Il Giudice e l’imputato: “Per giudicare un uomo bisogna capirlo”, scrive un giudice. Chi è questo giudice? (di Riccardo Radi)

Quale giudice è così attento e scrupoloso da immedesimarsi nell’imputato che deve giudicare, lo scoprirete solo alla fine della lettura; come tutti i gialli che si rispettano.

Nella frase virgolettata è racchiusa una straordinaria e spesso dimenticata verità che dovrebbe accompagnare tutte le donne e gli uomini chiamati a giudicare.

… ero un giovane giudice a latere della Corte d’assise.

Alla mia destra sedeva il presidente, un anziano magistrato dall’aria cupa e severa.

Alzandosi, brandì il microfono con la mano destra.

Tossì tre, quattro volte.

Quindi, con la mano sinistra spiegò un foglio davanti a sé.

La sentenza.

Alzò un attimo lo sguardo e zittì il vocio del pubblico.

Si fece silenzio, il silenzio dell’attesa.

Era tutto pronto per la lettura delle parole spietatamente burocratiche che erano state sigillate pochi minuti prima nel segreto dell’attigua camera di consiglio.

A pochi metri da noi l’imputato, un uomo di poco più di cinquant’anni, stringeva le sbarre della gabbia e scrutava dritto in viso gli esseri umani che stavano per decidere il suo destino.

Erano gli otto giudici della Corte, cinque uomini e tre donne.

Io ero uno di loro.

Fissai le sue mani strette intorno al metallo.

Doveva essere gelido.

Poi alzai lo sguardo su di lui.

I suoi occhi, neri e venati di sangue e di paura, fissarono i miei.

Ebbi un fremito.

Un attimo dopo, intuii qualcosa di più.

Il suo sguardo esprimeva terrore, stanchezza, speranza, attesa, smarrimento.

Era lo sguardo di un essere umano rivolto a un altro essere umano che aveva il potere di annientarlo o di salvarlo.

Quell’uomo mi stava dicendo qualcosa.

Sapeva che un uomo uguale a lui, aveva in pugno il suo futuro.

In quell’istante senza fine, alcune domande mi attraversarono la mente.

Perché ero io a occupare lo scranno del potere ed era lui a essere sottoposto al mio arbitrio?

Chi ero io per giudicare un altro uomo?

Ero più intelligente, più forte, o solo più fortunato di quell’omaccione con i radi capelli rossicci e il volto scavato dall’insonnia?

Possedevo l’umanità necessaria per compiere quell’atto disumano che è il decidere della vita di un altro uomo?

La drammatica asimmetria del processo e l’inevitabile violenza della legge erano di fronte a me, incarnate nella figura dell’imputato la cui vita era appesa al nostro giudizio.

In quel momento ricordai una massima di mio padre: “Per giudicare un uomo, bisogna capirlo”.

È troppo facile giudicare ciò che non si conosce.

È straordinariamente difficile, invece, capire l’uomo sottoposto al tuo giudizio.

Per dirla con Oscar Wilde, “dietro un delitto c’è una vicenda umana molto più interessante del delitto stesso”.

L’imputato che mi scandagliava con gli occhi pretendeva, dunque, che io scoprissi la verità su di lui, prima ancora che sul singolo atto per cui veniva giudicato.

I suoi occhi spiritati e il suo viso pallido, lunare, mi chiedevano di analizzare il significato non solo dell’azione delittuosa, ma anche e soprattutto dell’esistenza che l’aveva preceduta e provocata.

Mi aspettava il compito terribile della ricerca della verità di un’esistenza umana.

Si, ma quale verità?”.

Francesco Caringella, 10 lezioni sulla giustizia, Mondadori