Gli effetti penali delle sentenze di condanna: ne fa parte la condanna alle spese processuali? (di Vincenzo Giglio)

L’elencazione normativa

Varie norme del codice penale contengono l’espressione “effetti penali“.

L’art. 2 comma 2: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

L’art. 20: “Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa”.

L’art. 77 comma 1: “Per determinare le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna, si ha riguardo ai singoli reati”.

L’art. 106: “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tiene conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena.

Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”.

L’art. 174: “L’’indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”.

L’art. 178: “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna,salvo che la legge disponga altrimenti”.

La stessa espressione è poi contenuta negli artt. 12, 556 comma 3 e 609 nonies.

Anche il codice di procedura penale contiene espliciti riferimenti in tal senso negli artt. 445, 572, 587, 622 e 669.

Dal canto suo la Legge 354 del 1975, meglio nota come Ordinamento penitenziario, prevede nell’art. 47 comma 12 che “L’esito positivo della prova estingue la pena e ogni altro effetto penale”.

Lo stesso fa l’art. 93 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/1990 (Testo unico sugli stupefacenti) il quale prevede l’estinzione della pena e di ogni altro effetto penale a beneficio del condannato per reati in materia di stupefacenti che li abbia commessi in conseguenza della sua condizione di tossicodipendenza, sempre che abbia attuato il programma terapeutico che gli è stato assegnato e non commetta nuovi delitti non colposi nel quinquennio successivo alla sospensione dell’esecuzione.

Una locuzione ricorrente, dunque, e nella maggior parte dei casi utilizzata in collegamento ad un fenomeno estintivo.

Serve allora comprenderne il significato e l’ambito applicativo.

Non si tratta di un’operazione semplice, per due ragioni essenziali: il legislatore non ha offerto alcuna definizione degli effetti penali; è sempre più intenso il collegamento di effetti pregiudizievoli operanti in ambito extra-penale a sentenze di condanna in sede penale.

La nozione giurisprudenziale

Il punto di partenza obbligato è facilmente individuabile nella ormai risalente sentenza n. 7/1994, emessa dalle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione nel procedimento VOLPE.

Il collegio chiarì nell’occasione che: “Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, “ope legis”, dalla sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale”.

Le Sezioni unite individuarono dunque tre requisiti indefettibili: l’esistenza di un rapporto causale necessario tra una condanna penale irrevocabile e l’effetto, l’automaticità di questo e la sua natura sanzionatoria che rimane tale anche allorché si esplichi in un ambito diverso da quello penale. L’orientamento espresso dal Supremo collegio non è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che anzi l’ha arricchito di nuovi e più avanzati significati.

Si legge ad esempio nella recente sentenza n. 32438/2016 della prima sezione penale della Corte di Cassazione che: “Per “effetto penale” della condanna deve intendersi ogni conseguenza di essa che si risolva in incapacità giuridiche o che comporti limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà o alla possibilità di ottenere benefici o che rappresenti il presupposto di inasprimento del sistema precettivo o sanzionatorio riguardante il successivo comportamento del soggetto”.

Il riferimento a concetti come incapacità giuridiche, limitazioni o preclusioni all’esercizio di facoltà e possibilità di ottenere benefici accentua significativamente la proiezione extrapenale degli effetti penali, che già le Sezioni unite del 1994 avevano riconosciuto.

L’effettiva latitudine della categoria degli effetti penali e la loro estensione agli ambiti extrapenali

È piuttosto controverso in dottrina se gli effetti penali possano dispiegarsi anche in ambiti diversi da quello di provenienza.

Un primo orientamento nega questa possibilità. Il suo fondamento viene principalmente individuato in un argomento di ordine letterale: il legislatore ha usato l’espressione “effetti penali della condanna”, anziché quella, pure astrattamente possibile, di “effetti della condanna penale”, intendendo così esplicitare che questa può produrre effetti solo nell’ambito suo proprio, quello della legge penale.

La ragione sottostante – si aggiunge – è l’affermazione del principio garantistico del favor rei che sarebbe frustrato se si ammettesse che l’affermazione di responsabilità in sede penale possa produrre conseguenze negative anche in ambiti differenti.

Un secondo e contrapposto orientamento ammette invece l’estensione extrapenale degli effetti penali.

Anche questa posizione dottrinale è dichiaratamente giustificata da un intento garantista. I suoi sostenitori ritengono infatti che la qualificazione in senso penalistico degli effetti pregiudizievoli nascenti da una sentenza di condanna è l’unico mezzo per assoggettarli alla disciplina propria degli istituti penali sostanziali e rendere quindi operative le garanzie derivanti dalla Costituzione e dai principi generali dell’ordinamento.

