“Droga parlata”: quando l’esistenza di un “fatto” si presta a tante interpretazioni (di Riccardo Radi)

Lo scritto, già pubblicato nel fascicolo n. 2/2022 della rivista Percorsi penali edita da Filodiritto, analizza i canoni valutativi imposti dalla giurisprudenza di legittimità nei giudizi per violazioni della normativa sugli stupefacenti nei quali la disponibilità delle sostanze di stupefacenti e il loro uso illecito siano desunti esclusivamente da conversazioni captate mediante intercettazioni telefoniche o tra presenti.

Premessa definitoria

L’espressione “droga parlata” che dà il titolo a questo scritto definisce i casi nei quali taluno sia accusato in sede penale per violazione delle fattispecie incriminatrici previste dal DPR 309/1990 e gli elementi dimostrativi proposti dall’accusa derivino esclusivamente dai risultati conoscitivi acquisiti mediante intercettazioni telefoniche o tra presenti.

Nei relativi giudizi mancano dunque prove “fisiche” della reale esistenza della sostanza stupefacente, della sua tipologia, del suo peso complessivo e della quantità di principio attivo che se ne può ricavare.

Mancano ugualmente prove dirette dell’uso illecito della sostanza stupefacente.

Indirizzi interpretativi di legittimità

La particolarità dei casi di “droga parlata” ha indotto la giurisprudenza di legittimità a pretendere dai giudici di merito un elevato rigore valutativo.

In altri termini, è richiesto al decidente un uso estremamente sorvegliato e attento delle inferenze indiziarie del quale deve dar conto in modo capillare ed analitico così che risultino dimostrati l’inesistenza di tesi alternative a quella dell’accusa e, più in generale, il superamento del ragionevole dubbio.

Il ragionevole dubbio e il suo superamento

Sul punto si è espressa di recente Cass. Pen., sez. IV, sentenza n. 9710/2022, secondo la quale «l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. consente la possibilità di desumere un fatto da indizi alla condizione che questi siano gravi, precisi e concordanti: questa disposizione, finalizzata a «circondare di cautele la valutazione di una prova ritenuta infida», oggi deve essere necessariamente letta unitamente al principio contenuto nell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui la colpevolezza dell’imputato deve risultare «al di là di ogni ragionevole dubbio».

Ciò comporta che, soprattutto in presenza di prove indiziarie, il giudice di merito, al quale vengano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, non può adottarne una, che conduce alla condanna, solo perché la ritiene più probabile delle altre, in quanto la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in natura”, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 1, n. 1792 del 03/03/2010, Giampà; Sez. 1, n. 23813 del 08/05/009, Manickam). In altri termini, il procedimento logico deve condurre alla conclusione caratterizzata da un alto grado di credibilità razionale, quindi alla “certezza processuale”».

Questa pronuncia, emessa non a caso in un procedimento in cui si trattava di “droga parlata”, serve a ricordare alcuni capisaldi della prova indiziaria, definita “infida”, ed è certamente tale quella desunta esclusivamente da conversazioni intercettate. Occorre dunque che, in esito alla valutazione del complesso degli elementi disponibili, non residui alcuna ipotesi alternativa credibile a quella dell’accusa, non essendo sufficiente che quest’ultima sia la più verosimile, così come è indispensabile che la conclusione raggiunta dal giudice abbia un alto grado di credibilità razionale.

Gli elementi utilizzabili per la decrittazione delle conversazioni intercettate

La giurisprudenza di legittimità ricorda costantemente che l’attribuzione di senso alle conversazioni è una questione di fatto demandata esclusivamente al giudice di merito e sulla quale il giudice di legittimità può intervenire solo ove l’operazione interpretativa risulti manifestamente irrazionale.

È comunque utile comprendere quali chiavi di lettura e quali elementi siano considerati adeguati in sede di legittimità.

Un esempio recentissimo è offerto da Cass. Pen., sez. III, sentenza n. 14539/2022 in questi termini:

«il profilo illecito dell’operazione è stato adeguatamente ricavato, nelle sentenze:

a) dal richiamo all’unica attività (pacificamente) svolta da […];

b) dal contenuto criptico delle conversazioni, con brevi cenni subito compresi dagli interlocutori, a segnare meccanismi già conosciuti;

c) dal riferimento alle modalità di pagamento ed ai possibili trattamenti punitivi, in caso di insolvenza, espressione ulteriore di un contesto contra legem. E senza che rilevi, poi, il mancato richiamo ai quantitativi o ai prezzi della sostanza, dato che lo […] aveva comunque: a) recepito la richiesta di droga;

b) indirizzato il potenziale acquirente da colui che – in libertà – lo avrebbe potuto soddisfare, lasciando a questi la definizione dell’accordo.

