Istituita la Commissione antimafia della XIX legislatura (di Vincenzo Giglio)

Come d’abitudine da parecchie legislature, anche in quella in corso è stata istituita, tramite la L. n. 22/2023, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 62 del 14 marzo 2023, la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, assai più familiare agli italiani col nome di Commissione antimafia.

Fu istituita per la prima volta nella terza legislatura (iniziata nel 1958) ma lo scioglimento anticipato del Parlamento fece sì che neanche iniziasse i suoi lavori.

A partire dalla legislatura successiva, fatta eccezione per la settima, la Commissione è stata sempre istituita, dapprima con 30 membri e poi con 50 (divisi equamente tra senatori e deputati, trattandosi di un organismo bicamerale) dall’undicesima in avanti.

Come spesso accade nel dibattito nazionale, i pareri sulla sua utilità sono assai discordi.

Ci sono quelli ferocemente critici: così, tra gli altri, quelli di Aldo Varano per il Dubbio (“Sessanta anni di inutilità“, a questo link) e di Riccardo Lo Verso per Il Foglio (“Niente paura, la Commissione si insedierà, E continuerà a credere ai pataccari“, a questo link).

E ci sono quelli che, al contrario, esprimono convinta adesione: così Roberto Scarpinato su Antimafia Duemila (“Serve commissione antimafia. Allarme ergastolo ostativo“, a questo link) e ancora lui qualche tempo dopo su Agenparl.eu (“Istituire commissione antimafia non basta, da Governo direzione sbagliata“, a questo link).

Al fondo di questa irriducibile contrapposizione ci sono chiaramente due diversi modi di considerare cosa sia corretto fare per fronteggiare la sfida mafiosa.

C’è chi pensa che le Commissioni antimafia, soprattutto quelle delle ultime legislature, si siano trasformate in una delle tante postazioni del sottobosco politico, da assegnare a chi è uscito dai giri che contano col vantaggio aggiuntivo di una tribuna di non poco conto.

In questo ambito si tende inoltre a far notare che gli atti tipici della Commissione antimafia (audizioni, relazioni, ove occorra sequestri, e le conseguenti e solitamente affollate conferenze stampa) servono a battaglie politiche e alla rimozione di sassolini e macigni dalle scarpe più che a soddisfare reali esigenze conoscitive.

Sul fronte contrapposto si colloca invece chi pensa che il patrimonio di conoscenze acquisito nei decenni grazie alle Commissioni debba essere costantemente rivitalizzato e aggiornato, che lo si debba fare dando il giusto spazio a chi la battaglia l’ha fatta sul campo, che comunque e infine sarebbe un bruttissimo segnale se il Parlamento, non rinnovando l’esperienza della bicamerale, comunicasse l’idea che la lotta alle mafie non è più una priorità.

C’è probabilmente del vero in entrambe le posizioni.

Una cosa, tuttavia, sembra decisamente vera.

Di legislatura in legislatura, le Commissioni antimafia che si sono susseguite hanno accentuato la loro connotazione ideologico-politica che è ovviamente dipesa dalla maggioranza parlamentare di cui erano espressione.

Questo fattore, già di per sé negativo non addicendosi ad una commissione conoscitiva un orientamento predefinito, ha generato un atteggiamento culturale ed ha fatto nascere e consolidare un vero e proprio ceto.

L’atteggiamento, in linea con una sensibilità politica sempre più diffusa, è quello del privilegio accordato alla funzione accusatoria i cui esponenti sono gli interpreti più accreditati allorché  occorrano analisi di insieme e chiavi di lettura del fenomeno mafioso e della sua costante trasformazione.

Il ceto è quello della pletora di esperti e consulenti chiamati a collaborare con le Commissioni i quali, vuoi per convinzione profonda, vuoi per conformazione progressiva alla “sensibilità” del momento, finiscono per alimentare e rafforzare quell’atteggiamento, con l’autorevolezza che viene dal loro ruolo di detentori del sapere specialistico e del know how dell’antimafia.

È un rischio sempre latente, questo, che sarebbe bene provare a ridurre poiché, se è vero che le mafie sono un fenomeno “liquido” nel senso baumaniano del termine, ad esse non si addicono le certezze, le parole d’ordine che non ammettono repliche, le idee fisse.