“Delocalizzazione” delle mafie storiche e rapporti tra “cellule figlie” e “casa madre” (di Vincenzo Giglio)

Cass. pen., Sez. 2^, sentenza n. 7319/2023 (udienza del 18 novembre 2022), opera un’utile ricognizione della fattispecie mafiosa, ponendo in particolare l’accento sulla “delocalizzazione” delle mafie storiche e sugli orientamenti interpretativi che accompagnano tale fenomeno.

La ratio normativa dell’associazione mafiosa

La fattispecie associativa delineata dall’art. 416-bis cod. pen., è stata introdotta nel “sistema” dei reati associativi per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà associative più “complesse” delle ordinarie associazioni criminali, in quanto “storicamente” dedite alla “sopraffazione” di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica.

Il legislatore, peraltro, non si è limitato a registrare realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita, ecc., da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo – particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio e “fama” criminale da “spendere” come arma di pressione nei confronti dei consociati, ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire “parallelo”, destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni (anche straniere) che, malgrado prive di un nomen e di una storia criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note (da ultimo con riguardo alle cd. mafie di nuova costituzione v. Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, Rv. 278745-02).

Eterogeneità degli elementi tipizzanti delle varie compagini criminali

Con riferimento alle finalità perseguite, gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi avuti di mira dalle associazioni di stampo mafioso possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale – tipica di tutte le associazioni per delinquere – allo svolgimento di attività in sé lecite, come l’acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti; all’impedimento o all’ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o per procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Un “mosaico” dunque, di finalità, tanto ampio che mal si concilia con l’individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di “tipo mafioso”.

Nucleo essenziale della fattispecie incriminatrice

Deve ritenersi che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nel terzo comma dell’art. 416-bis cod. pen., laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell’associazione mafiosa – in sostanza„ quelle finalità che si qualificano solo se c’è uno specifico “metodo” che le alimenta – delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini.

La specificità della ‘ndrangheta

Nel caso delle c.d. locali di ‘ndrangheta assume particolare rilievo il collegamento della struttura territoriale con la casa madre. Infatti, proprio in forza dell’adozione di un modulo organizzativo che ne riproduce i tratti distintivi, caratterizzandone l’intrinseca essenza e perciò lasciando presagire il pericolo per l’ordine pubblico, si è affermato che il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice. Con particolare riguardo ad un’articolazione in una cittadina svizzera di un clan della ‘ndrangheta radicato in Calabria, si è osservato che i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della “ndrangheta anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria (cfr., Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, Rv. 273093-01; Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Rv. 270290-01; Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, Rv. 281811-01).

Metodologia mafiosa e sua differenziazione secondo i fini perseguiti

La metodologia mafiosa che fa capo ad associazioni a diffusione variegata sul territorio nazionale si salda a filo doppio con la natura delle attività che costituiscono il fine del sodalizio stesso. Altro è infatti misurare il concetto di forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva ove il fine cui questa metodologia e questo “stato di fatto” sono orientati sia rappresentato dalla commissione di specifici fatti criminali; altro è analizzare gli stessi connotati tipizzanti ove invece il fine perseguito sia quello di operare una ulteriore locupletazione del sodalizio attraverso l’assunzione o il controllo di attività economiche in sé in tutto lecite. In tale prospettiva, risulta evidente come la manifestazione esteriore del sodalizio abbia connotati e caratteri di appariscenza differenziati, in quanto la illiceità che permea ontologicamente il fine, ove questo sia delittuoso, non altrettanto si caratterizza nella ipotesi in cui la locale intenda perseguire finalità di investimento, locupletazione e accrescimento delle potenzialità economiche dell’intero gruppo.

“Locali” mafiose

L’ormai diffuso concetto di “locale” che caratterizza le estrinsecazioni per così dire extra-moenia delle varie organizzazioni ‘ndranghetiste assume i connotati non di una semplice “delocalizzazione” del gruppo madre, ma di una realtà che, pur permanendo stretti vincoli rispetto alla associazione di origine, ha pur sempre un connotato di autonomia strutturale, funzionale e operativa che finisce per autoalimentarsi ma al tempo stesso per manifestare all’esterno la capacità diffusiva di un’organizzazione così peculiarmente articolata.