Non può essere accolta, poi, neppure la considerazione difensiva secondo cui sarebbe illogico che un soggetto, che ha appena comprato sostanza, si rivolga ad un diverso spacciatore per prenderne ulteriori quantitativi […]: in disparte il carattere fattuale della circostanza, peraltro non specificata nei suoi riferimenti istruttori, si osserva che la stessa si esaurisce in una mera illazione, come tale inidonea a scardinare la motivazione appena richiamata […] La Corte di appello, come già il Tribunale, ha infatti richiamato una conversazione dello stesso giorno tra […] ed il suocero, nella quale i due avevano discusso di prezzi di vendita, da praticare e già praticati, lasciando intendere che questi potessero variare; nella stessa occasione, poi, si era parlato di una qualche cosa “normale”, “sana” o “toccata”, messa a “55” o a “60”, quel che – con argomento congruo – i Giudici di merito hanno riferito allo stupefacente, puro o tagliato, ed al prezzo (verosimilmente) al grammo. Il fatto che […] non fosse perfettamente aggiornato su queste tariffe (“A quanto la mettevi normale? Manco ‘o sapevo che gliela davi toccata”), poi, è stato giustificato dalla Corte – con motivazione tutt’altro che illogica – con la circostanza che lo stesso era da poco uscito dal carcere, da dove, pur potendo tenere contatti con sodali e con potenziali acquirenti, poteva tuttavia non esser al corrente di tutti i dettagli operativi (come il prezzo al grammo), lasciandoli gestire a chi stava all’esterno […] Muovendo da questa premessa, i Giudici del merito hanno quindi affermato la responsabilità dello […] con riguardo al capo in esame: – quanto a [B…] il ricorrente aveva proposto di metterla a “60”, ma l’altro aveva ribattuto di aver già chiuso a “55” (B. risultava un soggetto che acquistava piccole quantità). […], a quel punto, si era mostrato insoddisfatto dell’accordo preso dal suocero, proponendo di rivederne i termini (“Gli dico: a B., io non je la faccio. Ci parlo io con B., che problema c’è?”).

Peraltro, visto che “B.” non era solito pagare puntualmente, […] aveva allora suggerito di consegnare una minor quantità di sostanza, quella che l’acquirente era in grado di pagare contestualmente (“E non gliene dai, dagliene dieci”); – quanto a “S.”, il prezzo concordato era inferiore, perché il soggetto garantiva acquisti di maggior entità e pagava puntualmente.

Esplicito, al riguardo, il riferimento a “S. (che) ne piglia 30…ma poi S. paga”; – era stata provata la detenzione di un etto di sostanza, “aperta” da S. e dalla quale era state ricavate le dosi da cedere, preparate da I.

La lettura congiunta della conversazione, dunque, ha condotto i Giudici del merito a confermare l’ipotesi accusatoria; la Corte di appello, in particolare, ha sottolineato, per un verso, che non era stata neppure proposta un’interpretazione alternativa di questa intercettazione e, per altro verso, che l’unico motivo emerso che potesse giustificare rapporti economici con il clan C. era, per l’appunto, il traffico di stupefacenti.

Una lettura con la quale, peraltro, è stata riconosciuta l’ipotesi consumata del reato di cessione, confermata da un accordo raggiunto nei suoi elementi essenziali (qualità, quantità e prezzo), non da una mera e generica programmazione o soltanto da un proposito (in linea, tra le altre, con Sez. 4, n. 6781 del 23/1/2014, Bekshiu, Rv. 259284).

Dal che, ancora, il logico inserimento del capo nella più ampia fattispecie dell’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990, quale reato-fine ed espressione di un’associazione dedita stabilmente allo spaccio di sostanze, tanto da avere tariffari (da modellare sulle diverse esigenze) e numerosi clienti abituali».

Un ulteriore e più risalente esempio è offerto da Cass. Pen., sez. VI, sentenza n. 11997/2018 in cui si argomenta in questi termini: «Che le intercettazioni richiamate avessero captato conversazioni scambiate con un linguaggio criptico emerge senz’altro dalle motivazioni, ma, come si è appena constatato, le “traduzioni”, peraltro non specificamente giustificate, dei giudici di merito non costruiscono un apparato motivazionale sufficiente a supportare l’imputazione per cui il D.B. è stato condannato. Se è vero, infatti, che la prova dei reati di illecita detenzione e di spaccio non deriva soltanto dal rinvenimento dello stupefacente, potendosi desumere anche da altre risultanze probatorie (cfr. Cass. sez. 4, 18 novembre 2009 n. 48008; Cass. sez. 4, 28 ottobre 2005 n. 46299; Cass. sez. 6, 14 ottobre 1986 n. 13904) – al punto che si è recentemente affermato (per quanto in difformità rispetto a un altro, non remoto arresto: Cass. sez. 6, 16 ottobre 2008 – 19 gennaio 2009 n. 1870) che pure l’aggravante di ingente quantità D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 80, comma 2, può ritenersi sussistente in difetto di sequestro della sostanza, purché vi siano elementi di prova certi che consentono di pervenire indirettamente alla individuazione del dato quantitativo, come, appunto, le conversazioni telefoniche intercettate (così Cass. sez. 4, 5 luglio 2013 n. 46194) -, è parimenti da considerare, però, che, se gli elementi a carico di un soggetto consistono in mere dichiarazioni senza riscontri oggettivi, la loro valutazione deve essere espletata dal giudice con particolare attenzione e rigore, ovvero in proporzione al contenuto limitato del compendio probatorio (cfr. p.es. Cass. sez. 6, 19 dicembre 2013-31 gennaio 2014 n. 5073, per l’ipotesi, affine, in cui gli elementi a carico consistano esclusivamente in intercettate dichiarazioni fra terzi)».