Questo secondo orientamento convince assai più del primo. Non solo perché avallato dalla giurisprudenza penale di legittimità con la sentenza 7/1994 e le successive, ma perché più adatto alla realtà legislativa di questi anni e ad offrire strumenti di salvaguardia della civiltà giuridica altrimenti inapplicabili.

È indiscutibile che il legislatore stia trasformando il diritto penale in una testa d’ariete, creando incessantemente nuove fattispecie incriminatrici, inasprendo quelle già esistenti, annichilendo l’equilibrio tra le parti processuali mediante scorciatoie probatorie collegate tra l’altro all’aumento costante dei reati di pericolo astratto e di sospetto.

Ma accade anche qualcos’altro: sempre più di frequente vengono varate leggi non penali che tuttavia assumono la condanna penale, talvolta anche non definitiva, come unico e indiscutibile presupposto genetico per la produzione di effetti giuridici svantaggiosi in danno dei destinatari.

Effetti destinati a incidere in modo pesante e in qualche caso irreparabile in aree costituzionalmente protette: non solo la libertà personale ma anche la proprietà, il patrimonio e il risparmio, il lavoro, il diritto di elettorato ed altro ancora.

Ecco, se si ritenesse che questi effetti non sono penali, si escluderebbe per ciò stesso che gli si applichino il fondamentale principio di legalità ed i suoi corollari della riserva di legge, tassatività, divieto di analogia, divieto di irretroattività sfavorevole; si assumerebbe che non rientrano nella sfera protettiva dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e i diritti fondamentali; si escluderebbe infine la loro cessazione in conseguenza di uno dei provvedimenti estintivi previsti dalla legge.

Non serve altro per dimostrare che un’eventualità del genere violerebbe precetti costituzionali primari e renderebbe quel diritto penale liquido ancora più punitivo e incoerente rispetto a quanto ci si attende da uno Stato di diritto.

Si ritiene perciò di ribadire convintamente che in una visione costituzionalmente orientata devono essere considerati effetti penali tutti gli effetti giuridici pregiudizievoli che posseggano i requisiti indicati dalle Sezioni unite con la sentenza 7/1994.

Requisiti che, è bene ricordarlo, sono perfettamente in sintonia con i criteri Engel affermati dalla Corte europea dei diritti umani nella sentenza Engel c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976.

Nella visione del giudice di Strasburgo, infatti, una misura ha natura penale se è classificata espressamente come tale dallo Stato che la sancisce o se è conseguenza della violazione di una norma che tutela beni giuridici dell’intera collettività o se ha una natura afflittiva grave, strumentale a fini di prevenzione sociale generale.

Le situazioni giuridiche classificabili come effetti penali

La conclusione appena tracciata equivale a riconoscere che la sentenza penale di condanna è idonea a produrre effetti non solo diretti, cioè compresi nell’ambito della cosa giudicata, ma anche indiretti, in grado di agire oltre quella nozione e i suoi limiti.

Il che è come dire, usando le parole di Francesco Carnelutti, che dalla sentenza deriva un giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo.

Non finisce qui però il compito dell’interprete, occorrendo ancora individuare in concreto le situazioni giuridicamente rilevanti che possiedono quei caratteri e producono quei risultati.

È un’operazione piuttosto complicata perché, come spesso accade nella scienza giuridica, soprattutto

quando il legislatore lascia briglie sciolte, il dibattito registra varie opinioni e orientamenti.

Le pene accessorie

La regolamentazione generale delle pene accessorie è contenuta negli artt. 19 e 20 del Codice penale.

Il primo le elenca e le differenzia secondo che si applichino ai delitti o alle contravvenzioni.

Il secondo ha cura di precisare che esse conseguono di diritto alla condanna in quanto effetti penali della stessa.

Il loro scopo, come suggerisce l’aggettivazione legislativa, è di completare il trattamento sanzionatorio del reo nei casi in cui risulterebbe inadeguato se affidato alla sola pena principale.

È opportuno evidenziare che, in virtù dell’espressa indicazione legislativa contenuta nel citato art. 20, le pene accessorie sono effetti penali delle sentenze di condanna, ponendosi rispetto a questi in rapporto di specie a genere.

Non sono mancati per la verità orientamenti che dubitano di quest’appartenenza ma il criterio letterale non lascia spazio a interpretazioni creative.

La questione vera è un’altra: esistono situazioni giuridiche che, pur non essendo classificate esplicitamente come pene accessorie, potrebbero comunque essere assimilate a queste, almeno secondo taluni orientamenti interpretativi.

