Esame e controesame, le prassi degenerative e le dimenticate linee guida redatte da magistrati, avvocati ed esperti di psicologia della testimonianza (Riccardo Radi)

L’art. 499 c.p.p. prevede che l’esame si debba svolgere su fatti specifici (a domande e risposte) senza consentire al teste di raccontare liberamente la sua esperienza, e che le domande debbano essere pertinenti.

Ciò è meglio specificato dall’art. 194, comma 3, c.p.p., il quale richiede che l’esame avvenga sui fatti che costituiscono oggetto di prova, ossia quelli che ex art. 187 c.p.p., si riferiscono all’imputazione, così per come formulata dal PM nel capo d’imputazione, mentre la pertinenza è assicurata dal Giudice.

L’esigenza di porre domande su fatti determinati nasce dalla necessità di incanalare l’esame su dati che si fondano su una conoscenza personale, de visu o de audito, del testimone.

La breve premessa normativa serve ad introdurre la riflessione dell’avvocato Valerio Spigarelli che in tema ha rilasciato il 23 dicembre 2021 una intervista ricca di spunti, ecco il link per la consultazione («Ora nuove regole per il controesame, i giudici sono rimasti all’inquisitorio» (ildubbio.news).

Riportiamo i passi più salienti:

<<Abbiamo introdotto la tecnica dell’esame e del controesame con la riforma del 1989, per tradurre in pratica il metodo del contraddittorio nella formazione della prova.

Lo abbiamo fatto riconoscendo che il contraddittorio è il modo migliore per arrivare alla verità.

Purtroppo la prassi applicativa da subito ha prodotto una marea di degenerazioni. Il problema è che il contraddittorio vero, quello in azione, non è mai stato digerito dalla maggioranza dei magistrati italiani, in particolare dai giudici, anche in tema di esame testimoniale.

Pensi che da un questionario somministrato a un campione di giudici, pm e avvocati, dall’Università di Torino nel 2004, quindi a 15 anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, è emerso che oltre il 50 per cento dei giudici sentiva che il loro ruolo, rispetto al passato, per quanto concerneva l’esame testimoniale, “non si era modificato in modo significativo”, eppure le regole dal codice inquisitorio a quello accusatorio erano state rivoluzionate. Ma in effetti rispondevano il vero: regole nuove ma modi di comportarsi da codice inquisitorio. “Tutto cambia perché nulla cambi”.

In questo sistema approfondiamo il ruolo che ha il giudice.

Non è un ruolo notarile: ha sempre la possibilità di intervenire per avere dei chiarimenti, ed è giusto perché è lui che decide.

Però non deve essere un giudice bulimico, invadente, che non considera, per esempio, che le parti, pm e difensore, hanno una serie di informazioni preventive che lui non ha. Il giudice vede per la prima volta il testimone in aula e solo lì apprende la sua versione, deve essere recettivo, non protagonista.

La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio, in cui ricoprivano il ruolo di dominus. In quel sistema erano le parti a chiedere al giudice di poter porre una domanda che poi veniva rivolta al teste dal giudice stesso. Questa cultura inquisitoria sulla prova è sopravvissuta al mutamento del codice.

Di conseguenza il giudice si rende protagonista di indebite interferenze … anche perché la giurisprudenza ha sempre negato, in questi casi, che ci si trovi dinanzi a ipotesi di nullità o di inutilizzabilità.

Si parla di mere irregolarità nella conduzione dell’esame che però non portano all’invalidazione dello stesso. E questo dipende dal fatto che il codice dell’89 non prevede specifiche sanzioni processuali in questi casi, tranne in rarissime ipotesi, quando, per esempio, il giudice impedisce a una delle parti di svolgere l’esame o il controesame.

Tendenzialmente è l’apparato normativo che è imbelle dinanzi alle numerose prassi degenerative, ma anche l’avvocatura è troppo arrendevole di fronte alla disapplicazione delle regole in questo campo.

A tal proposito, quando sento e leggo che non c’è dialogo tra avvocatura e magistratura sul tema, o che si fanno pochi convegni, ricordo già che nel lontano 2003 si dibatté, a Siracusa, presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali, proprio di “prassi degenerative dell’esame e controesame”. Ciò portò, nel 2008, alla nascita del La.p.e.c., Laboratorio permanente esame e controesame, su iniziativa di Ettore Randazzo.

Un gruppo di lavoro, formato da avvocati, magistrati, professori, ormai presente in molti Tribunali italiani, che da allora organizza convegni in materia. Il La.p.e.c., nel marzo 2010, elaborò le Linee guida per l’esame incrociato nel giusto processo, dopo un ciclo di incontri durato anni, che coinvolse magistrati di altissimo livello come Canzio, Iacoviello, Fumu, Bricchetti, professori come Spangher e Amodio, avvocati cultori della materia come Antonio Forza e anche esperti di psicologia della testimonianza come il professor Sartori. Una sorta di vademecum virtuoso sull’esame dei testi>>

Vediamo quali sono i punti principali di queste linee guida.