Le condizioni e i limiti della prova indiziaria nei giudizi di “droga parlata”

In via generale la giurisprudenza di legittimità è propensa ad ammettere che la prova indiziaria nei processi di “droga parlata” possa estendersi ad ognuno dei temi probatori di rilievo purché, tuttavia, gli indizi raggiungano l’alto grado di credibilità razionale di cui si è detto in precedenza.

Si può pertanto ritenere raggiunta la prova della presenza del principio attivo anche senza sequestri e accertamenti tossicologici ma sempre e solo se tale elemento risulti con adeguata evidenza dal compendio degli altri elementi conoscitivi disponibili.

È quanto chiarisce, ad esempio, Cass. Pen., sez. VI, sentenza n. 47523/2013, secondo cui <<È vero che la cassazione ha riconosciuto che il giudice di merito, anche in assenza delle analisi chimiche, può desumere la presenza del principio attivo di una sostanza drogante da diverse fonti di prova acquisite agli atti, ma deve comunque trattarsi di elementi significativi, in grado di sostituire i risultati di una perizia e nel caso di indizi – come nella specie – devono avere le caratteristiche cui si riferisce l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. Tali valutazioni devono avere un rigore particolare nei casi, sempre più frequenti, in cui i processi in materia di stupefacenti si basano esclusivamente sui risultati delle intercettazioni (c.d. “droga parlata”), senza che sia operato il sequestro della sostanza, quindi in assenza della prova che si tratti effettivamente di “droga”, di quale tipo e di quale consistenza quantitativa e qualitativa.

Del resto, se il giudice non ha alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualità e la quantità del principio attivo di una sostanza drogante, dall’altro lato grava sul pubblico ministero il rischio di una mancata prova in ordine agli elementi a carico dell’imputato, con la conseguenza che appare corretto, in tali ipotesi, riconoscere la sussistenza del reato di cui all’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, considerando che il mancato accertamento della percentuale di principio attivo, per la regola del favor rei, deve risolversi a favore dell’imputato>>.

Lo stesso principio si applica alla dimostrazione del tentativo.

Si legge infatti in Cass. Pen., sez. III, sentenza n. 7806/2018, che «integra il tentativo la condotta che, collocandosi in una fase antecedente all’acquisto della proprietà della droga destinata ad essere trasferita, si presenti come idonea ed univocamente diretta alla conclusione di tale accordo traslativo, dando vita ad una trattativa sul cui positivo esito risulti che — per la natura, la qualità ed il numero dei contatti intervenuti — i contraenti abbiano riposto concreto affidamento».

È degno di nota che in tale pronuncia si ribadisca il principio secondo cui la prova dei reati di spaccio di stupefacente può essere desunta anche da circostanze diverse dal suo rinvenimento ed anche in difetto di relativo sequestro, ma in questi casi, in cui gli elementi a carico consistono solo in intercettazioni telefoniche, la valutazione del giudice (nella sua applicazione della regola di inferenza) deve essere effettuata con particolare attenzione e rigore ed in proporzione al compendio probatorio (indiziario).

Tali circostanze sono state così indicate dalla citata decisione: «la trattativa affidante potrà evidenziarsi in quelle specifiche condotte assunte dalle parti che esprimano una seria volontà di concludere un accordo (a mero titolo esemplificativo, non certo esaustivo, la condotta di recarsi all’estero, incontrare i venditori, assaggiare il prodotto, discutere dell’affare in più occasioni, cercando l’accordo, prospettando il prezzo, il quantitativo, il luogo di consegna, pur senza concretamente raggiungere tale accordo relativamente a detti elementi).

Tale ipotesi non ricorrerà solo allorché, nel caso concreto rimesso all’esame del giudice di merito, emergano condotte che non evidenziano una seria volontà di raggiungere l’accordo (es. meri contatti informativi non seguiti da condotte concrete di avvicinamento)».

Conclusioni

Il caso della “droga parlata” rientra a buon diritto tra quelli nei quali la capacità dimostrativa della prova indiziaria è sottoposta a ragione a test severi di affidabilità.

Aumenta infatti lo spazio affidato al potere discrezionale del giudice ed è bene che il suo uso sia sottoposto a cautele adeguate.