Problematica, questa, non ignota alla giurisprudenza di legittimità, che in più occasioni si è soffermata sulla cd. articolazione “cellulare” delle organizzazioni di stampo terroristico eversivo, ove la riconducibilità della cellula “figlia” al tipo delineato dall’art. 270-bis cod. pen., si deve principalmente alla sua natura strumentale rispetto alla realizzazione degli obiettivi criminali perseguiti dall’organizzazione “madre”, sia pure attraverso un rapporto di tipo “smaterializzato” (Sez. 2, n. 7808 del 04/12/2019, dep. 2020, Rv. 278680-02).

“Delocalizzazione” delle mafie storiche e rapporto tra “cellule figlie” e “casa madre”

Da ciò può già desumersi un primo corollario. Come chiaramente emerge dallo stesso tenore delle conversazioni intercettate e dai singoli fatti “sintomatici” puntualmente indicati nell’ordinanza cautelare e nel provvedimento oggetto di ricorso, la locale romana è stata “costituita” con l’evidente beneplacito della casa “madre”, la cui fama ed il cui prestigio non possono essere messi in discussione sulla scorta dei diversi giudicati al riguardo intervenuti e in forza dell’esito degli altri procedimenti richiamati, con l’ovvia conseguenza che il modo di essere delle penetrazioni in variegati settori economici fosse per un verso finalizzato alla “occupazione” dei diversi settori presi di mira, mentre sotto altro profilo è proprio quel prestigio e quelle modalità di occupazione a rendere emblematico l’impiego di una metodologia tipica di quella consorteria e non certo ignota a quanti con essa avevano a che fare. Significativo a questo riguardo il rapporto “non conflittuale” che la locale intendeva stabilire con altre organizzazioni criminali proprio per consentire un’attività il meno appariscente possibile di penetrazione e di controllo di settori sempre più vasti della economia cittadina. In questo quadro di riferimento, è evidente come non si richiedessero espliciti atteggiamenti di eclatante intimidazione, di coercizione o comunque di violenza in quanto l’obiettivo non era e non è quello della sopraffazione fisica o morale di quanti venivano in contatto con i vari personaggi della locale, ma all’inverso, quello di consentire l’appropriazione di settori economici che escludessero di fatto un fisiologico libero mercato a tutto vantaggio di una gestione “seppur settoriale” di tipo “monopolistico”.

Di conseguenza, viene in rilievo il principio di diritto secondo cui la reale connotazione delle forme di “delocalizzazione” delle “mafie storiche” e della ‘ndrangheta in particolare – in ragione delle peculiarità strutturali, organizzative ed operative – connotata da forme di vere e propria colonizzazione dei territori nei quali decide di estendere la propria forza egemonica, risiede nell’intrinseca, e non implicita, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ‘ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento (cfr., Sez. F, n. 56596 del 03/09/2018, Rv. 274753-01; Sez. 2, n. 31920 del 04/06/2021, Rv. 281811-01; cfr. pure Sez. 2, n. 27808 del 14/03/2019, Rv. 276111-01: «la esteriorizzazione della forza di intimidazione come manifestazione percepibile del metodo mafioso delle associazioni riconducibili al paradigma normativo previsto dall’art. 416-bis cod. pen. è […] necessaria solo ove il gruppo criminale debba accreditarsi nel contesto sociale nel quale intende operare e non quando […] si ricolleghi chiaramente ad una organizzazione storica, della quale eredita il capitale criminale»; nonché Sez. 2, n. 12362 del 02/03/2021, Rv. 280997-01; Sez. 5, n. 28722/2018, cit.; Sez. 2, n. 24850 del 28/03/2017, Rv. 270290-01; Sez. 5, n. 7575 del 25/11/2021, dep. 2022).

Massima

La reale connotazione delle forme di “delocalizzazione” delle “mafie storiche” e della ‘ndrangheta in particolare – in ragione delle peculiarità strutturali, organizzative ed operative – connotata da forme di vere e propria colonizzazione dei territori nei quali decide di estendere la propria forza egemonica, risiede nell’intrinseca, e non implicita, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ‘ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento.