
Il tribunale di sorveglianza di Milano, con un’ordinanza depositata il 27 marzo 2023 (pubblicata in anteprima dalla rivista web Sistema Penale ed allegata alla fine del post) ha rigettato l’istanza di differimento pena nella forma della detenzione domiciliare presentata dalla difesa di Alfredo Cospito
La lettura della motivazione evidenzia che è stata decisiva ai fini del provvedimento l’adesione del collegio al consolidato indirizzo interpretativo di legittimità (espresso, tra le altre decisioni, da Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 39986/2019) per il quale “la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto dei medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali e obblighi di effettività della risposta punitiva, non potendosi pretendere tutela di un diritto abusato ed esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa“.
L’opinione del tribunale è poi ulteriormente esplicitata attraverso il richiamo di un ulteriore orientamento (tra le altre, Cass. pen., Sez. 1^, sentenza n. 17180/2022) secondo il quale “I trattamenti sanitari nei confronti del detenuto sono incoercibili ma, se potenzialmente risolutivi di condizioni di salute deteriori, in forza delle quali il detenuto medesimo chiede il differimento della pena, o una misura alternativa alla detenzione, la loro accettazione si pone come condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta“.
Questa posizione complessiva si incrocia con due questioni.
La prima attiene all’identificazione del diritto del quale l’istante avrebbe abusato.
L’istanza è stata presentata richiamando l’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen., a norma del quale l’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale può essere differita se deve essere eseguita nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica.
La formulazione letterale della disposizione rende chiaro che la grave infermità fisica non attribuisce a chi ne è affetto il diritto al differimento posto che il giudice competente dispone di un potere discrezionale, evidentemente da esercitare alla ricerca del miglior equilibrio possibile tra difesa sociale e tutela della salute del detenuto.
Non è dentro la norma invocata, allora, che si può trovare la soluzione.
Si deve necessariamente guardare alla Costituzione e al diritto all’autodeterminazione che trova nell’art. 32 una sua primaria ma non esaustiva specificazione.
Pare chiaro, in altri termini, che Alfredo Cospito, qualunque opinione si abbia delle sue motivazioni, sta usando il diritto ad autodeterminarsi, di cui gode come ogni altro essere umano, e lo sta facendo attraverso lo sciopero della fame.
Bisogna a questo punto chiedersi se tale modalità sia assimilabile ad un abuso.
La sua finalità dichiarata è ribellarsi, per sé e per chiunque altro si trovi nella sua condizione di detenuto soggetto al regime ex art. 41-bis Ord. Pen., al modo in cui, per effetto di interventi normativi e di orientamenti interpretativi, il regime medesimo è stato progressivamente inasprito fino a sacrificare o ridurre ai minimi termini sfere essenziali della persona umana.
Non sembra che questo fine sia di per sé abusivo e, se non lo è, non dovrebbe considerarsi abusiva neanche la condizione di grave infermità fisica che ne è il risultato.
Per essere ancora più chiari: tale condizione è assimilabile a un fatto determinato dall’esercizio legittimo di un diritto; se, dopo la verificazione di tale fatto, Cospito lo assume come presupposto di un’istanza volta al differimento di una pena detentiva, sembra improprio qualificarla come segmento di una manovra abusiva.
La seconda questione, di natura più generale, attiene alla possibilità di utilizzare in ambito penale il concetto di abuso del diritto.
C’è da chiedersi se questo parametro possa prendere legittimamente posto tra quelli utilizzabili dall’interprete o, più chiaramente, se spetti al giudice attribuire alle norme il significato che le difende più efficacemente da chi intende abusarne.
È obbligato a tal fine il confronto con la nozione di abuso del diritto che qui si assume nel significato di uso di una situazione giuridica soggettiva attiva ad opera del suo titolare per un fine diverso da quello per cui è stata prevista e tutelata dall’ordinamento (cosiddetto abuso funzionale).
