizione di spicco della malavita e dalla potenzialità criminale delle sue minacce; in realtà le espressioni usate dall’imputato, pur connotate da un’indubbia valenza intimidatoria, non potevano di per sé sole dirsi oggettivamente idonee ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale, nella specie evocata solo in via solo mediata, potendo – in ipotesi – costituire il frutto di una – certamente deprecabile – esplosione d’ira, non supportata da alcuna intenzione di conferire colorazione mafiosa alla minaccia).
Per Cass. pen., Sez. 6^, sentenza n. 15852/2019, relativamente all’aggravante del “metodo mafioso”, va ribadito che si tratta di una fattispecie avente natura oggettiva, in quanto si riferisce alle modalità della condotta e non alle caratteristiche soggettive dell’agente, e che può manifestarsi anche attraverso un comportamento evocativo della forza intimidatoria dell’associazione mafiosa in forma larvata o implicita.
Secondo Cass. pen., Sez. 5^, sentenza n. 6764/2020, l’aggravante del metodo mafioso non presuppone necessariamente l’esistenza di un’associazione di stampo mafioso, essendo sufficiente, ai fini della sua configurazione, il ricorso a modalità della condotta che evochino la forza intimidatrice tipica dell’agire mafioso (nel caso di specie, concretatosi nell’aggressione ad un giornalista, tali modalità sono state così individuate: presenza di un “guardaspalle” durante l’intervista, simultanea aggressione al giornalista e all’operatore che stavano effettuando l’intervista, perpetrazione in pieno giorno dell’aggressione, rivendicazione della potestà di controllare il territorio e di cacciare chi non è gradito, evocazione dell’intervento di terzi che avrebbero danneggiato l’auto dei giornalisti ed il contesto omertoso nel quale l’azione era avvenuta).
Così ugualmente per Cass. pen., Sez. 6, sentenza n. 41772/2017, per la quale l’aggravante del metodo mafioso non richiede affatto che sia stata dimostrata, o anche solo contestata, l’esistenza di un’associazione per delinquere – né tanto meno, per l’effetto, che il soggetto agente ne sia partecipe – giacché ciò che rileva, risultando pertanto sufficiente ai fini dell’integrazione della circostanza, è che le modalità della condotta evochino la forza intimidatrice dell’agire mafioso, poiché l’aver ingenerato nella vittima la consapevolezza che l’agente appartenga ad un’associazione mafiosa, o comunque agisca su suo mandato, comporta il determinarsi di uno stato di peculiare soggezione della vittima stessa, che agevola la sua soccombenza di fronte alla forza della prevaricazione, così facilitando l’esecuzione del reato e rendendone poi difficoltosa la repressione. Sulla medesima questione, si muove in una prospettiva differente Cass. pen. Sez. 6^, sentenza n. 16888/2019, a parere della quale se è pur vero che il metodo mafioso, desunto dall’essersi avvalso delle condizioni previste dall’art. 416-bis, non richiede la prova dell’appartenenza dell’autore della minaccia ad una associazione mafiosa, è però necessario che l’associazione mafiosa delle cui forza intimidatrice l’autore del reato si avvale, deve essere se non realmente esistente quanto meno percepita come tale dalla persona offesa. Infatti, secondo il consolidato orientamento di legittimità, per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 DL 152/1991, ora riprodotta nell’art. 416-bis.1 non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere di stampo mafioso, essendo sufficiente, ma è necessario, che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa. Da ciò discende che la tipicità dell’atto intimidatorio necessario per la configurabilità di detta circostanza aggravante è ricollegabile non già alla natura ed alle caratteristiche dell’atto violento in sé considerato, bensì al metodo utilizzato ed al contesto in cui si inserisce, nel senso che la violenza con cui esso è compiuto deve risultare concretamente evocatrice di quella particolare efficacia intimidatrice che deriva dall’esistenza percepibile di un sodalizio che si connota delle peculiarità descritte dall’art. 416-bis, date dalla forza intimidatrice del vincolo associativo e dalla condizione di omertà ed assoggettamento che ne deriva.
