Ieri molti quotidiani hanno dato la notizia di un decreto di archiviazione (allegato alla fine del post) emesso dal collegio per i reati ministeriali del tribunale di Roma.
Ne sono stati destinatari l’ex premier Giuseppe Conte e gli ex ministri Roberto Speranza, Luciana Lamorgese, Lorenzo Guerini, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri e Alfonso Bonafede.
A tutti loro erano state contestate le ipotesi di reato di cui agli artt. 110, 438 e 452 (epidemia colposa) e 589 (omicidio colposo) cod. pen. ed ancora di cui agli artt. 323 (abuso d’ufficio), 283 (attentato contro la Costituzione dello Stato) e 294 (attentato contro i delitti politici dei cittadini) cod. pen.
Il procedimento penale incardinato presso la procura della Repubblica di Roma era nato a seguito della presentazione di una congerie di denunce ed esposti fondati su tesi assai diverse tra loro.
Un primo gruppo era giustificato sul presupposto che vi fossero state inefficienze e ritardi del Governo nell’adozione delle misure organizzative e restrittive necessarie a fronteggiare l’emergenza legata alla diffusione del virus COVID 19.
A tali notizie di reato hanno corrisposto le contestazioni di epidemia colposa e omicidio colposo plurimo.
Un secondo gruppo di denunce era accomunato dalla tesi che la condotta complessiva del Governo avesse violato diritti politici, sociali ed economici dei cittadini e ad essa sono seguite le restanti contestazioni menzionate in precedenza.
Secondo i denuncianti, il vulnus ai diritti dei cittadini sarebbe stato realizzato in particolare attraverso la decretazione d’urgenza che, mistificando ed esagerando la portata dei fatti, avrebbe immotivatamente ristretto le libertà individuali e provocato gravi danni all’economia nazionale.
Un terzo gruppo era costituito da “denunce ambivalenti” tra le quali spiccava quella presentata dal Movimento dei gilet arancioni guidato dal generale Pappalardo fondata su un asserito piano di sovvertimento dell’ordine mondiale che sarebbe stato concepito dal Club Bildeberg e del quale la pandemia avrebbe rappresentato un asse portante.
Già questa sintesi sommaria consente di comprendere che agli esponenti governativi venivano mossi rimproveri irriducibilmente confliggenti tra loro: ritardi colpevoli da un lato, misure illegittime dall’altro, deliberata sopravvalutazione dei pericoli per la salute pubblica dall’altro ancora.
Il collegio per i reati ministeriali non si è sottratto al confronto con alcuno di essi ed ha motivato con ordine le sue scelte.
Ha escluso la ricorrenza dell’epidemia colposa, richiamando l’indirizzo interpretativo di legittimità per il quale tale delitto è a forma vincolata e richiede la propagazione, volontaria o colpevole, di germi patogeni dei quali il soggetto agente abbia la disponibilità, eventualità, questa, non ricorrente nel caso in esame.
Ciò comporta che il reato può essere compiuto solo in forma commissiva e non gli si attaglia il disposto dell’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo il quale “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo“, perché la rilevanza penale dell’omesso impedimento si manifesta solo per i reati a forma libera.
Di più: il collegio ha escluso la ricorrenza dell’elemento soggettivo, aderendo alle osservazioni del PM, secondo il quale “nei periodi iniziali della diffusione del virus la valutazione comparativa degli interessi in gioco non poteva che basarsi da un lato su dati epidemiologici incompleti, spesso non ancora sistematizzati e fatalmente imprecisi, e dall’altro su una percezione progressiva, confusa e caotica delle ricadute negative soprattutto sul piano economico, delle misure restrittive adottate, In tale situazione non è neppure astrattamente ipotizzabile che il Governo, in un determinato giorno e sulla base di determinate informazioni fosse tenuto ad assumere determinate misure restrittive, trattandosi di una valutazione che al più può essere fatta a posteriori e che non può comunque prescindere dai complessi compiti istituzionali allo stesso affidati dalla carta costituzionale“.
Ugualmente infondata, a giudizio del collegio, si è rivelata l’accusa di omicidio colposo plurimo.
Ciò perché “le restrizioni dei movimenti e le altre regole di prevenzione – tra cui quelle invocate dai denuncianti – hanno l’effetto generale di contenimento e rallentamento dei contagi ma non sono risolutive, per cui la tempistica dei decreti del Governo può eventualmente influire sul rischio di maggiore esposizione a contagio secondo considerazioni generali di natura scientifica ma non prova la rilevanza causale nella determinazione dei decessi individuali, Per verificare la colpevolezza si dovrebbe conoscere la genesi del contagio delle singole vittime e stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che misure di contenimento che non siano state adottate dal Governo, o disposte in ritardo, avrebbero evitato il contagio e l’esito letale. Ma gli strumenti scientifici non sono in grado di accertare tali circostanze e non è possibile escludere responsabilità di terzi, considerato che la diffusione del virus dipende in buona parte dai comportamenti virtuosi della collettività e le norme di prevenzione non determinano un isolamento totale del singolo individuo che può accidentalmente venire a contatto con una fonte di infezione. Lo conferma l’alto numero di decessi che ancor oggi continua a registrarsi nonostante le chiusure, i divieti, la facile reperibilità dei dispositivi sanitari“.
È stata poi liquidata in poche battute e come fantasiosa la tesi dell’inesistenza della pandemia assieme ai suoi corollari di matrice complottista.
Lo stesso destino è stato riservato, sia pure con un maggiore impegno argomentativo, alle denunce volte ad accreditare un’illegittima compressione dei diritti costituzionali dei cittadini e, addirittura, un uso strumentale di atti aventi forza di legge.
Il collegio ha avuto buon gioco ad escludere qualsiasi profilo di irragionevolezza nella gestione della prima fase dell’evidenza pandemica e nelle restrizioni di quei diritti, attese la loro dipendenza dalla necessità di proteggere il diritto alla salute, l’inefficacia di misure alternative meno invasive, la loro temporaneità e, soprattutto, la loro dimostrata utilità.
Di pari rilievo, sempre in relazione al medesimo ambito, la sicura classificazione dei provvedimenti governativi alla stregua di atti politici, come tali insindacabili in sede penale.
In coerenza a questo complesso di argomentazioni, il collegio per i reati ministeriali ha disposto l’archiviazione.
Il decreto di cui si parla risale al 18 maggio 2021 eppure viene alla ribalta in questi giorni e certo non stupisce che il suo interesse mediatico sia straordinariamente attuale.
Le considerazioni giuridiche che hanno portato all’archiviazione, peraltro prive di qualunque aspetto innovativo posto che richiamano orientamenti interpretativi di legittimità manifestatisi da anni e riproposti senza variazioni, significherebbero il De profundis per l’inchiesta bergamasca se avallate dai giudici che saranno chiamati a valutarne la capacità di pervenire a decisioni di responsabilità degli indagati.
È e sarà un rischio latente assai alto che fin d’ora minimizza la capacità di quell’inchiesta di resistere alle verifiche alle quali sarà sottoposta.
Si porranno varie domande, ivi comprese quelle sull’opportunità di impegnare la giurisdizione in un’impresa così rischiosa.
Si vedrà, questo solo si può dire allo stato.