Si tratta di un istituto non codificato che tuttavia ha attecchito in ambito civilistico per via giurisprudenziale. Ove ricorra, l’abuso è sanzionato negando efficacia e tutela allo schema che ne è frutto: un esempio è la valorizzazione della exceptio doli generalis seu praesentis nei contratti autonomi di garanzia allorché la garanzia sia escussa da parte del suo beneficiario con dolo, mala fede o abuso.
La questione si pone ben diversamente in ambito penale per il suo inevitabile incrocio con il principio costituzionale e convenzionale di legalità (artt. 25, comma 2, Cost. e 7 CEDU).
Il necessario punto di partenza è l’inesistenza di una norma positiva che configuri l’abuso del diritto come una clausola generale sull’ovvio presupposto che una norma del genere, se esistente, consegnerebbe al giudice un indebito potere creativo tale da frustrare il principio di determinatezza.
Né, in senso contrario, può trarsi spunto dai numerosi casi in cui il legislatore penale utilizza espressioni come “abuso” o “abusivamente” nella descrizione di una fattispecie.
A ben vedere, infatti, essi attengono a situazioni il cui presupposto è ordinariamente non l’uso deviato di un diritto ma la sua mancanza (esercizio abusivo di una professione, reati edilizi e paesaggistici) o l’approfittamento indebito di una situazione di prossimità ad individui vulnerabili o collettività suggestionabili (circonvenzione di incapace, abuso della credulità popolare).
Esistono per contro istituti esplicitamente finalizzati a reprimere condotte elusive come avviene, ad esempio, con la confisca per equivalente il cui presupposto è l’impedimento di condotte che consentirebbero al soggetto agente di conservare il godimento del prodotto, profitto o prezzo del reato. Ma è proprio la loro esistenza che dimostra la necessità di una previsione legislativa ed è la loro settorialità che evidenzia l’impossibilità di ricavarne per via interpretativa una clausola generale.
Una conferma in tal senso arriva dall’introduzione, dovuta al D.Lgs. n. 128/2015, dell’art. 10-bis nel corpo della L. n. 212/2000 (il cosiddetto Statuto del contribuente).
Il nuovo articolo ha unificato le nozioni di abuso del diritto e di elusione fiscale (comma 1) e ha sancito espressamente l’irrilevanza penale delle condotte abusive che dunque potranno essere sanzionate solo amministrativamente (comma 13).
Nasce in tal modo una nuova configurazione dell’abuso del diritto che si estende a tutta la materia tributaria. Per l’effetto, sono considerate compiute con abuso le operazioni prive di sostanza economica, tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti e prive di valide ragioni extrafiscali che soddisfino esigenze di miglioramento strutturale o funzionale.
In conclusione, pur dovendosi ammettere che l’abuso del diritto non sia affatto estraneo al legislatore penale ed anzi sia considerato un fenomeno da contrastare in taluni casi con adeguate tutele, è al tempo stesso innegabile che il suo ambito applicativo è ristretto a casi specifici la cui individuazione è necessariamente rimessa al legislatore.
Né sembrano possibili interpretazioni orientate alla prevenzione dal rischio dell’abuso del diritto.
L’unica giustificazione plausibile di questa tesi sarebbe il richiamo al criterio interpretativo della ratio legis contenuto nell’art. 12 delle Preleggi e dunque alla necessità di attribuire alla norma interpretata il significato che meglio salvaguarda l’intenzione del legislatore.
Un’operazione del genere comporterebbe tuttavia la violazione del divieto di analogia in malam partem sancito dall’art. 14 delle Preleggi, sul cui senso essenziale ha avuto modo di pronunciarsi assai di recente la Corte costituzionale con la sentenza n. 98/20219, escludendo tra l’altro che esigenze protezionistiche possano giustificare estensioni applicative incompatibili col tenore letterale della norma penale.
Sembra quindi decisamente inappropriato che il giudice adatti l’interpretazione all’esigenza di impedire l’abuso del diritto.
Si è consapevoli che la Suprema Corte non è di questo avviso e che mille commenti non valgono una sentenza.
Ma il pensiero è ancora libero e ne approfittiamo.

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