Primo: il rispetto della regola del codice che prescrive che lista testimoniale deve contenere l’indicazione specifica delle circostanze oggetto dell’esame. Questa è la prima regola vanificata dalla giurisprudenza: oggi nelle liste dei pm leggiamo ‘cito Tizio sui fatti di causa’, in maniera estremamente generica.

Secondo: il giudice ha un suo momento per fare le domande, ossia dopo l’esame e il controesame, per investigare aspetti che le parti non hanno toccato. Oppure può intervenire per vietare domande non ammesse, ma non deve debordare e deve rispettare e far rispettare la turnazione nelle domande.

Terzo: per il codice chi fa l’esame diretto non può fare domande che suggeriscono la risposta, lo può fare solo chi fa il controesame. Ma al contempo permette che la domanda vietata possa essere riformulata: ciò è sbagliato, perché ormai il suggerimento al teste è arrivato e va impedito. Infine la previsione più simbolica: il divieto per il giudice di utilizzare domande “che tendono a suggerire la risposta”.

Perché, che succede in pratica?

Incredibilmente la giurisprudenza permette domande suggestive da parte del giudice ritenendo che il divieto che il codice stabilisce per chi fa l’esame diretto sia posto per evitare i rischi di combine fra il testimone e chi lo introduce; e siccome il giudice non introduce testi, e per definizione non è sospetto di combine, per lui il divieto non vale. Ma la domanda suggestiva è un “suggerimento della risposta” che, se proviene dal giudice, perde la sua funzione di test sulla credibilità del testimone. Quando è il giudice che suggerisce le risposte il teste si adegua perché vede nel giudice l’autorità assoluta del processo, le combine non c’entrano nulla. Fortunatamente alcune sentenze hanno riconosciuto che il divieto di porre domande suggestive vale anche per il giudice.

Dai racconti che abbiamo fatto sembra che i giudici impediscano al difensore di stressare la prova ma poi lo facciano loro?

Esatto. Se il giudice è insoddisfatto, magari secondo il suo pregiudizio, di come sta andando la prova testimoniale, ad esempio il controesame della parte offesa, si inserisce indebitamente con domande suggestive. E quando l’avvocato fa presente che non può fare quel tipo di domande, l’80% dei giudicanti sgrana gli occhi: non solo non conoscono le Linee guida di La.p.e.c. e il dibattito che le ha prodotte ma neppure le sentenze che lo hanno riconosciuto. Soprattutto non conoscono le norme che già esistono. Le faccio un esempio. Secondo l’articolo 507 cpp il giudice può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. In questo caso l’articolo 151, comma 2, delle Disposizioni di attuazione stabilisce che dopo aver posto delle domande al teste il giudice indica “la parte che deve condurre l’esame diretto”. Quindi alla fine il giudice non può fare mai l’esame diretto, ovviamente, né, men che meno, il controesame. Siccome le domande suggestive le può fare solo chi conduce il controesame il giudice non le può fare>>

Quanti spunti e quante verità nelle parole del collega Valerio Spigarelli, le sue riflessioni trovano conferma nella Giurisprudenza più recente della Suprema Corte che in tema di regole sull’assunzione della prova testimoniale ha più volte stabilito di fatto il “libero arbitrio del giudicante”.

Tra le tante: cassazione sezione 5 sentenza numero 24873, udienza 25 febbraio 2022, depositata il 28 giugno 2022 che ha ribadito che il divieto di porre domande suggestive nell’esame testimoniale non opera nei confronti del giudice.

La Suprema Corte ha ritenuto che le domande suggestive rivolte dal giudice non sono soggette al divieto previsto dall’articolo 499 comma 3 c.p.p., in quanto il divieto di porre domande suggestive nell’esame testimoniale non opera con riguardo al giudice il quale, agendo in un’ottica di terzietà, può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità (Sez. 3, n. 21627 del 15/04/2015, Rv. 263790; conformi Rv. 240261 e Rv. 260899) ad esclusione di quelle nocive, in relazione alle quali la relativa eccezione deve essere proposta nel corso dell’acquisizione dell’atto istruttorio e non può essere sollevata per la prima volta con l’atto d’impugnazione (Sez. 1, n.44223 del 17/09/2014, Rv. 260899; conformi: Rv. 232385; Rv. 242255; Rv. 249890).

