Il rilancio dell’UCPI sulla separazione delle carriere: qualche impressione personale (di Vincenzo Giglio)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo (allegandola alla fine del post) la recentissima delibera con cui l’UCPI attualizza e rilancia la campagna per la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri e si organizza in modo diffuso su tutto il territorio nazionale per darle il massimo risalto presso l’opinione pubblica e i decisori politici.

Comprendiamo bene quanto sia alto il valore simbolico dell’obiettivo per l’avvocatura penalistica associata e quale riequilibrio di sistema potrebbe verificarsi se il tentativo avesse successo.

Ci concediamo tuttavia qualche spazio riflessivo, mutuato in massima parte dallo scritto Separazione delle carriere: serve davvero? pubblicato il 23 luglio 2021 su Filodiritto.

La diagnosi

I sostenitori della necessità epocale del progetto separatista hanno notevoli argomenti dalla loro parte.

Gli basta evocare il cosiddetto “scandalo Palamara” per arrivare a stringenti conclusioni: gli uffici del pubblico ministero sarebbero il centro di comando della giustizia penale; tutto ciò che conta nei procedimenti penali avverrebbe nella fase delle indagini preliminari dominata dalle Procure; le forme e i luoghi delle successive fasi giurisdizionali sarebbero soltanto miseri simulacri la cui unica funzione è ratificare verità decise prima e a prescindere e come tali insensibili al contraddittorio tra le parti; la difesa sarebbe un ospite sgradito e tollerato con malcelato fastidio.

Chi spinge per la separazione constata poi – e anche in questo caso gli è sufficiente mettere in fila le cronache degli ultimi anni – altri fatti significativi: la gerarchizzazione delle Procure dovuta alla riforma Mastella ha trasformato i loro capi in potenti feudatari, dotati di autonomi poteri di giustizia esercitabili al di fuori di ogni possibilità di controllo e senza dover rendere conto ad alcuno del loro uso e dei loro risultati; tanto più è importante un territorio tanto maggiori sono i poteri del capo della Procura che vi è insediata, al punto che la direzione di Procure come quelle di Milano e Roma conferisce a chi la detiene un potere e un’influenza negli equilibri nazionali paragonabili a quelli di un leader politico o di un esponente istituzionale di primo piano.

I fautori della separazione hanno ancora buon gioco allorché affermano che il complesso di queste condizioni di fatto ha alterato significativamente gli equilibri e i contrappesi sui quali si regge l’architettura istituzionale italiana: il potere giudiziario ha acquisito da decenni un’inedita centralità che gli conferisce la capacità non solo di ostacolare le funzioni e gli scopi del legislativo e dell’esecutivo ma addirittura di influenzarne l’esercizio in direzioni corrispondenti ai suoi scopi di parte; al tempo stesso la politica, piuttosto che contrastare in modo trasparente questa deriva, la asseconda e recupera almeno in parte un suo ruolo inserendosi indebitamente nei meccanismi decisionali dai quali dipende la scelta dei capi delle Procure; ne deriverebbe quindi un consociativismo indistinto che lega e fonde interessi e prospettive che dovrebbero rimanere separati.

Si osserva infine che la base della magistratura, pur composta in larga maggioranza da giudicanti, ha accettato acriticamente il predominio della sua parte inquirente tanto che nell’organigramma di vertice dell’ANM i magistrati del pubblico ministero hanno il predominio pur rappresentando una quota minoritaria del potere giudiziario.

La cura

Si afferma la necessità di riformare l’ordinamento giudiziario creando due ordini separati laddove oggi ce ne è uno solo: i magistrati del pubblico ministero da un lato e i magistrati giudicanti dall’altro; ci sarebbero di conseguenza due distinti Consigli superiori della magistratura.

Se questa riforma fosse attuata – si dice – sarebbe assai agevolato l’obiettivo finale: pubblici ministeri indipendenti dalla politica; giudici indipendenti dai pubblici ministeri.

L’immagine

Non è difficile comprendere cosa hanno in mente i sostenitori del progetto separatista.

Non ci sarebbe più il PM che gli italiani hanno imparato a temere o venerare.

Il suo posto sarebbe preso dall’avvocato dell’accusa: pur sempre un funzionario pubblico, si capisce, ma un funzionario spogliato dell’arroganza connaturata ai fasti passati, che bussa timidamente e rispettosamente alle stanze dei giudici (magari aspettando in fila il suo turno, con tutta la pazienza necessaria), che deposita le sue istanze e attende con altrettanta pazienza le risposte, che si siede in aula con circospezione dopo esservi arrivato puntualmente e che sta attento a non debordare dal suo ruolo perché ogni tentativo di tracimazione sarebbe severamente redarguito da un giudice severo e millimetricamente imparziale, che non promuove azioni temerarie e presta attenzione ad ognuno dei riflessi della sua attività funzionale.

Non solo: finirebbe d’incanto la marea di esternazioni, proprie dei PM, che hanno tolto la gioia di vivere a tanti connazionali. Non per una regola ordinamentale ma per un naturale riassetto del ruolo: si è mai visto un funzionario dell’Agenzia delle Entrate convocare una conferenza stampa per esternare la sua feroce opposizione a questo o quel progetto di riforma del fisco? Si è mai sentito un qualche dirigente delle Dogane che arringa le folle perché il contrabbando è punito troppo blandamente? No, mai, appunto.

I dubbi

Ma stanno davvero così le cose?

O meglio: senza minimizzare la piacevolezza di quell’immagine, la diagnosi e la cura sono davvero corrette?

C’è più di un dubbio su questo.

L’assunto centrale, come si è visto, è che il giudice penale sia diventato servo del PM o quantomeno acriticamente propenso ad assecondarne ogni richiesta, perfino le più assurde e infondate.

Ma non è questo ciò che suggerisce l’analisi delle grandi direttrici della giustizia penale.

Se, tanto per fare un primo esempio, si osserva in modo sinottico la giurisprudenza di legittimità di questi nostri anni, fatta non da PM ma da giudici, si constata una progressiva erosione dello statuto garantistico degli individui sottoposti a procedimento penale.

Se, per fare un secondo esempio, si leggono le relazioni annuali del ministero della Giustizia sull’uso del potere cautelare e si constata l’uso non sempre corretto di tale potere, è di giudici che si parla, delle loro attività funzionali, dei loro poteri di vigilanza e controllo e decisione sulle iniziative del PM.

E se si sposta lo sguardo sull’ambito delle intercettazioni e si scorgono prassi applicative talvolta disinvolte e censurabili, chi le ha varate se non giudici?

Si dovrebbe allora convenire che la tracimazione dei PM e l’infusione degli animal spirits accusatori nei giudizi penali sono avvenuti solo in quanto consentiti e condivisi da giudici.

Si dice ancora che la separazione delle carriere contribuirebbe a recidere il cordone ombelicale tra PM e politica.

Non si capisce davvero come ma, a prescindere da questo dettaglio, sono i PM a dipendere dalla politica o è piuttosto vero il contrario?

Da quanti anni leggiamo dichiarazioni di esponenti politici di primo piano che affermano esplicitamente di ispirare la loro azione alle direttrici indicate da questo o quel PM? E quante formazioni politiche hanno adottato manifesti ideologici e programmatici apertamente ispirati a battaglie la cui necessità è stata affermata in prima battuta non da loro stessi ma da magistrati dell’accusa? E in quanti Paesi di democrazia avanzata potrebbe capitare che una proposta di riforma della giustizia penale sia censurata pubblicamente e con grande risalto mediatico da pubblici ministeri in servizio senza che poi nessuno gliene chieda conto, come senza dubbio si farebbe con un prefetto che criticasse il ministro per l’Interno o col comandante di una capitaneria di porto che sbuffasse contro il ministro delle Infrastrutture?

Se dunque i PM fossero separati dai giudici, avremmo migliori PM e migliori giudici e, soprattutto, la giurisdizione penale sarebbe in grado di depurarsi dai forti squilibri che l’affliggono? Non pare.

Alla separazione dei PM seguirebbe d’incanto il ripristino di un armonioso rapporto tra magistratura e politica? Non pare neanche questo. Cesserebbero gli appetiti politici sulle grandi nomine, l’uso di criteri discutibili pur di agevolare le nomine più coerenti agli equilibri correntizi e alle aspettative delle lobbies esterne? Sembra proprio di no.

E allora che fare?

E allora, se questo non serve, cosa servirebbe?

La pur criticatissima riforma Cartabia ha finalmente introdotto più incisivi strumenti di verifica giurisdizionale dell’operato dell’accusa nelle fasi che precedono il giudizio.

È un inizio e potrebbe seguire un reale cambiamento se le prassi applicative ne cogliessero e potenziassero il significato e gli effetti.

Servirebbe un deciso recupero dei fondamenti della cultura garantista che la Costituzione pretende ogni qualvolta lo Stato-giustizia esercita la sua pretesa punitiva nei confronti di un individuo.

Servirebbe attenzione ai sempre trascurati profili organizzativi dell’amministrazione della giustizia.

Servirebbero donne e uomini che, quale che sia il loro ruolo all’interno del potere giudiziario, lo esercitino con umiltà, intelligenza, consapevolezza, servendo solo la loro coscienza.

Servirebbe, così come sta già avvenendo, un’avvocatura associata che dia anima alla funzione difensiva e si intesti con decisione (non dovrebbe essere difficile data l’assenza di concorrenti reali in ambito politico) la guida del movimento a difesa dei diritti e delle libertà di chi subisce l’iniziativa penale.

E servirebbero infine avvocati che, consapevoli di essere parte di quel movimento, interpretino la funzione difensiva all’insegna del massimo delle competenze, della specializzazione, della costante evoluzione dei loro saperi.

Non è sicuro ma potrebbe essere che così funzioni.