Cass. pen., Sez. 3^, sentenza n. 5580/2023 (udienza dell’8 novembre 2022) ha ad oggetto il rapporto tra il decreto penale opposto e la sentenza che segue all’opposizione e chiarisce cosa è consentito e cosa è vietato al giudice.
Ciò che più conta, afferma che il giudice non può infastidirsi per l’impugnazione e tantomeno può punire l’opponente aggravando indebitamente la pena.
Motivi di ricorso
Il difensore dell’imputato ricorre per cassazione contro la sentenza della Corte territoriale che ha confermato la decisione di condanna del giudice di primo grado.
Qui interessa lo specifico motivo con il quale il difensore prospetta la violazione di legge e il vizio dii motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen.) in relazione al complessivo trattamento sanzionatorio, anche con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Il ricorrente assume che la sentenza impugnata avrebbe valorizzato la gravità dei fatti per confermare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e negare un più benevolo trattamento sanzionatorio, sottolineando, al pari della sentenza di primo grado, la mancanza di elementi favorevoli.
Osserva come le sentenze di merito appaiano se non altro “distoniche” rispetto al giudizio espresso dal requirente e dal GIP che avevano, all’esito della conclusione della fase investigativa, rispettivamente richiesto ed accolto, l’emissione del decreto penale di condanna, ritenendo che i fatti non fossero di eccessiva gravità, tanto da ritenersi congrua una risposta sanzionatoria “contenuta” in termini monetari e non detentivi, e che il ricorrente fosse meritevole della concessione delle circostanze attenuanti generiche.
In mancanza di diversi elementi, emersi nel corso dei (due) giudizi di merito, che potessero giustificare un trattamento sanzionatorio molto più severo e il conseguente diniego delle attenuanti generiche, la sentenza impugnata sarebbe incorsa nei vizi di violazione di legge e di motivazione denunciati, non potendosi ritenere che la scelta dell’imputato di richiedere un giudizio di merito per sostenere le sue ragioni potesse giustificare la sanzione comminata e il diniego di concessione delle attenuanti generiche, posto che il comportamento processuale dell’imputato non si è caratterizzato per comportamenti ostruzionistici né dilatori, tesi ad impedire l’accertamento del fatto, sicché la diversa valutazione – in negativo – della intera vicenda avrebbe imposto una pur minima motivazione.
Sentenza della Corte di cassazione
Il collegio di legittimità ha accolto il motivo.
Ha ricordato che, nei rapporti fra decreto penale di condanna e sentenza conclusiva del giudizio conseguente ad opposizione, il giudice può, con tutta evidenza, infliggere all’imputato, con la sentenza di condanna, una pena più grave di quella fissata nel decreto e revocare benefici (art. 464, comma 4, cod. proc. pen.), ma nel farlo deve dimostrare, con accurata motivazione e senza il ricorso a clausole di stile, di aver tenuto conto dei criteri direttivi indicati nell’art. 133 cod. pen. per la determinazione della pena, dovendosi evitare che la reformatio in pejus divenga una sanzione atipica per l’esercizio di un diritto del condannato, e pertanto non può fondare la propria decisione sulla gravità del reato, gravità affermata, nella specie, apoditticamente, atteso che, per lo stesso fatto, non solo erano state concesse le attenuanti generiche ma erano state applicate anche le sanzioni sostitutive e, nel giudizio di opposizione, l’imputato era stato assolto da una delle imputazioni originariamente elevate; né può affermare l’insussistenza circa l’esistenza di elementi positivi di valutazione, in presenza di un motivo di appello indicativo, secondo il ricorrente, di ragioni sufficienti per ottenerle.
La sentenza impugnata è stata pertanto annullata con rinvio limitatamente al punto concernente le attenuanti generiche.
Massima
Nel rapporto fra decreto penale di condanna e sentenza conclusiva del giudizio conseguente ad opposizione, il giudice può infliggere all’imputato, con la sentenza di condanna, una pena più grave di quella fissata nel decreto e revocare benefici già concessi (art. 464, comma 4, cod. proc. pen.) ma nel farlo deve dimostrare, con accurata motivazione e senza il ricorso a clausole di stile, di aver tenuto conto dei criteri direttivi indicati nell’art. 133 cod. pen. per la determinazione della pena, dovendosi evitare che la reformatio in pejus divenga una sanzione atipica per l’esercizio di un diritto del condannato.
Commento
La vicenda commentata e la condivisibile soluzione offerta dalla Corte di cassazione portano alla luce un atteggiamento giudiziario decisamente censurabile.
All’elusione indebita di questioni legittimamente e fondatamente poste dalla difesa si unisce infatti l’impressione, correttamente colta dai giudici di legittimità, di una sorta di fastidio verso l’impugnazione cui segue l’inflizione del castigo di un inasprimento del trattamento sanzionatorio avulso dalla reale consistenza del fatto.
Una punizione, né più né meno, che nulla ha a che fare con la giustizia.