Gli Ermellini osservano in primo luogo che non risulta tempestivamente contestata la formulazione di domande del giudice nel corso dell’esame. In ogni caso laddove questo non risulti conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, ciò non dà luogo a nullità, non essendo riconducibile alle previsioni di cui all’art. 178 cod. pen., né ad inutilizzabilità, trattandosi di prova assunta non in violazione di divieti posti dalla legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte (Sez. 6, n.28247 del 30/01/2013, Rv. 257026).

In secondo luogo è appena il caso di rilevare come il divieto di domande suggestive posto dall’art. 499 comma 3 c.p.p. ha ad oggetto esclusivamente l’esame dei testimoni e delle parti private eseguito nel dibattimento e comunque, per consolidato insegnamento di questa Corte, non opera con riguardo al giudice, il quale, agendo in un posizione di terzietà, può rivolgere tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive (ex multis Sez. 5, n. 13425 del 21/02/2022).).

Infine va comunque ribadito che la violazione del divieto di porre domande suggestive non comporta né l’inutilizzabilità né la nullità della deposizione, non essendo prevista una tale sanzione dall’art. 499, comma 3, c.p.p., né potendo la stessa essere desunta dalle previsioni contenute nell’art. 178 c.p.p. (ex multis Sez. 3, Sentenza n. 49993 del 16/09/2019, Rv. 277399).

A tal proposito si presa che l’assunzione della prova testimoniale direttamente a cura del giudice, pur non essendo conforme alle regole che disciplinano la prova stessa, non dà luogo a nullità, non essendo riconducibile alle previsioni di cui all’art. 178 c.p.p., né ad inutilizzabilità, trattandosi di prova assunta non in violazione di divieti posti dalla legge, ma con modalità diverse da quelle prescritte (Sez. 6, n. 28247/2013, Rv. 257026, Sez. 3, n. 45931/2014, Rv. 260872).

La cassazione chiosa rilevando che le doglianze sul modo di conduzione del dibattimento da parte del giudicante, il quale avrebbe condizionato le deposizioni testimoniali mediante interventi senza il rispetto delle regole del contraddittorio, non può conseguire alcun risultato utile in sede di impugnazione; prescindendo dalla considerazione che la violazione dell’art. 506 c.p.p., non è sanzionata a pena di nullità da alcuna norma, ogni eventuale questione attinente alla conduzione del processo deve essere immediatamente contestata dalle parti e formalizzata nel corso del dibattimento e la decisione o mancata decisione sull’incidente, può assumere rilevanza nel giudizio di impugnazione, solo in quanto si accerti che essa abbia comportato la lesione dei diritti delle parti o viziato la decisione ( Sez. 6, n. 909/2000, rv. 216626; Sez. 4, n. 1022/2015, Rv. 265737).

Ed ancora, la Suprema Corte ha affermato più volte i condivisi principi secondo i quali stante il principio di tassatività delle nullità, la violazione dell’ordine di assunzione delle prove, disciplinato dall’art. 496 cod. proc. pen., non è presidiata da alcuna sanzione di carattere processuale (Sez. 6, Sentenza n. 3388 del 04/12/2002 Ud. – dep. 23/01/2003 – Rv. 224057; Conformi: Sez. 6, Sentenza n. 9072 del 22/10/2009 Ud. – dep. 06/03/2010 – Rv. 246169; Sez. 2, Corte di Cassazione – copia non ufficiale Sentenza n. 6914 del 25/01/2011 Ud. – dep. 23/02/2011 – Rv. 249362).

Inoltre, la violazione delle regole per l’esame dibattimentale del testimone non dà luogo né alla sanzione di inutilizzabilità, poiché non si tratta di prova assunta in violazione di divieti posti dalla legge, ma assunta con modalità diverse da quelle prescritte, né ad una ipotesi di nullità, atteso che l’inosservanza delle norme indicate non è riconducibile ad alcuna delle previsioni delineate dall’art. 178 cod. proc. penale (fattispecie in cui l’esame di un testimone disposto ex art. 507 cod. proc. pen. era stato condotto dal pubblico ministero e non dal giudice in contrasto con quanto previsto dall’art. 151, comma secondo, disp. att. cod. proc. pen. Sez. 2, Sentenza n. 51740 del 03/12/2013 Ud. – dep. 23/12/2013 – Rv. 258114).

Infine, si deve ricordare che l’assunzione di una testimonianza ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. in un momento diverso da quello indicato dalla norma (“terminata l’acquisizione delle prove”) costituisce mera irregolarità, non essendo la stessa affetta da inutilizzabilità o da nullità di ordine generale ricollegabile all’art. 178, lett. c), cod. proc. pen., in quanto l’escussione di un teste, “anticipata” rispetto al termine di acquisizione delle prove, non può incidere sull’assistenza, sulla rappresentanza o sull’intervento dell’imputato (Sez. 3, Sentenza n. 45931 del 09/10/2014 Ud. – dep. 06/11/2014 – Rv. 260871).