Nel paragrafo che segue si parlerà specificamente di uno di essi.

Le spese processuali

Afferma l’art. 535 cod. proc. pen. che “La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali”.

Qual è il fondamento di questo obbligo, quale lo scopo che il legislatore si prefigge per suo tramite?

Un’ottima risposta è stata data dalla sentenza 98/1998 della Consulta.

La questione riguardava l’illegittimità dell’art. 188, comma 2, cod. pen. il quale, pur affermando l’intrasmissibilità agli eredi dell’obbligo del condannato di rimborsare le spese di mantenimento carcerario, non conteneva un’analoga disposizione per il rimborso delle spese processuali.

Con la citata sentenza, di natura additiva, la Corte costituzionale dichiarò fondata la questione, affermando l’illegittimità della disposizione per contrasto con gli artt. 3 comma 1 e 27 comma 2 Cost.

Ritenne decisivo a tal fine l’art. 56 dell’Ordinamento penitenziario il quale ha ammesso la rimessione del debito per le spese processuali e di mantenimento carcerario a favore dei condannati e internati che si trovino in disagiate condizioni economiche e abbiano tenuto una condotta regolare.

L’introduzione di tale istituto, soprattutto alla luce dei suoi presupposti soggettivi e oggettivi, indusse la Consulta a ritenere che il rimborso delle spese processuali avesse mutato la sua natura giuridica: “non più obbligazione civile retta dai comuni principî della responsabilità patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalità di questa. Il solo fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare denota [] il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull’adempimento dell’obbligo economico [] non a caso, ai fini della rimettibilità, il debito per spese processuali viene assoggettato alla medesima disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era già riconosciuta proprio dall’articolo 188, secondo comma, del codice penale, nonostante la collocazione di quest’ultimo debito tra le obbligazioni civili conseguenti al reato: collocazione che a seguito della entrata in vigore dell’articolo 56 dell’ordinamento penitenziario ha perduto la sua, peraltro assai tenue, attitudine qualificatoria”.

In un altro passaggio motivazionale, la sentenza evidenzia “le nuove potenzialità dell’istituto della remissione, ispirato da un lato a una finalità premiale per la regolare condotta tenuta dal condannato, indice di ravvedimento e di avvenuto recupero; e, dall’altro, a una finalità di agevolazione del reinserimento sociale, realizzata con la rimozione delle ulteriori difficoltà di ordine economico in cui altrimenti verrebbe a trovarsi il condannato in ragione delle sue già disagiate condizioni”.

Una decisione chiara, ben argomentata e proveniente dal giudice delle leggi. Poteva e doveva costituire un approdo definitivo, almeno secondo il comune mortale ma così non è stato.

La quinta sezione penale della Corte di cassazione, pronunciatasi sul medesimo argomento con la sentenza 28081/2013, ha ritenuto che “la modificazione in quei termini della natura del debito di rimborso delle spese processuali, rilevata dalla Corte Costituzionale [] non comporta necessariamente che l’obbligazione di pagamento delle spese processuali abbia preso, in tutto e per tutto, le caratteristiche di una vera e propria pena accessoria [] ciò viene confermato dalla circostanza che la pronuncia della Corte Costituzionale ha ricalibrato il regime dell’obbligo al rimborso delle spese processuali su quello del rimborso delle spese di mantenimento in carcere, con l’intervento sul secondo comma dell’articolo 188 c.p., ed estensione al debito di pagamento delle spese processuali della relativa disciplina di personalizzazione dell’obbligo, che peraltro il primo comma del medesimo articolo sottopone inequivocabilmente alla disciplina delle leggi civili”.

È chiaro, e non lo si vuole certo negare, che l’interpretazione giuridica è libera.

Ma dovrebbero far parte del suo standard minimo la correttezza e la precisione dei riferimenti.

La lettura della sentenza 98/1998 fa comprendere che la Consulta ha escluso con la massima chiarezza la natura di obbligazione civile del debito per le spese processuali e quelle di mantenimento. La pronuncia della Cassazione, dimentica di questa esclusione, risulta quindi fondata su un presupposto oggettivamente errato.

Se ne prende atto e proprio per questo si ritiene di ribadire la convinzione che le spese processuali, al pari di quelle per il mantenimento carcerario, non sono un’obbligazione civile ma una sanzione accessoria alla pena sicché rientrano a buon diritto nel genus degli effetti penali della sentenza di condanna e possono conseguentemente estinguersi in presenza dei presupposti di legge.